“Bisognerebbe raccontare della violenza ostetrica, che è un’esperienza che ho vissuto sulla mia pelle e di cui si parla ancora troppo poco. Bisognerebbe dire che una persona che decide, o subisce, un’interruzione di gravidanza è costretta a restare nella stessa sala dove nascono i bambini, sale piene di cuori che battono. Che in questi reparti ti chiamano sempre e comunque ‘mamma e papà’ anche se un figlio o una figlia non ce li hai più. Bisognerebbe raccontare come ti trattano in molte cliniche per la procreazione assistita. Come in alcuni ospedali non ti aiutino a gestire il dolore. Come una mancata nascita possa essere un evento distruttivo. Come il dolore di una donna sia sempre una questione privata. Perché una donna sarà comunque da sola a subire tutto, anche fisicamente”. In occasione dell’uscita di “Cose che non si raccontano”, ilLibraio.it ha intervistato la scrittrice Antonella Lattanzi, con cui ha parlato di tabù e delle ambivalenze che ruotano attorno alla maternità: procreazione medica assistita, gravidanza, aborto, ma anche paure, dubbi, sensi di colpa e ambizioni personali: “La scrittura per me è una benedizione. Come lo è in generale poter amare, poter avere un sogno. Indubbiamente scrivere mi ha salvato durante questo periodo. Quando perdi tutto, quando non ti rimane più niente, cosa puoi fare? Io sono riuscita a rimanere aggrappata a una motivazione, al mio lavoro. E, pensandoci, se tornassi indietro non vorrei aver accantonato la mia passione, perché non sarei mai stata una persona felice…”
Se ci si pensa, per una donna il momento “giusto” per avere un figlio non arriva mai. La vita corre e richiede troppo spazio: per se stesse, per il lavoro, per le ambizioni, per le relazioni.
Se ci si pensa, affrontare un’impresa come la genitorialità prevede un’impegno e una dedizione che difficilmente ci mettono nella condizione di affermare con certezza: “sì, sono pronta”.
Antonella Lattanzi ha desiderato tanto una gravidanza, l’ha cercata con tutte le sue forze e, per averla, a si è sottoposta alla PMA (procreazione medica assistita), perché grande era il sogno di poter essere madre. Eppure non ha mai smesso di nutrire dubbi, di chiedersi ‘come farò ad affrontare tutto questo?’. Non ha mai smesso di pensare ai suoi libri, a come poter conciliare la sua vita con quella di un altro essere vivente.
Bruciare di desiderio e tormentarsi di paura: ecco la condizione che vivono tante donne rispetto alla scelta di diventare madri. Ma ‘scelta’ forse è una parola che non si addice a questa circostanza: è una parola troppo piena, decisa, priva di ombre. È proprio in questi territori che si addentra la scrittrice con il suo nuovo libro Cose che non si raccontano (Einaudi), un romanzo che, come si evince dal titolo, vuole esprimere tutto ciò che spesso viene taciuto per vergogna, per consuetudine, per senso di colpa.
In una confessione straziante che arriva dritta allo stomaco, Lattanzi – autrice di Devozione, Prima che tu mi tradisca (entrambi per Einaudi Stile Libero), Una storia nera (Mondadori) e Questo giorno che incombe (HarperCollins) – rievoca gli anni trascorsi in balia di medici, infermieri, farmaci, test di gravidanza, speranze, ecografie, luminosi attimi di felicità, e poi aborti, di nuovo speranza, di nuovo aborti, sangue. Anni in cui è rimasta in silenzio perfino con le persone più care, in cui ha custodito i suoi momenti di dolore e di gioia come se fossero un segreto. Perché ci sono cose che non si raccontano mai, ma di cui si dovrebbe iniziare a parlare.
Per questo, ilLibraio.it ha chiesto all’autrice di approfondire in un dialogo la sua esperienza personale, non distante da quella di molte persone che, in un modo o nell’altro, si sono confrontate con l’idea di compiere il passo verso la genitorialità.
Pubblicare un libro come questo significa dover riaprire costantemente una ferita. E parlarne con chiunque. È un timore che lei stessa esprime nel romanzo: quello di doversi trovare di nuovo faccia a faccia con il dolore vissuto. Come sta andando?
“In realtà sta accadendo una cosa molto bella, che non aspettavo minimamente. Da quando il libro è uscito, ricevo tantissimi messaggi, non solo di donne e non solo a proposito della maternità, in cui le persone mi raccontano la loro esperienza. Quindi, da un lato mi sento investita di una grande responsabilità, dall’altro sento che finalmente possiamo parlare delle cose che non diciamo a nessuno”.
Come le sembra che stiano accogliendo la sua storia?
“Spero che non sia percepito come un libro triste ma, al contrario, come un libro pieno di vita, che era quello che volevo cercare di scrivere. Certo, questi non sono giorni facili, perché non mi posso mai staccare dal pensiero di quello che ho raccontato, perché continuamente devo parlarne, devo leggere i messaggi, devo ascoltare le telefonate. Però è una sensazione di grande pienezza sentire di essere arrivata in questo modo alle persone”.
“Te lo sei meritata” è una delle frasi più dolorose, che torna con maggior insistenza nel romanzo. Come se la mancata maternità fosse una sorta di punizione per non essere state abbastanza.
“Desideravo parlare del tabù e delle ambivalenze che ruotano attorno alla maternità. La maggior parte delle donne e degli uomini che hanno studiato, o che hanno letto, credono fermamente nel diritto all’aborto, credono nel diritto alla procreazione assistita, credono nel diritto di una donna di poter aspettare il momento che lei ritiene più giusto per diventare madre, magari per cercare prima di realizzarsi lavorativamente… poi però alla fine ti scontri con una realtà diversa”.
Come mai?
“Siamo una generazione a cui avevano promesso che avremmo potuto essere donne e madri, cioè che avremmo potuto inseguire i nostri sogni, che avremmo potuto lavorare ad alti livelli, ma anche essere dei genitori. Questo però non è vero. Perché per esempio chi fa lavori come il mio, o comunque tutti i lavori che non hanno un contratto e che sono precari, non possono usufruire della maternità, non hanno le ferie, non hanno la malattia, e quindi tu sai che quando affronterai quest’esperienza sarai lasciata completamente sola, non c’è un alcun sostegno da parte dello Stato”.
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La questione del lavoro è centrale in effetti per una donna che desidera diventare madre. Sembra che le due strade si escludano – o sei mamma, o sei una professionista – e non possano andare nella stessa direzione.
“Molto di più: l’ambizione lavorativa crea spesso un senso di colpa. Una volta una persona mi ha chiesto: ‘ma un senso di colpa verso chi?’, che in effetti è una buona domanda. In realtà credo sia un senso di colpa verso tutti. Verso te stessa, verso questi bambini o questo bambino che sarebbe potuto nascere, verso il fatto che ti sembra di chiedere troppo se desideri contemporaneamente di essere una donna che lavora e di essere una madre. Il senso di colpa, però, si espande anche in territori ancora più complicati, che sono quelli di quando inizia la gravidanza, perché tutti pensano che quando rimani incinta sei felice, contenta, completa, senza dubbi o timori. Ma invece non è così”.
A lei cosa è successo?
“Ho desiderato a lungo una gravidanza. Ma quando è arrivata ho avuto moltissima paura, perché temevo di perdere il mio lavoro. Perché temevo di perdere la mia libertà, la mia indipendenza. Ma non potevo dirlo a nessuno perché non volevo sentirmi dire: ‘ma come, l’hai voluta così tanto, e adesso hai dubbi?’. E così, quando poi è successo quello che mi è successo, quando ho perso le mie bambine, ho pensato di essermelo meritato perché non avevo accolto la maternità in modo totale e angelico. Chiaramente sono pensieri irrazionali, ma sono anche i pensieri con cui dobbiamo scontrarci come donne ed esseri umani”.
Impossibile non citare L’evento di Annie Ernaux, non solo per il tema dell’aborto, ma anche per l’urgenza di scrivere di cui lei parla nel romanzo.
“Penso di aver scritto questo libro per due motivi. Sicuramente per non impazzire. Avevo bisogno di staccarmi dalla situazione che stavo vivendo e mi sono resa conto, a un certo punto, che i miei pensieri, così assillanti e ossessivi, si concretizzavano in delle frasi. Frasi scritte, diverse dai semplici pensieri. Ma ho deciso di scriverlo anche perché sentivo che questa storia meritava di essere raccontata, che in fondo è sempre il motivo per cui ci si mette a scrivere. Due mesi dopo la fine della stesura, ho letto L’evento, e ci ho ritrovato molto di me e delle cose che non si raccontano. Ernaux dice di non riuscire a pronunciare mai la parola ‘aborto’, ma di riuscire a scriverla. Ecco, anche per me è lo stesso. Scrivere mi permette di far dare significato alle cose. Il mio obiettivo infatti non era dare vita a un diario o un memoir, ma a un romanzo. Poter cercare le parole per dire quello che credo non fosse soltanto mio, ma anche di altri, qualcosa che non trovavo da nessuna parte”.
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È stato difficile?
“Ovviamente. Perché ho dovuto ricordare tutto, mentre volevo solo dimenticare. Ho ripreso in mano le cartelle cliniche, ho riletto i messaggi, ma soprattutto ho dovuto ripensare ai momenti belli, che sono i più difficili da ricordare quando non ci sono più. Tuttavia non volevo ricordare solo la tristezza, ma speravo che emergesse un desiderio di vita, un’energia di gioia, nonostante la sofferenza”.
Quali sono le cose che, secondo lei, si dovrebbero raccontare?
“Bisognerebbe raccontare della violenza ostetrica, che è un’esperienza che ho vissuto sulla mia pelle e di cui si parla ancora troppo poco. Bisognerebbe dire che una persona che decide, o subisce, un’interruzione di gravidanza è costretta a restare nella stessa sala dove nascono i bambini, sale piene di cuori che battono. Che in questi reparti ti chiamano sempre e comunque ‘mamma e papà’ anche se un figlio o una figlia non ce li hai più. Bisognerebbe raccontare come ti trattano in molte cliniche per la procreazione assistita. Come in alcuni ospedali non ti aiutino minimamente a gestire il dolore. Come la mancata nascita di un figlio possa essere un evento distruttivo. Come il dolore di una donna sia sempre una questione privata. Perché una donna sarà comunque da sola a subire tutto, anche fisicamente”.
Intravede delle possibilità di cambiamento?
“Adesso assolutamente no. Qui in Italia siamo ancora molto indietro. All’estero, per esempio, è molto più diffuso il congelamento degli ovuli perché c’è un’informazione che permette alle donne di essere più consapevoli e pronte per accogliere una gravidanza. Io ora lo dico tutti, ‘congelate gli ovuli!’, perché se qualcuno lo avesse detto a me forse non mi sarei trovata in questa situazione”.
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Come si potrebbe migliorare?
“Credo che ci sia margine di miglioramento se denunciamo. Se oggi denuncio io, domani tu e poi un’altra persona e un’altra ancora, allora forse ci sarà speranza. Ma una donna si sentirà sempre sola, perché nessuno ci aiuta a diventare madri. Per questo poi la depressione durante la gravidanza e quella post partum sono abbastanza comuni. Perché non c’è sostegno, non c’è aiuto da parte delle istituzioni. Però io mi dico: dobbiamo per forza arrivare a questo? Perché non possiamo prendere dei provvedimenti politici, medici e sociali per prevenire queste situazioni?”.
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La sua storia ha un qualche punto di contatto con un altro libro uscito recentemente, Tasmania di Paolo Giordano. Si tratta di due romanzi profondamente differenti, ma anche in quel caso l’autore si sofferma sul tema della mancata paternità e sull’esperienza della PMA.
“Sicuramente per un padre l’esperienza è diversa, ma una cosa che mi ha colpito è aver ricevuto molti messaggi di uomini che mi ringraziavano, perché attraverso il libro erano riusciti a comprendere meglio quello che avevano vissuto le compagne. La verità però è che, diversamente dalla donna, all’uomo non viene chiesto di mettere a rischio il proprio lavoro, la propria identità, di dedicarsi completamente ai figli. Quando ero rimasta incinta, ricordo che non sapevo se avrei voluto allattare. C’erano queste masse di uomini che mi dicevano ‘guarda che il figlio deve stare con la mamma!’. E io avrei voluto rispondere: ma perché? Perché non può stare con il papà? Mi fa impazzire questa idea che tu, in quanto uomo, sei nella condizione di liberarti dal senso di colpa e dalla responsabilità. La natura non vuole questo… anzi, la natura non ‘vuole’ proprio nulla in generale. Per me è importantissimo che tutti capiscano che due padri non sono meno di un padre e una madre”.
Parliamo della scrittura. Nel libro lei la descrive come una salvezza, ma anche come una maledizione. Perché per il desiderio di diventare scrittrice ha abortito due volte in giovane età.
“La scrittura per me è una benedizione. Come lo è in generale poter amare, poter avere un sogno. Indubbiamente scrivere mi ha salvato durante questo periodo. Quando perdi tutto, quando non ti rimane più niente, cosa puoi fare? Io sono riuscita a rimanere aggrappata a una motivazione, al mio lavoro. E, pensandoci, se tornassi indietro non vorrei aver accantonato la mia passione, perché non sarei mai stata una persona felice”.
Cita spesso nel racconto il suo romanzo precedente, Questo giorno che incombe. In quel caso parlava di una madre in un momento di crisi e di rifiuto della maternità. Cosa l’aveva spinta a raccontare questo aspetto?
“Chi scrive non vede mai chiaramente il filo rosso che lo guida nella scrittura. So che volevo parlare di oppressione, di senso di colpa, di solitudine. Evidentemente erano temi che già sentivi vicini, ma che ho scelto di trasformare in una storia, diversamente da Cose che non si raccontano in cui non ho dovuto inventare niente. Certo, quando si scrive si mente sempre in un certo senso, ma il processo è stato diverso”.
A proposito di mentire: l’imperativo “sii sincera” ricorre nelle sue pagine con una certa frequenza. In cosa consiste la sincerità in letteratura?
“Nel non aver paura di usare le parole giuste. Nel non aver paura di essere giudicata”.
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