Dopo il successo di “Parlarne tra amici” e “Persone normali”, Sally Rooney è tornata in libreria con “Dove sei, mondo bello”. In questo romanzo l’autrice (considerata tra le più rilevanti firme contemporanee) mette in scena il tratto più caratteristico della generazione dei Millennials: l’overthinking. Il non sapersi districare tra i troppi pensieri e, di conseguenza, il non riuscire ad agire. Rimanere immobili e consapevoli di fronte alla catastrofe annunciata – che riguardi il mondo intero, o la propria quotidianità. È una critica sociale e individuale che si espande in modo elegante, superbo e caotico, colpendo non solo il sistema generale, il lavoro e il comportamento del singolo, ma anche la letteratura stessa
In esergo c’è Natalia Ginzbugr, con Le piccole virtù: “Quando scrivo qualcosa, di solito penso che è molto importante e che io sono un grandissimo scrittore. Credo succeda a tutti. Ma c’è un angolo della mia anima dove so molto bene e sempre quello che sono, cioè un piccolo, piccolo scrittore. Giuro che lo so. Ma non me ne importa molto”.
Oscillano un po’ tra le manie di onnipotenza e la tanto citata sindrome dell’impostore, i personaggi del nuovo romanzo di Sally Rooney, Dove sei, mondo bello (Einaudi, traduzione di Maurizia Balmelli).
La patologia del nostro tempo, l’individualismo esasperante, viene messa a nudo su carta, nero su bianco, attraverso la storia di un gruppo di trentenni che si amano e si respingono, si cercano e scappano, desiderano cambiare vita ma restano immobili. Sullo sfondo: la tragedia dell’umanità, sull’orlo del collasso.
È forse questo, il male che ci consumerà? È il non riuscire a pensare ad altro che a noi stessi, ai nostri flirt e alle nostre ambizioni, al sesso che abbiamo (o non abbiamo) fatto, ai rimpianti, alle frustrazioni, al tempo che scorre mentre restiamo incollati a una scrivania a svolgere il nostro lavoro ordinario?
Ce lo chiediamo tutti, e sempre più spesso: come si può vivere “su questo pianeta in rapido decadimento”? E soprattutto, come si può vivere mentre lì fuori ci sono le guerre, le pandemie, la crisi climatica, mentre “la maggioranza della popolazione vive nella povertà assoluta”?
La nostra sembra un’esistenza inutile e fin troppo privilegiata, che probabilmente non meriterebbe di essere raccontata. Eppure è proprio di questa vita fatta di quotidianità, di relazioni ambigue, di amicizie e di occupazioni apparentemente prive di senso che parla Rooney, mettendo al centro principalmente se stessa e la sua idea di letteratura.
Facciamo un passo indietro. Come molti sanno, Sally Rooney è annoverata tra le principali autrici contemporanee, considerata “la voce dei Millennials“, caposcuola di una nuova corrente di romanzi, la Salinger della generazione di Snapchat, un vero e proprio marchio di fabbrica (basti pensare che in occasione del lancio del libro, la casa editrice Faber ha aperto un pop-up shop): insomma, un fenomeno letterario che si è trasformato in una sorta di trend.
Con i suoi precedenti libri, Parlarne tra amici e Persone normali (da cui è stata tratta anche una serie HBO di successo) ha attirato un’attenzione mediatica singolare e, nonostante la scrittrice appaia come una figura piuttosto introversa e sfuggente, sono stati numerosi gli approfondimenti, le recensioni, le interviste e gli articoli a lei dedicati. La strada del successo le si è srotolata davanti ai piedi, ma diciamo che Rooney non è mai stata troppo entusiasta di percorrerla (o, almeno, non apertamente): è rimasta in disparte, mantenendo le sue posizioni e le sue idee (per esempio ha fatto molto parlare la scelta di non far tradurre il suo ultimo lavoro in Israele).
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Per questo non è difficile rivederla nel personaggio di Alice di Dove sei, mondo bello. Ci troviamo di fronte a una giovane scrittrice pluripremiata, reduce dal successo dei suoi primi romanzi che, dopo aver avuto un pesante crollo di nervi, si rifugia in un’enorme casa in un paesino irlandese, mentre cerca di dedicarsi alla stesura del terzo libro.
Scrivere, però, non è più così semplice: Alice – che di fatto è una persona spontanea e di buon cuore, un’idealista senza macchia e senza paura, che non si è mai capacitata della fama ottenuta – si consuma attorno a questioni esistenziali e morali: si chiede che senso abbia scrivere e far sentire la propria voce, se tanto al pubblico interessano solo intrecci e storie d’amore. È giusto leggere e dedicarsi ai romanzi mentre potrebbe fare qualcosa di concreto per salvare il pianeta? Tutte l’energie che investe per venire a capo dei suoi tormenti sentimentali non potrebbero essere investite per fare del bene?
Nel frattempo instaura una frequentazione non del tutto equilibrata con Felix, un magazziniere che ha conosciuto su Tinder e che, dal primo momento, le ha detto di non essere minimamente interessato a leggere quello che scrive.
Accanto ad Alice – ma a Dublino – seguiamo le vicende di Eileen, la sua migliore amica, conosciuta durante gli anni di università: Elieen è dolce, timida, sensibile e incredibilmente pungente nelle sue osservazioni. Lavora in una rivista letteraria percependo uno stipendio da fame, che le permette a stento di mantenersi e pagare l’affitto di una stanza singola in città. È inoltre innamorata (e ricambiata) da quando è bambina di Simon, ma il loro è un rapporto sfocato e solo evocato, che – per paura, incomunicabilità, incapacità – non riesce mai a prendere forma.
Riprendendo lo schema narrativo delle due coppie che già avevamo visto in Parlarne tra amici (lì c’erano le due amiche marxiste Frances e Bobbi, e i borghesi e decadenti Nick e Melissa), e mescolandole con l’intimità e la dolcezza di Marianne e Connell di Persone Normali, Rooney ci presenta due storie d’amore e ce le racconta con il suo solito stile asciutto, serrato e “visivo”.
The Atlantic la paragona a Hemingway e Carver per la sua capacità di scrivere dialoghi che suonano spontanei, ma che hanno una profonda densità di dramma ed emozioni. Secondo il New York Times i suoi romanzi hanno l’arida e intensa malinconia di un dipinto di Hopper (non a caso, quando in estate è stato pubblicato un estratto dal libro sul New Yorker, l’immagine in copertina somigliava esattamente a un lavoro dell’artista americano, tutto giocato su effetti luci e ombre, ma inserito in un contesto tecnologico: una ragazza senza volto che, nel buio della sua stanza, viene investita dalla luce asettica del suo pc).
Una prosa ammaliante e triste, che si alterna con quella delle lunghe mail discorsive che si inviano Eileen e Alice. In questo spazio il ritmo narrativo si dilata e la scrittura si arricchisce di pensieri personali, riflessioni di carattere filosofico, dibattiti intellettuali e pettegolezzi.
Tutto procede come un flusso naturale, sconclusionato e privo di ordine: si passa dai drammi sentimentali alla paura per la fine del mondo, dal disprezzo per il proprio lavoro alla critica del sistema capitalista, dal cercare di individuare il motivo della loro infelicità al tentare di capire qual è stato il momento l’umanità abbia perso di vista l’importanza della bellezza (secondo Eileen è successo nel 1976, quando la plastica è diventata il materiale più diffuso, mentre per Alice è da ricondursi al crollo del muro di Berlino).
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È esattamente come se origliassimo una discussione tra due amiche sedute in un bar, davanti a una bottiglia di vino. Esaltate, divertite, sconnesse dal reale, impaurite: attraverso i suoi personaggi Rooney mette in scena il tratto più caratteristico della generazione dei Millennials, l’overthinking. Il non sapersi districare tra i troppi pensieri e, di conseguenza, il non riuscire ad agire. Rimanere immobili e consapevoli di fronte alla catastrofe annunciata – che riguardi il mondo intero, o che riguardi la propria quotidianità. È una critica sociale e individuale che si espande a macchia d’olio – e lo fa in modo elegante, superbo e caotico – colpendo non solo il sistema generale, il lavoro e il comportamento del singolo, ma anche la letteratura stessa.
E allora cosa si può fare? Fondamentalmente niente. Del resto è vero che tutto sta andando a rotoli, ma dobbiamo pur sempre “comprarci il pranzo”.
Il massimo che possiamo fare (o che facciamo) è indignarci e argomentare nel mondo più prolisso possibile la nostra indignazione = lamentarci (“D’altra parte abbiamo tutti qualcosa che non va, dico bene?”).
In questa presa di coscienza ci sentiamo terribilmente vicini alle parole di Rooney (probabilmente la reazione più comune leggendo è un susseguirsi di “anche per me così!”), e scorrere le pagine del suo romanzo diventa un atto catartico e liberatorio (nonostante sia impossibile non provare l’inestirpabile senso di colpa che lei stessa descrive).
Anche perché, dopotutto, questo lamento continuo non è altro che la ricerca di un senso, sembra dirci l’autrice, con un messaggio che alla fine conserva il sapore della speranza: esiste una bellezza in grado di salvarci. Non sappiamo dove sia, ma questo non deve impedirci di cercarla.
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L’AUTRICE – Jolanda Di Virgilio lavora nella redazione de ilLibraio.it. È co-autrice, con Sara Canfailla, del romanzo d’esordio Non è questo che sognavo da bambina (Garzanti, in libreria il 26 agosto). Al centro del libro, ambientato in un’agenzia di comunicazione milanese (e in cui la città, i suoi locali, i suoi quartieri sono co-protagonisti della stori), si racconta cosa significa diventare adulti oggi: le relazioni finite prima di cominciare, il senso di impotenza di fronte a un sistema lavorativo precario e ingiusto, la frustrazione di vivere in una città difficile, dove dicono che ci sia posto per tutti dimenticandosi di dire che, in quel posto, ci si sente molto soli.