Cosa c’è di così tanto affascinante nell’adolescenza e nella giovinezza femminili? Su ilLibraio.it la riflessione di Sara Marzullo, all’esordio con “Sad girl – La ragazza come teoria”. Tra auto-fiction e non-fiction, l’autrice si interroga sul concetto di “sad girl” come frutto dell’immaginario patriarcale e sulle sue implicazioni in diversi ambiti. E qui si sofferma in particolare su cosa significa “prepararsi” per una donna (ieri come oggi), e lo fa citando numerosi riferimenti, dalla letteratura alla musica, passando per il mondo del cinema e delle serie tv…

L’altro giorno leggevo una giornalista di moda che chiedeva alle sue lettrici quale fosse il loro rapporto con l’idea di “prepararsi” (per uscire, per un evento importante, per andare a lavoro); molte delle donne che hanno risposto hanno detto che considerano quel tempo un tempo “per loro”, in cui prendersi cura di sé, e che a volte rimpiangono la vita frenetica che conducono e vorrebbero averne di più.

In questi mesi ho riflettuto molto sul significato di questa azione: cosa significa “prepararsi” per una donna? Gli uomini si “preparano” mai? Forse per una cerimonia, ma nella vita di tutti i giorni, per andare a lavoro o per incontrare gli amici non sembrano interessati a passare davanti allo specchio più dello stretto necessario; vanità a parte, di certo non si trovano uno a casa dell’altro per “prepararsi” insieme prima di uscire, non si scambiano trucchi e vestiti, non si mettono d’accordo sul tema della serata o sull’opportunità o meno di indossare scarpe più o meno scomode.

Prima di “prepararsi”, una donna non è pronta? Cos’è una donna prima di indossare gli abiti che la renderanno tale?

Senza entrare nel dibattito – infinito, estenuante eppure sempre fertile – se gli indumenti abbiano o meno un genere o se è chi li indossa a deciderne la destinazione, se il genere sia una questione culturale o se il corpo prenda parte a un processo di materializzazione a cui contribuiscono la biologia e la società, vorrei concentrarmi su quella vaga eppure chiarissima azione del “prepararsi”.

Se ci prepariamo, significa che più o meno vogliamo aderire a un’idea di femminilità che esiste già al di fuori di noi? La femminilità sembra insomma funzionare come un catalogo da cui scegliere, a cui ispirarsi, da imitare. Susan Sontag scrive che “essere una donna è essere un’attrice” e che “la femminilità è una specie di teatro“.

Quando ho iniziato a scrivere Sad Girl. La ragazza come teoria* era proprio questo che volevo indagare: gli anni della mia adolescenza e della mia giovinezza erano stati un processo di trasformazione (in qualcos’altro) o di rivelazione (di chi ero)? Quanto mi ero lasciata influenzare da modelli e icone che sentivo vicini? Mi avevano aiutato a materializzare me stessa o mi ero solo ostinata ad assomigliargli?

Discutendo su cosa scrivere in questo articolo, una delle idee era quella di mettere a confronto come fossero cambiati i modelli di malinconia femminile (le sad girl del titolo) negli ultimi vent’anni: gli immaginari, i codici estetici, che un tempo proliferavano su spazi come Tumblr o DeviantArt, sono scomparsi adesso che quei siti sono sempre meno frequentati? Non proprio, non sembrano neppure essere mutati radicalmente nella loro apparenza. A riprova di questo, non solo la persistenza di simil vergini suicide, come le ha ritratte Sofia Coppola, su copertine di libri e in film, o di infinite playlist dal titolo sad girl starter pack su ogni servizio di streaming, ma il fatto che tanto pop con il suo sdilinquimento malinconico e disperato sembri eternamente comprensibile, che uno sia adolescente o no, che abbia un ex cretino o meno.

Quello che intendo dire è che tutte le Olivia Rodrigo, le sad girl, le ragazze interrotte, le lettrici di Sylvia Plath, le collegiali alla Picnic at Hanging Rock e così via in un certo senso attingono da uno stesso modello femminile, codificato dalla cultura anglosassone, come quasi tutti i modelli adolescenziali sono, per cui “se ti è piaciuta Fiona Apple”, ti piaceranno uno stesso sterminato numero di musiciste arrabbiate e trattenute. (Lauren Berlant chiama questa possibilità di riconoscersi nelle norme di genere la “cultura femminile”, mentre in un bellissimo e stranissimo saggio uscito per Verso, l’autrice britannica Joanna Walsh dice che online una ragazza diventa subito un avatar, un figurina che rappresenta tutti, senza essere nessuno; in entrambi i casi quello che avviene è un appiattimento delle esperienze in una serie di stereotipi.)

La persistenza di un certo immaginario non significa certo che un orizzonte estetico sia un bene di per sé né che riconoscersi in una figura sia un atto di emancipazione; se anche l’idea di “prepararsi” per molte coincida con un atto di cura di sé, rispondere a un modello significa pur sempre ritagliarsi dentro una sagoma, imparare una lingua o un codice. Internet poi, per come lo conosciamo adesso, ha bisogno di riciclarsi continuamente: non passano vent’anni tra un ciclo della moda e il successivo, ma la metà; non trend, ma microtrend di pochi mesi; il 2006 di Saltburn provoca in alcuni nostalgia come potrebbero farlo la fine degli anni Settanta; tutto è retrò. I sad girl starter pack e le collezioni di abiti pieni di fiocchi rosa e tulle rispondono alla stessa velocizzazione del mondo per cui l’estetica è caratterizzata da un eterno ritorno; forse però c’è qualcosa di più che possiamo vedere dietro a questa malinconia in cui tutto si diluisce.

Niente infatti si ripete uguale a sé stesso, ogni tradizione muta nel tempo o si adatta al suo tempo: se penso alle sad girl che pullulano nei romanzi e nei film di questi anni, ci sono ragazze che vogliono dormire per un anno intero (Il mio anno di riposo e oblio di Ottessa Moshfegh), ragazze estenuate dal capitalismo, dalle relazioni o dall’industria culturale che trovano rifugio nel matrimonio (Parlarne tra amici e Dove sei mondo bello di Sally Rooney), donne che finiscono per desiderare qualcuno che dica loro cosa fare (Fleabag). Forse quello che ci possiamo domandare non è se le ragazze tristi ci sono ancora oppure siano una reliquia del passato, ma a cosa risponda la loro tristezza, dov’è il confine in cui diventa apatia, resa, oblio di sé.

sad girl sara marzullo

L’AUTRICE E IL LIBRO – (…) Con questo libro volevo rispondere a una domanda: cosa c’è di così tanto affascinante nell’adolescenza e nella giovinezza femminili? Sebbene le giovani donne siano ancora marginali nella tribuna politica e nell’àmbito delle decisioni, le protagoniste dei film, delle canzoni e dei libri, ma anche dei miti e delle fiabe – quando ci sono, il che accade sempre meno delle loro controparti maschili – sono immancabilmente e inesorabilmente giovani. Che ruolo occupano all’interno delle nostre mitologie e gerarchie personali? Cosa nascondono e conservano questa età, e queste figure, meglio o al posto di altre?”. Se lo chiede Sara Marzullo nell’introduzione del suo primo libro, Sad girl – La ragazza come teoria*, pubblicato da 66thand2nd.

“Ero triste, di una tristezza vischiosa e pervasiva, come melassa o incenso. Soprattutto, volevo descrivermi così”. A vent’anni Sara Marzullo non sapeva spiegare la sua malinconia, così se l’era tatuata addosso, si era vestita di nero e aveva letto solo poetesse per un anno. Improvvisamente la confusione e lo spaesamento della giovinezza si condensavano in un’identità, quella della sad girl. In mezzo a Sylvia Plath, Le vergini suicide e le Ragazze interrotte, l’autrice scopriva di essere meno sola, ma soprattutto che le ragazze, anche quelle tristi, sono impossibili oggetti del desiderio”.

sad girl

Nel suo primo libro (“tra auto-fiction e non-fiction“), Marzullo, che è anche traduttrice e firma per alcune riviste, si interroga sul concetto di “sad girl” come frutto dell’immaginario patriarcale e sulle sue implicazioni in diversi ambiti. Si chiede infatti cosa si nasconda dietro l’ossessione culturale verso le giovani ragazze. “Dal capitale sessuale, alle pop star, all’industria della prima persona, fino al lavoro culturale, indaga gli archetipi e gli stereotipi che modellano le ragazze e ne condizionano i comportamenti e l’educazione sentimentale e sessuale, per trarne una teoria che possa liberarle dal loro ruolo di oggetto passivo”.

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Fotografia header: Sara Marzullo foto di Anthony De Matteo

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