“Tutti parlano di rivalutare i giovani, ma bisogna farlo veramente. Le nuove generazioni sono state davvero bastonata nel mondo del lavoro… Le persone della mia potevano permettersi di sognare e avevano un margine di realizzazione molto ampio…”. In occasione dell’uscita di “Sortilegi”, ilLibraio.it ha incontrato la scrittrice Bianca Pitzorno. Che nell’intervista ha parlato di lavoro (“tra colleghi la solidarietà è la cosa più importante”), di solitudine (in particolare nell’anno della pandemia), ma anche di sogni, di giovani, di scrittura (“Faccio parte dell’associazione per la difesa del congiuntivo. Quando posso lo uso sempre con immenso piacere”), del suo rapporto con il mondo editoriale (“Ho sempre curato personalmente i miei contratti”) e di social: “Purtroppo ho un’odiatrice, ma sono sicura che se la incontrassi in carne e ossa, la vorrei come amica”

Se esiste un sortilegio di comprovato effetto, è quello che i libri di Bianca Pitzorno (nella foto di Daniela Zedda, ndr) esercitano su chi li legge. Si tratta di una sorta di incantesimo, una meravigliosa ipnosi che ammalia per la maggior parte lettrici e lettori che la seguono da quando sono piccoli, e che non si lasciano sfuggire nemmeno un’uscita, neppure un librino nuovo, composto da tre racconti che si articolano in poco più di 140 pagine.

Stiamo parlando di Sortilegi (Bompiani), l’ultimo volume firmato della scrittrice sassarese, celebre per aver rivoluzionato il mondo della letteratura (per l’infanzia e non solo) con bestseller come Ascolta il mio cuore, La voce segreta, TornatrásLa vita sessuale dei nostri antenati, Il sogno della macchina da cucire e tanti, tanti altri: “Non credo nella magia, ma credo nella forza della nostra fantasia. In questi racconti ho voluto esplorare varie declinazioni dell’irrazionalità degli esseri umani”, racconta a ilLibraio.it l’autrice, che abbiamo incontrato nella sua casa milanese.

sortilegi

Il primo racconto, il più lungo dei tre, è stato scritto nel 1990 ed è uscito ai tempi in una pregiata edizione accompagnata dalle tavole dell’illustratore e artista Piero Ventura. “Ecco guardi che belle”, dice Pitzorno, mostrandoci un volume sui cui spiccano le immagini di una giovane ragazza dai capelli ramati e gli occhi smeraldo.

Lei è Caterina, una contadina toscana, bellissima e innocente, che, dopo aver perso l’intera famiglia a causa della peste del Seicento, viene accusata di stregoneria, condannata e uccisa dalla crudeltà degli uomini: “La particolarità di questo racconto è la lingua, che ricalca volutamente quella dell’epoca. In generale una delle mie regole di scrittura è non ricorrere a parole che non utilizzerei nel parlato. Non concepisco la differenza tra linguaggio letterario e quotidiano. Roberto Piumini mi prendeva spesso in giro dicendomi ‘tu parli come se stessi scrivendo un romanzo e scrivi un romanzo come se stessi parlando in autobus!'”.

E quali sono le altre regole?
“Faccio parte dell’associazione per la difesa del congiuntivo. Quando posso lo uso sempre con immenso piacere. E poi mi piace inserire parole belle ed esatte, anche se so che magari chi legge non le conosce e deve andarle a cercare sul vocabolario”.

Straordinariamente attuale, il primo racconto di Sortilegi si intitola La strega ed è ambientato durante lo scoppio della peste.
“È stato grazie a Giulia Ichino (editor della Bompiani, ndr) se ho ripreso in mano questo testo. È stata lei a ritrovarlo e a spronarmi a lavorarci di nuovo, proprio perché c’è un’incredibile somiglianza con la situazione che stiamo vivendo”.

Non solo per l’epidemia, ma anche per l’isolamento della protagonista, Caterina, che cresce in totale solitudine nel cuore di un bosco.
“In realtà la versione originale partiva con lei che era già adulta, mentre questa volta ho voluto esplorare la sua infanzia selvatica. Anche perché nel frattempo avevo fatto diversi approfondimenti sui bambini selvaggi, ovvero quei bambini che sono cresciuti lontani dal consorzio umano, come Il ragazzo selvaggio studiato nei primi dell’Ottocento dal pedagogista Jean Itard e poi portato sullo schermo da François Truffaut, o anche Kaspar Hauser, il ragazzo che aveva vissuto fino all’adolescenza in una grotta buia”.

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Eppure, le pagine in cui racconta la solitudine di Caterina non sono angoscianti, anzi, al contrario si avverte una sorta di dolcezza, di calma e di benessere.
“Questo è riconducibile a un discorso ecologico. Anche se è sola, Caterina è sostenuta dalla natura. Si nutre con i frutti degli alberi, con i prodotti dell’orto, con il latte delle capre. A lei la natura non fa alcun male. Non patisce in modo eccessivo il freddo, né la fame. Anche se non ci sono gli altri uomini, tutto sommato, se ne fa una ragione”.

E lei come ha vissuto la solitudine di questo periodo di quarantena forzata?
“Non l’ho vissuta. Sono stata una delle poche che, nonostante le limitazioni, ha continuato a vedere persone. Dovevo uscire praticamente tutti i giorni, per sottopormi alle sedute di fisioterapia dopo essere stata operata malamente all’anca sinistra. Inoltre ho tanti amici, con cui siamo rimasti in contatto tramite messaggi e chiamate. La verità è che la mia solitudine era non poter camminare senza stampelle”.

Cosa ha comportato?
“Per la prima volta ho dovuto affidarmi ad altre persone. Prima a una signora proveniente dall’Ucraina, dolcissima, molto colta,  ingegnere, grande lettrice, che sapeva davvero bene l’italiano e che diceva di non voler mai andarsene da questa casa piena di libri”.

E poi è andata via?
“Sì, è tornata a casa sua. Aveva un animo malinconico, le mancava la sua famiglia. Poi è venuta ad aiutarmi una ragazza dall’Ecuador, piena di brio, allegria e vitalità. È stato come passare da Dostoevskij a García Márquez!”.

Quindi è andata bene.
“Sì, ma sia in un caso sia nell’altro è stata una scelta necessaria, imposta. È stato come sposare un uomo che altri hanno scelto per te. Ho sempre preferito la solitudine a una convivenza forzata”.

A ogni modo nei confronti degli anziani c’è stata una vera e propria aggressione. Sull’Ansa si legge che lei ha firmato un appello per opporsi alla proposta di recludere gli over 70.
“Succede spesso che i giornalisti riportino le notizie in modo un po’ esagerato. Sono passata come la prima ispiratrice dell’iniziativa, ma eravamo in molti a firmare quell’appello che mi era stato proposto da Vivian Lamarque, io ero soltanto la centoseiesima firmataria”.

Cosa ne pensa?
“Trovo bestiale volere isolare per legge chi ha più di 65 anni. Sulla mia pagina Facebook qualcuno mi ha scritto: ‘dobbiamo proteggere i nostri anziani’, ma io non sono proprio l’anziana di nessuno, gli ho risposto! Spero di avere abbastanza cervello da non espormi a rischi che potrebbero farmi del male, ma questo vale che io sia anziana o meno. Volevano imporre un limite anagrafico che non ha niente a che fare con la singola persona. Io vengo da una famiglia di ultracentenarie… pensi che la sorella della mia bisnonna si è comprata l’automobile a cento anni!”.

E la guidava?
“Non personalmente. Aveva una piccola campagna gestita da un contadino e questo mezzadro indossava il cappello da chauffeur e la portava a spasso tutti i giorni. All’inizio organizzava bei viaggi lunghi, poi verso i centocinque anni lei si era un po’ rimbambita e lui si limitava a fare piccoli giri per Sassari, dicendole ‘Andiamo in America’ e lei ‘Che bello! E domani in Australia!’. Aveva avuto un marito molto avaro, e quindi quando si è ritrovata vedova ha deciso di togliersi tutti i gusti che non aveva potuto soddisfare prima. E come facevi a chiudere in casa una donna così?”.

Lei a oggi ha pubblicato 66 libri ed è una delle poche scrittrici italiane a vivere solo di diritto d’autore.
“Devo dire che nel mio passato sono stata molto fortunata. All’inizio ho lavorato in Mondadori con Margherita Forestan che non ha mai fatto editing a ciò che scrivevo. E anche adesso mi trovo molto bene in Bompiani. Fare questo nuovo libro è stato come andare a una festa”.

Sembra quasi un sogno. Il mondo del lavoro adesso non è lo stesso di un tempo.
“È vero. Voi ragazze soprattutto, ma anche i maschi, siete state davvero bastonate. Le persone della mia generazione potevano permettersi di sognare e avevano un margine di realizzazione molto ampio, a meno che non desiderassero diventare imperatori della Cina”.

Qual è il problema secondo lei?
“Sono necessarie delle leggi che impediscano di fare stage sottopagati o addirittura non pagati. Ne ho sentite tante di persone brave che non riuscivano a trovare lavoro. E poi cosa è successo? Sono scappate dall’Italia e sono state assunte immediatamente”.

Ma non è scontato, né facile, andare all’estero.
“Certo non lo è. Tutti parlano di rivalutare i giovani, ma bisogna farlo veramente”.

Come?
“Manca una sorta di coalizzazione. Se poi penso al mondo editoriale ancora di più. Per esempio, negli anni Settanta, gli illustratori erano sottopagati per fare tavole e copertine, non c’era e non c’è una legge che li difenda, ma gli editori ne avevano bisogno. E cosa hanno fatto? Invece di mettersi insieme, di opporsi a un sistema di sfruttamento, di porre dei limiti, hanno cominciato a lottare tra di loro per aggiudicarsi l’incarico”.

E lei come si è comportata?
“Per gli scrittori fortunatamente esiste da molto tempo una legge sul diritto d’autore. Io ho sempre curato personalmente i miei contratti. Ho studiato il manuale di diritto di autore di Jarach come se fosse la bibbia, lo conosco quasi a memoria. Ho imparato a saper contrattare, a porre le mie condizioni. Uno pensa che se scrive un libro lo deve per forza pubblicare, ma non è così”.

Di questo ragionamento, giustissimo, manca un aspetto inculcato nelle nuove generazioni, che è il senso di colpa. Quando lavori ti dicono “e ringrazia”, “sei fortunata”. In un certo senso, sei portato ad accontentarti. Non hai la possibilità di contrattare.
“È difficile. Idealmente bisognerebbe avere delle scorte pratiche ed emotive per riuscire a opporsi a condizioni degradanti. Ma la solidarietà è la cosa più importante. Almeno tra chi fa lo stesso mestiere bisognerebbe stabilire delle regole entro le quali non si accetta, entro le quali – stavo per dire dignitoso ma mi correggo – non è umano lavorare”.

A proposito di nuove generazioni, lei usa i social?
“Ogni tanto. Mi dico ‘dai, oggi beviamo un po’ di veleno’ e mi metto a leggere quello che scrivono gli altri su Facebook. A volte trovi quelli che dicono che è tutto bello, altri invece sputano odiano senza pietà”.

Ne ha fatto mai esperienza?
“Sì. Purtroppo ho un’odiatrice”.

Impossibile.
“E invece è vero! Tra l’altro è una donna che mi piace molto. Ho letto quello che posta ed è brava, colta, spiritosa. Se la incontrassi in carne e ossa, sono sicura che la vorrei come amica. Credo che sia stata anche una mia lettrice da bambina, perché conosce a fondo i miei romanzi, li cita correttamente”.

E allora cosa è successo?
“Non lo so, sta di fatto che ce l’ha con me. Mi insulta, si scaglia non solo contro quello che scrivo ma anche contro il mio aspetto fisico, dice che da bambina ero brutta e con gli occhiali pensando di offendermi, ma a me onestamente non è mai importato di essere bella! Però ci rimango male. Mi chiedo: ma cosa le ho fatto?”.

Non le ha mai risposto?
“Una volta le ho scritto di non leggere i miei libri se tanto non le piacciono. Non sono voluta andare oltre. Mi rattrista pensare che al mondo esista qualcuno che pensi di continuo a scrivermi qualcosa di cattivo. E ripeto, la cosa più grave è che a me lei è molto simpatica. Potrebbe essere per me l’amica ideale. Chissà per quale motivo, invece, ha scelto di odiarmi. Magari si è sentita tradita”.

Perché avrebbe dovuto?
“Forse perché ho iniziato a scrivere libri per adulti, magari invece fa parte di quella categoria di persone che crede che gli scrittori per l’infanzia non possano scrivere altro”.

Nutriamo un inspiegabile bisogno di offendere e ferire gli altri.
“Forse sì. Ma sono convinta che sui social sia tutto più semplice grazie all’anonimato. Di persona, probabilmente, non si avrebbe il coraggio di esporsi così tanto”.

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