“So bene che la lettura è un atto libero, ma desiderando farne un percorso di studio e poi un mestiere, mi sono a lungo forzata per andare contro la mia tendenza a ‘iperleggere’: a fantasticare e perdermi nelle storie, seguire fili immaginari fino a fraintendere, snaturare, riformulare le storie stesse”. Su ilLibraio.it una riflessione sulla lettura e sull’iperlettura, in cui vengono citate teorie letterarie come la trottola di Sartre e la raccolta “I margini e il dettato” di Elena Ferrante, passando per l’interpretazione dei tarocchi: “Mi piacerebbe dire che è una cosa che riguarda soltanto i libri, ma invece credo sia proprio un modo di leggere il mondo e le persone, le situazioni: in tutto quello che mi capita, questa smania di cercarci sempre qualcosa di altro, di tirarci fuori anche quello che non c’è (e non solo quello che non si vede)”

Da qualche mese ho iniziato a studiare i tarocchi. È una pratica che mi ha sempre attratto ma dalla quale mi sono tenuta debitamente alla larga, convinta che per accedervi dovessi essere baciata da una sorta di naturale predestinazione.

Poi su TikTok una ragazza circondata da cristalli e spirali di Palo Santo mi ha spiegato che non era vero: bisognava soltanto imparare a leggere le carte. Così ho iniziato a farlo anche io.

Mi ha subito colpito quella frase, “imparare a leggere”, perché è tornata con insistenza in tutti i libri in cui mi sono imbattuta: sostenevano che prima ancora di conoscere la simbologia delle carte, era importante sviluppare un’attitudine alla lettura e all’interpretazione che andasse oltre al significato delle singole figure.

Quando ho provato la mia prima “mano”, e mi sono trovata davanti a una serie di immagini apparentemente senza nessun legame – una Papessa accanto a un Carro seguito da una Torre –  mi è stato chiaro. Dovevo essere io a legarle tra di loro, intuire un senso, costruire un storia con gli elementi che il mazzo mi aveva messo disposizione. Se non l’avessi fatto, sarebbero rimaste ferme lì, senza dirmi nulla.

Approcciarmi alla lettura in questo modo così viscerale e personale, mi ha fatto riscoprire un piacere che avevo perso da tempo: quello di leggere senza pormi limiti. So bene che la lettura è un atto libero, ma desiderando farne un percorso di studio e poi un mestiere, mi sono a lungo forzata per andare contro la mia tendenza a “iperleggere”: a vedere nei testi anche quello che non c’è. A fantasticare e perdermi nelle storie, seguire fili immaginari fino a fraintendere, snaturare, riformulare le storie stesse.

La distorsione della lettura mi è sempre appartenuta. Fin da bambina, mentre leggevo, non era raro che mi ritrovassi a pensare ad altro, e poi a mescolare questo altro con le parole scritte che avevo davanti, fino a fonderle in un nuovo, personalissimo, significato. Mi perdevo i pezzi e per compensare ne aggiungevo di nuovi, ma dopotutto, non dovendo rendere conto a nessuno, mi andava più che bene così.

La cosa ha iniziato a diventare più complessa durante l’adolescenza quando, posta davanti agli esercizi di comprensione del testo, sono stata costretta a fare i conti con le mie divagazioni, cercando di rimuoverle del tutto dal mio modo di leggere: l’obiettivo era restare il più vicino possibile alle parole degli autori, contestualizzarle, analizzarle, ricostruirle. Per quanto si opponesse a quello che ero – distratta, evanescente – mi ha dato molta soddisfazione, molta tranquillità, questo essere contenuta. Provavo uno strano piacere – il piacere dell’esattezza – in questa coerenza, mi faceva sentire più concreta, più aderente alla realtà.

Ma quello era un modo di leggere scolastico, e l’avrei capito all’università, dove c’erano teorie su teorie che mi dicevano che la lettura era l’atto creativo per eccellenza (forse più della scrittura), e che in ogni testo c’è uno spazio che il lettore ha il diritto di rivendicare, di reinventare, di interpretare a proprio piacimento.

Molto spesso agli esami di letteratura ci chiedevano di elaborare opinioni nostre, di esporci e di provare a formulare chiavi di interpretazione. Questa richiesta – alimentata dalle lunghe, atteggiate e anacronistiche discussioni che si tenevano tra gli studenti – mi ha fatto riscoprire una lettura più libera, dove tornavo in gioco anche io, perché solo io, in quanto lettrice, avevo il potere di mettere in moto la trottola, che altrimenti, senza di me, sarebbe rimasta ferma.

Anche se sembra banale, ci ho messo molto a capire che non intendevano sapere davvero cosa ne pensassi de La coscienza di Zeno, se mi fosse piaciuto L’Adalgisa, o cosa ci avessi visto in Conversazione in Sicilia. E quando provavo a espormi – perché ingenuamente l’ho fatto diverse volte – venivo riportata in carreggiata, indirizzata verso gli strumenti letterari che avrei dovuto assimilare per poter fornire una lettura personale (ma lontana dai personalismi) del testo (in altre parole: una critica).

È stato bello ma non è stato naturale imparare a leggere così, in un modo che mi lasciasse spazio ma che non mi facesse sovrastare quello che leggevo. E oggi, che di lavoro leggo libri e li racconto, è un esercizio che sono chiamata a fare di continuo: devo stare sempre attenta a non sbordare. A non esagerare: restare in equilibrio tra una lettura composta e lucida, e una lettura sopra le righe e in filigrana.

E mi piacerebbe dire che è una cosa che riguarda soltanto il leggere i libri, ma invece credo sia proprio un modo di leggere il mondo e le persone, le situazioni: in tutto quello che mi capita, questa smania di cercarci sempre qualcosa di altro, di tirarci fuori anche quello che non c’è (e non solo quello che non si vede). È un atteggiamento che mi fa oscillare di continuo tra gravi errori di valutazione e brillanti intuizioni.

Mi sono chiesta spesso: da dov’è che leggo quando iperleggo? Che posizione assumo? Da dove lo guardo il testo? Da sopra, e quindi mi impongo con un’arroganza e una presunzione che non si dovrebbero addire all’atto della lettura, oppure dal basso, ignorando molti aspetti fondamentali e quindi non portando rispetto al testo stesso? O ancora di lato, una posizione che mi fa immaginare di leggere “con la coda dell’occhio”, perciò in maniera parziale e limitata, di striscio, setacciando solo quello che mi interessa (quello che mi tocca) e che, di conseguenza, non mi permette di ampliare lo sguardo.

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Non è scontato infatti che leggere allarghi gli orizzonti. Sono entrata in case e ho visto librerie che erano quasi identiche alle mie. Le letture dell’infanzia, quelle dell’adolescenza, i libri che sembrano non entrarci niente ma che invece sono perfettamente in linea, i contemporanei, i saggi sul femminismo e i classici. “Abbiamo gli stessi gusti”, si scherza sempre con un certo compiacimento, ma spesso non ho proprio niente in comune con queste persone – e ho sempre pensato che “i libri che leggi fanno la persona che sei”. Ma invece credo che sia come li “iperleggi”, che ti cambia: come te ne appropri, come li mescoli alla tua voce e come continui a portarteli dentro.

Mi sono chiesta più volte anche se iperleggere e sovrainterpretare siano in un certo senso anche “smarginare”, tradire un’essenza, storpiarla, appropriandosene in un modo illecito, che non solo non ha niente a che fare con la verità, ma rischia quasi di guastarla. Oppure, al contrario, se sia un modo per esaltare la lettura, l’unico per renderla più viva e piena. Non è detto, comunque, che le due cose si escludano.

i margini e il dettato

Sperando di non scadere in un’iperlettura, mi rifaccio a un’immagine proprio di Elena Ferrante che, in un intervento contenuto nella raccolta I margini e il dettato (e/o), parla di due spinte della scrittura: una conserta e acquiescente, l’altra sbilanciata e imprevedibile. Le due convivono, ma non procedono mai insieme: la prima è frutto di una disciplina accordata negli anni, che permette alla scrittrice di curare la forma e di procedere nella propria attività con equilibrio e “dignitosa esecuzione”; l’altra è fatta di momenti imprevisti e travolgenti, che irrompono inaspettatamente mandando all’aria le regole apprese. E, sebbene siano entrambe fondamentali e non si possano separare, è solo quest’ultima, per lei, la vera “gioia della scrittura”. In questi due modi di scrivere – uno pacato e uno sregolato – rivedo anche i due modi di leggere – la lettura e l’iperlettura – (e probabilmente anche due modi di essere), che sempre coesistono e che si alternano, portando avanti e alimentando una passione.

Una sera, mentre parlavo dei tarocchi e di quanto fossi esaltata all’idea di aver trovato uno spazio dove essere legittimata a iperleggere – uno scrittore mi ha detto che tutti iperleggono, è normale: “nei libri, e nelle cose, ci vedi quello che ci vuoi vedere”. Affermazione che là per là mi ha riportata con i piedi per terra, dandomi uno scossone dal sapore “la tua ossessione non ha niente di speciale”, ma anche qualcosa di rassicurante, perché se è vero che lo facciamo tutti allora sarà perché ne sentiamo il bisogno, la necessità di andare oltre quello che abbiamo davanti agli occhi per provare a vederci più un po’ più chiaro (e non a caso è proprio questo che significa la parola chiaroveggenza). E mentre mi ritrovo a seguire questi pensieri, ecco che penso sia successo di nuovo: ho visto in questa cosa dell’iperlettura, qualcosa che forse non c’era. Gli ho dato un significato che forse non ha. E allora mi fermo, mi impongo di restare nelle cose, di guardarle per quello che realmente sono. A volte mi deludono, altre mi piacciono addirittura di più.

Non è questo che sognavo da bambina

L’AUTRICE – Jolanda Di Virgilio lavora nella redazione de ilLibraio.it. È co-autrice, con Sara Canfailla, del romanzo d’esordio Non è questo che sognavo da bambina (Garzanti). Nel libro, in cui chat, mail e social entrano nella narrazione (del resto, la trama vede al centro la storia dello stage della protagonista, Ida, ed è ambientata in un’agenzia di comunicazione milanese), si racconta cosa significa diventare adulti oggi: le relazioni finite prima di cominciare, il senso di impotenza di fronte a un sistema lavorativo precario e ingiusto, la frustrazione di vivere in una città difficile, dove dicono che ci sia posto per tutti dimenticandosi di dire che, in quel posto, ci si sente molto soli.

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