“Trilogia della città di K.” di Ágota Kristóf è un’opera labirintica dalle possibilità pressoché infinite, capace di ingigantirsi nell’approfondimento attraverso le considerazioni più contemporanee, se non addirittura avveniristiche. Ecco quindi otto riflessioni per rinnovare l’attenzione nei riguardi di un capolavoro del passato ancora oggi molto apprezzato dai lettori della generazione Z su TikTok – probabilmente per i personaggi, per i temi, per lo stile “disturbante” e per la tensione al cambiamento…
“Grande quaderno” si nasce, iper-romanzo si diventa: a oltre trent’anni dall’uscita del suo ultimo capitolo La terza menzogna (del 1991), Trilogia della città di K. di Ágota Kristóf, in Italia per Einaudi (traduzione di Armando Marchi, Virginia Ripa di Meana e Giovanni Bogliolo) si conferma su lungo periodo quale opera labirintica dalle possibilità pressoché infinite, capace di ingigantirsi nell’approfondimento attraverso considerazioni le più contemporanee se non addirittura avveniristiche. Che cosa, d’altronde, impedirebbe all’intreccio (privo di riferimenti spaziali, così come temporali) di vedersi decontestualizzato in questo stesso presente, tanto più che il macro-tema d’insieme – quello della guerra – è divenuto argomento quotidiano sia per vicinanza geografica che per immediatezza del racconto?
Con un suggerimento di rilettura volto a rinnovare l’attenzione verso un capolavoro del passato ma ancor oggi molto apprezzato su TikTok, ecco a voi otto riflessioni (ricche di dubbi) finalizzate a riscoprire il testo ma senza le certezze cui anelavamo nella sua prima edizione. Perché, e lo diamo per scontato, all’interno della città di K. realtà e immaginazione non si confondono mai davvero, ma piuttosto si assomigliano sino al punto da rendere impossibile ogni tipo di distinzione. Tipo due gemelli omozigoti, insomma.
I racconti dei gemelli: un’unica trama, per tre romanzi di lunghezza
Meglio conosciuta con il nome di Trilogia della città di K., la Trilogie des jumeaux, questo il titolo originale dell’opera, si compone di tre romanzi indipendenti godibili secondo le modalità di pubblicazione o anche, perché no, in ordine di lettura sparso. Sebbene infatti la sequenza naturale del racconto (Il grande quaderno del 1986, La prova del 1988 e La terza menzogna del 1991) circoscriva la trama a uno sviluppo lineare, nulla impedisce al lettore di esplorarne i contenuti secondo modalità del tutto personali, magari anteponendo il finale a sorpresa – quello in cui si discopre la (presunta) verità sul passato dei due fratelli – dalle due ricostruzioni iniziali, la prima (pressappoco una favola) inerente la loro infanzia presso la casa di campagna della nonna materna, la seconda (quasi una tragedia) relativa all’adolescenza di Lucas come trascorsa in assenza del fratello Klaus.
Il grande quaderno: campanelli d’allarme ma col controllo parentale
Ciò detto, dell’intera trilogia è senza dubbio Il grande quaderno il capitolo che ha ottenuto maggior risalto: complice uno stile crudo e un linguaggio a dir poco sconveniente, il racconto della guerra (ma dal punto di vista dei bambini) rappresenta non soltanto un artifizio ben riuscito per riflettere sull’orrore con il distacco tipico dell’innocenza, ma altresì il pretesto letterario per trattare i temi più traumatici senza incorrere in censure e/o perbenismi di alcun genere. Pedofilia, abilismo e suicidio sono solo alcuni degli avvisi di trigger che fanno da contorno alle peripezie dei due fratelli; una genitorialità pressoché inesistente e un contesto sociale privo di scrupoli le ragioni vieppiù sottese alle loro proverbiali strategie di autodifesa (dalle tecniche di digiuno a quelle di crudeltà, dagli esercizi di immobilità a quelli di irrobustimento).
Un eroe bambino in terza persona, collettiva e rivoluzionaria
In tal senso, è in una non meglio specificata periferia dei Balcani che i due fratelli – una monade collettiva senza nome né scolarizzazione – fronteggeranno ogni tipo di situazione nel tentativo di sopravvivere al conflitto; e nonostante nel dolore s’irretiranno alle emozioni e malgrado nel pericolo si smalizieranno anzitempo, i “figli di cagna” non si getteranno mai nello sconforto, ma anzi ne combineranno di ogni pur di proteggersi dalle ingiustizie degli adulti. Ed è forse proprio questa una delle ragioni che più giustificano il passaparola dell’opera fra i lettori della generazione Z: in un contesto socio-politico in cui l’appello dei giovanissimi si esprime con estrema fatica – vedi l’emergenza climatica o le manifestazioni a ritmo di techno – riconoscersi in un eroe che sovverte l’età matura ci riempie di speranza e ci predispone al cambiamento (come già l’Oliver Twist di Charles Dickens o l’Atreiu de La Storia Infinita).
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La madre di nostra Madre, un meme in salsa Grimm
Certo è che se fra i tanti abitanti della K. dovessimo scegliere quello che meglio ne incarna l’essenza – una città dilaniata dalle bombe, tanto per figurarcela – sarebbe senza dubbio la Nonna il personaggio che sopra di tutti ne meriterebbe lo scettro; vegliarda senza denti e detentrice di molti segreti, la “strega” del paese accoglie i due nipoti senza alcuno spirito famigliare, sfruttandoli a proprio piacimento come spesso accade nelle opere dei fratelli Grimm (Hänsel e Gretel per primi). “Nonna non si lava mai. Si asciuga la bocca con un lembo del fazzoletto quando ha mangiato o quando ha bevuto. Non porta mutande. Quando ha bisogno di orinare, si ferma lì dove si trova, allarga le gambe e piscia per terra sotto la gonna”. Il meme perfetto per la persona meno gradevole del paese, dunque, ma puranche colei alla quale ci viene più facile affezionarci, perché unica nel romanzo a non applicare nessun filtro bellezza, né all’apparenza né all’interiorità.
L’adolescente Klaus e l’attivismo prima dei tempi
Ma non tutte le favole pretendono una fine (tantomeno lieta), e proprio quando i due orfanelli si separano alla frontiera, ecco imperversare il cambiamento di registro: quindi romanzo di formazione, nel secondo volume della trilogia il giovane Lucas – ora i gemelli hanno un nome anagrammatico – decide di rimanere a K. e di proseguire la quotidianità senza l’aiuto del fratello Klaus. Ma come fare, ora che è solo? Delle tante relazioni che lo accompagneranno nella crescita, è in particolare quella con Yasmine e Mathias – una ragazza madre e il suo bambino invalido – quella che più intenerisce le corde emotive del lettore: assieme a loro, l’adolescente Klaus costituirà quella che si può considerare un’antesignana famiglia di cuore, per la quale si adopererà in prima persona sia da un punto di vista economico che di presenza parentale. E non solo: per la sua naturalezza nell’innamorarsi della “signora” Clara (una bibliotecaria di vent’anni più grande di lui) e per la sua mentalità aperta nell’approcciare l’omosessualità di Peter (il segretario del partito rivoluzionario), Klaus rappresenta l’attivista perfetto sia in ambito di autodeterminazione femminile che di consapevolezza inclusiva. Senza nemmeno saperlo.
La terza menzogna e l’essenza delle fake news
Se c’è un aspetto che davvero stupisce nella rilettura della trilogia è quanto essa abbia ancora da insegnarci a proposito di propaganda e di opinabilità delle convinzioni: dopo averci confuso le idee con una trama complessa ma perfettamente congegnata, è infatti ne La terza menzogna che l’autrice spariglia di nuovo le carte, proponendoci una versione del tutto alternativa della storia sino ad allora raccontata. Sul punto – e senza voler entrare nello specifico della trama, che in sintesi ci suggerisce come il contenuto dei precedenti romanzi possa essere in realtà frutto di allucinazione psichiatrica da parte dello stesso Lucas – quel che merita evidenziare è quanto la nostra mente sia portata a credere a ciò che leggiamo, specie se la fonte, in questo caso meta-letteraria, ci appare nel complesso affidabile e/o ritenuta plausibile. Un meccanismo da tenere in massima considerazione, soprattutto quando ci affidiamo ai canali di informazione in rete (e ancor più se si tratta di notizie dalla guerra).
“Un libro, per triste che sia, non può essere triste come una vita”
Che poi, a saper iper-leggerlo, Trilogia della città di K. è anche un manifesto che ci parla per se stesso, un algoritmo ben congegnato per dimostrare quanto nessun altro possa asserire la verità sull’esistenza altrui, all’infuori di colui che la vive. “Sono convinto, Lucas, che ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient’altro” ci dice a tal proposito il libraio Victor in una delle tante riflessioni che l’opera dedica all’importanza della scrittura, “Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia”. Pertanto, se davvero vogliamo rivolgerci a Trilogia della città di K. con l’atteggiamento che meglio la valorizza, è opportuno affidarci alle sue parole come si farebbe con i racconti di un bambino (o di un ChatGPT artificiale): lasciandoci stupire dalle sue contraddizioni, ma al contempo credendoci per davvero, almeno per un po’. Con una postilla finale sull’autrice…
Ágota Kristóf, una nativa ungherese (ma che scriveva in francese)
Nata a Csikvánd il 30 ottobre 1935 e morta a Neuchâtel il 27 luglio 2011, Ágota Kristóf (e non Agatha Christie, come assonanza vorrebbe suggerire) fu una scrittrice di origini ungheresi, vissuta in Svizzera ma che, nelle sue opere, scelse il francese come lingua di adozione. E non che se ne servisse per sola ambizione letteraria: l’utilizzo che l’autrice faceva dell’idioma francese era piuttosto espressione di finalità pratica, la necessità di una grammatica vissuta – ma corretta – per essere compresa nel profondo, fino al significato stesso delle sue parole (altroché traduttori online). E a chi le chiedeva se si sentisse portavoce della letteratura nazionale ungherese – o se invece di quella franco-svizzera, o apolide – ella sempre rispondeva “ungherese”. Perché, nonostante tutti i suoi romanzi apparissero scritti in lingua straniera – anche l’ultimo Dove sei Mathias?, in Italia edito da Casagrande, traduzione di Maurizia Balmelli – nella penna dell’autrice era invece racchiusa tutta la circolarità della la sua Storia: la rivoluzione ungherese del 1956, il suo arrivo in Svizzera da completa illetterata, il ritorno in Ungheria nel 1968. Quando nulla era più come se lo ricordava, tantomeno la città di K.
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