“Un viaggio tra i libri più amati, che Bianca Pitzorno ripercorre con la felicità della sua grande arte narrativa”. Su ilLibraio.it un capitolo (“Anna Karenina due tre e quattro”) dal nuovo libro della scrittrice, amatissima (anche all’estero) da generazioni di lettrici e lettori

“Un viaggio tra i libri più amati, che Bianca Pitzorno ripercorre con la felicità della sua grande arte narrativa”.

Così Nicola Gardini, autore, docente e presidente della casa editrice Salani, introduce il nuovo libro di una delle autrici italiane più amate, da lettori di ogni età: Donna con libro – Autoritratto delle mie letture, come sottolinea la stessa Bianca Pitzorno, “non vuole essere un saggio sulla lettura né tantomeno sulla letteratura, ma una sorta di memoir, una galoppata tra i ricordi, una serie di riflessioni a ruota libera sui libri che in epoche diverse sono entrati nella mia vita e l’hanno influenzata. Considerato che a sette anni già leggevo correntemente e che sto per compierne ottanta, un tempo lunghissimo. Non li racconterò in ordine strettamente cronologico, ma andando su e giù negli anni, seguendo le relazioni tra le cose e i fatti e le associazioni dei pensieri. Non li racconterò proprio tutti: molti mi sfuggiranno, e comunque un elenco troppo lungo vi annoierebbe”.

Aggiunge Pitzorno, autrice amatissima, nella prefazione: “Chiedo scusa se userò spesso i termini propri dei rapporti amorosi, come colpo di fulmine, passione e appassionarsi, innamorarsi, amare, amato e adorato. Però sono le parole più adatte per definire i miei sentimenti, le mie reazioni ogni volta che incontro un autore o un’autrice che sento affine, in cui mi riconosco, nel cui mondo vorrei entrare. Ogni volta che trovo in un libro vicende, sentimenti, personaggi, argomenti che mi conquistano. Che suscitano in me amore, passione, incanto, entusiasmo, ma anche dolore, rabbia, indignazione”.

Nata a Sassari nel 1942, Bianca Pitzorno vive e lavora a Milano dal 1968. Già funzionaria Rai addetta ai programmi culturali tv con Raffaele Crovi, ha poi collaborato alla Televisione della Svizzera Italiana. Ha scritto scenografie, testi teatrali e per canzoni. Nel 1996 l’Università di Bologna le ha conferito la laurea honoris causa in Scienze della Formazione.

Dal 1972 al 2022 ha pubblicato circa settanta libri tra saggi, biografie, romanzi per adulti e, all’inizio, moltissimi per ragazzi. Le sue opere sono tradotte in Europa, in Asia, in Australia e in America. Nella versione originale italiana hanno venduto più di due milioni di copie. A sua volta Pitzorno ha tradotto J. R. R. Tolkien, Sylvia Plath, David Grossman, Soledad Cruz e Mariela Castro.

Fra i suoi titoli più conosciuti quelli più recenti, La bambina col falcone, Vita di Eleonora d’Arborea, L’incredibile Storia di Lavinia, Ascolta il mio cuore, La vita sessuale dei nostri antenati, Il sogno della macchina da cucire, Sortilegi e Piante di via Romolo Gessi.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione dell’autrice, proponiamo un capitolo:

ANNA KARENINA DUE TRE E QUATTRO

Non molti anni fa mi accingevo a fare un trasloco lungo e faticosissimo. Nei tre mesi in cui durò la sua preparazione ero così stanca che non riuscivo a concentrami nella lettura. Quando arrivavo in fondo alla pagina non ricordavo più quello che avevo letto nelle prime righe della stessa. Eppure, allora come oggi, di notte non riuscivo a addormentarmi se non avevo dedicato almeno un’ora abbondante alla lettura.

Così decisi che non avrei affrontato nuovi romanzi, di cui avrei dovuto scoprire la trama, ma che ne avrei riletto qualcuno che già conoscevo e ricordavo, per cui la mancanza di concentrazione non mi avrebbe impedito di seguirne la storia. Feci una scelta che ancora oggi fa sorridere i miei amici. Per tre mesi rilessi, alternativamente – una notte un autore e una notte l’altra – i sette volumi della Recherche e i sette di Harry Potter. Scoprendovi, come succede sempre a ogni rilettura, nuovi dettagli, nuove atmosfere.

Qualche rara volta mi è capitato di rileggere un libro immediatamente dopo averlo terminato, perché non riuscivo a separarmi dai suoi personaggi e anche per godermi meglio dei passaggi che, nella fretta di sapere come andava avanti l’intreccio, avevo divorato troppo velocemente.

L’ho fatto per esempio con Il ragazzo giusto di Vikram Seth. Ricordo ancora il senso di desolazione che mi colse quando ne terminai la prima lettura. Come se degli amici carissimi fossero in partenza per andare a vivere su Marte e io non li avrei più rivisti. ‘Come farò a vivere senza sapere più niente di loro?’ pensavo. Così, invece di mettere via il volume e di prenderne dallo scaffale un altro, lo riaprii la stessa notte alla prima pagina e ricominciai a leggerlo da capo.

Lo stesso mi è capitato con la Saga dei Cazalet di Elizabeth Jane Howard. Arrivata alla fine del quinto volume, Tutto cambia, non riuscivo a congedarmi dai suoi personaggi, specie dalle cugine più giovani Louise, Clary e Polly. Mi sembrava di averle conosciute davvero, mi ero preoccupata per loro, allo stesso modo in cui mia nonna trepidava per Soames e Irene Forsyte, come se facessero parte della nostra famiglia. Ripresi quindi in mano il primo volume, Gli anni della leggerezza, e mi reimmersi con delizia in quel mondo.

In genere però tra una lettura e l’altra lascio passare del tempo, anche diversi anni. Queste riletture distanziate riservano spesso una o molte sorprese. Come se si leggessero storie diverse. Il libro è sempre quello, ma siamo noi a essere cambiati. Scriveva Umberto Eco, che qui cito a memoria, che il testo è una macchina pigra e ha bisogno del lettore per mettersi in moto. Il lettore come coautore. Un lettore diverso produrrà un diverso risultato. Eravamo due persone diverse, mia madre e io, quando leggevamo La montagna incantata e litigavamo su ciò che il libro aveva detto all’una e all’altra, ma sono persone diverse anche la me di vent’anni e quella di quaranta che leggono per la prima e per la seconda volta Anna Karenina. Ancora più diversa quella di settanta, se la legge per la terza volta.

A vent’anni mi importava poco delle fisime amorose di Anna; il mio eroe preferito era Levin, il suo amore difficile per Kitty, le sue riflessioni sulla vita in campagna, sui rapporti con i contadini. Seguivo con indignazione le vicende del matrimonio tormentato di Dolly, la disparità fra il tradimento di suo marito, che i parenti e la società accettavano senza batter ciglio, e quello della cognata Anna, che la condannava al bando e alla morte civile.

A quarant’anni la mia simpatia, la mia compassione erano esclusivamente per Anna. Le perdonavo tutto, giustificavo ogni sua azione, ogni sua scelta, la ammiravo, soffrivo per lei, odiavo i suoi due uomini, Karenin che le toglieva il figlio e le negava il divorzio, Vronskij che dopo averla sedotta la trascurava, la tradiva… (In realtà nel testo non è scritto che la tradisce, la gelosia di Anna è immotivata, paranoica, ma partecipavo talmente ai suoi tormenti che ne ero convinta anch’io.) Per me quella volta il libro terminava con la settima parte, alla fine della quale Anna muore sotto il treno. I ben diciannove capitoli dell’ottava parte o non li avevo letti o li avevo volontariamente dimenticati.

A settant’anni la mia simpatia per Anna non era più così totale e incondizionata. Il suo comportamento nella parte finale mi sembrava quello di una donna viziata e isterica. Non riuscivo a perdonarle la mancanza di amore per la sua bambina dopo tanti strazi teatrali per il primogenito.

Né a perdonarle la sua sofferenza per non poter più frequentare quei salotti, quei benpensanti ipocriti che aveva disprezzato al momento della scelta (e che io ideologicamente disprezzavo adesso). E rivalutavo la figura di Vronskij, travolto come Anna dalla forza cieca della passione, ma pronto ad affrontarne le conseguenze. Vronskij che sopportava le sue scenate, incoraggiava i suoi tentativi di impiegare utilmente il tempo, che si occupava con amore della piccola Annie, le comprava i migliori prodotti inglesi per bambini. Vronskij che aveva già tentato il suicidio per amore di Anna, e che dopo la sua morte lo avrebbe ritentato se sua madre non lo avesse controllato notte e giorno; che nel primo momento era troppo sconvolto per impedire a Karenin di togliergli la bambina, ma poi ne soffriva tanto da arruolarsi come volontario nella guerra serba e partiva, sicuro di andare incontro alla morte per mano dei turchi.

Ennesima rilettura alla soglia degli ottant’anni. Recupero Anna, provo per lei una pena profonda anche se non la capisco fino in fondo. Recupero, comprendo e assolvo tutti, tranne la vecchia bigotta religiosa che dissuade Karenin dal perdonare Anna e concederle il divorzio, gesto che risolverebbe i problemi di tutti. Capisco che la grandezza di Tolstoj in questo libro è uguale a quella dei greci antichi. Di Omero che non parteggia né per i greci né per i troiani, ma che partecipa ai dolori, ai sentimenti, alle ragioni di tutti, perché non è compito dell’artista giudicare, schierarsi ‘dalla parte di’. La grandezza di Eschilo che, dopo il trionfo greco nella battaglia di Salamina, ha il coraggio nella tragedia I Persiani di considerare anche il dolore e i sentimenti degli sconfitti,mettendo in scena Serse e sua madre, la regina Atossa, con simpatia e partecipazione. Mi affascina la somiglianza tra i due capitoli alla stazione ferroviaria, quello della settima parte in cui Anna delira e pone fine alla sua vita e quello dell’ottava parte in cui Vronskij si accinge a partire per il fronte, camminando su e giù per la banchina a lunghi passi, nel suo lungo cappotto, lucido nel considerare che non esiste più per lui una ragione di vita e deciso anche lui, sebbene in modo diverso, a porvi fine.

Mi accorgo, solo in quest’ultima rilettura, di un dettaglio che avrebbe dovuto colpirmi e avevo invece sempre tralasciato. Negli ultimi mesi, poco prima del suicidio, Anna per occupare il tempo aveva scritto un libro per bambini. Un bel libro, diceva a Levin il fratello Stiva, che si era affrettato a proporlo a un editore, ma a lei già non importava più niente. Chissà di cosa parlava quel libro?

Quando ho letto per la prima volta La lettera scarlatta, facendone il riassunto avrei presentato come ‘il cattivo’ non il marito Roger, assetato di vendetta, ma il reverendo Dimmesdale, padre della bambina di Hester Prynne. Pretaccio ipocrita che non si assumeva le sue responsabilità.

Alla seconda lettura mi ero commossa invece sui tormenti morali del reverendo e avevo persino inventato un finale che Hawthorne non aveva scritto. Non lo avevo inventato deliberatamente, ero convinta davvero di averlo letto. Lo avevo sognato? In questo finale Dimmesdale non muore, decide insieme a Hester di fuggire, di tornare in Europa con la piccola Pearl. I due amanti si procurano il biglietto per una nave che sta per partire e si imbarcano di nascosto. La nave si stacca dal porto, i due credono di essere ormai in salvo. Non sanno che subito dopo di loro si è imbarcato, travestito, il perfido Roger Chillingworth, il marito di Hester, che li inseguirà fino alla fine del mondo.

In questo caso il mio intervento di lettrice, anche se in buona fede, era stato davvero esagerato e abusivo.

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