Fatta eccezione per la controversa pubblicazione di “Bianco” (2019), la musa inquieta che visita la penna di Bret Easton Ellis da almeno vent’anni è il demone della riscrittura. Il che non è necessariamente un male, anzi… Non stupisce, dunque, che con il suo nuovo romanzo, “Le schegge” (metà storia di formazione, metà noir), l’autore ceda alla tentazione di riscriversi. Così facendo, ancora una volta si dimostra capace di ricreare le atmosfere che lo hanno reso celebre, e che così profondamente sono in grado di descrivere il nostro tempo. Un viaggio nell’opera dell’enfant terrible della letteratura americana, in cui traspaiono il suo dolore, la sua paranoia e soprattutto la sua indifferenza

Fatta eccezione per la controversa pubblicazione di Bianco (2019), un saggio schiacciato dal fatto che Bret Easton Ellis volentieri si lascia soccombere alla voglia di dare fastidio esibendo la sua parzialità a detrimento di ogni argomentazione, la musa inquieta che visita la penna dell’autore da almeno vent’anni è il demone della riscrittura.

Il che non è necessariamente un male. Anzi, attestarsi su una forma di coerenza sporca, che circolarmente torna indietro, è naturale per un autore che già alla sua seconda fatica (Le regole dell’attrazione, 1987) avvertiva in epigrafe che i fatti, anche quando incastonati in una catena che li lega gli uni agli altri, “non avevano un vero ordine. Gli eventi non scorrevano. I fatti erano separati e casuali anche mentre accadevano, episodici, spezzati, senza passaggi scorrevoli, senza il senso di avvenimenti che nascessero da avvenimenti precedenti”.

libri bret easton ellis 1

La tentazione del romanzo-summa, ultimo, definitivo e capace di condensare tutti i precedenti, inizia almeno con Lunar Park (2005).

Ellis raddoppiava l’incipit, memorabile quanto claustrofobico (“Sei una perfetta imitazione di te stesso”), la prima volta per evocare sulla pagina la sua autobiografia romanzata: Bret Easton Ellis parlando in prima persona ripercorre i libri di Bret Easton Ellis con il tono di Bret Easton Ellis, accogliendo il punto di vista dell’immagine di Bret Easton Ellis.

L’enfant terrible tanto adorato quanto odiato dai media, immorale e chimicamente tormentato, partiva con ironia gelida quanto complice dagli esordi di un “romanzo che parla di zombi che tirano coca e sparano pompini” (Meno di zero, 1985) e non dimenticava l’enorme polemica suscitata dalla pubblicazione di American Psycho (1991) e i suoi strascichi spettrali (a una coppia di serial killer canadesi ne fu trovata una copia, cerchiata e sottolineata sul comodino, e, pur senza copia feticcio, la correlazione tra Jeffrey Dahmer e Patrick Bateman è fin troppo facile, “fu orribile”, dichiarò Ellis).

Sei una perfetta imitazione di te stesso”: la seconda volta, per slabbrare i confini dell’autofinzione, il patto di apparente plausibilità su cui si fonda il genere, fino a renderlo un romanzo gotico, debitore dichiarato di Stephen King. Qui, Ellis (scrittore) ed Ellis (personaggio) danno vita a un corpo a corpo tra la vita e la fiction. Lunar park teatralizza le responsabilità oscure di chi imprime una forma alla vita in un crescendo di orrore che proprio la finzione infligge alle cose (“Guarda quanto è nero il cielo, disse lo scrittore. L’ho fatto io così”).

La voglia di chiudere il cerchio prosegue poi con Imperial Bedrooms (2010), decisamente meno riuscito del precedente. Riscrittura a distanza dell’esordio, richiama alla pagina la sua gioventù dorata e disperata. Nonostante il flusso ininterrotto di droghe e assenze di prospettive, quest’ultima sopravvive a sé stessa e si ripresenta alle soglie della mezza età forse ancora più cupa. Il senso dovrebbe trovarsi nei pressi di una chiusa misantropica e disperata, affidata a una confessione muta (“Non mi è mai piaciuto nessuno e le persone mi spaventano”).

Bret Easton Ellis le schegge

Chiusi i conti con la sua versione di carta, e chiusi anche con i suoi personaggi, dopo tredici anni di silenzi narrativi e polemiche, Bret Easton Ellis cede di nuovo alla tentazione di ricapitolarsi con Le schegge (Einaudi, traduzione Giuseppe Culicchia).

Ellis qui gioca a rimpiattino con gli archetipi, con l’idea dell’origine, con l’idea della decadenza e della catastrofe sepolta in un passato mitico che l’ha prodotta. Suggerisce che sia possibile individuare e che sia possibile raccontare la storia di come da un certo momento in poi tutto sia andato in frantumi, in schegge. Pezzi di cui non è possibile ricostruire l’intero. Che c’è stata un’origine, un prima e un dopo: nella storia di Bret Easton Ellis e, per virtù di sineddoche, nella sua opera e nel mondo. Che c’è stata una felicità e poi c’è stata l’indifferenza (“e ora posso indicare il momento in cui fui felice per l’ultima volta, o più esattamente le ultime tracce di felicità, o anche solo di calore, prima di precipitare nella paura e nella paranoia e iniziare a comprendere come funzionava in realtà”). Che le cose prima avevano un senso e a un certo punto invece no. Presupposto, che ci siano degli individui e delle storie in cui questi archetipi si coagulano e parlino delle vite di tutti.

L’individuo in questione non poteva che essere proprio Bret Ellis, nuovo doppio romanzesco del suo autore qui diciassettenne nella Los Angeles del 1981, iperdettagliata e iperellissiana. Infatti, per come ci viene presentato nelle prime pagine, Le schegge sarebbe l’ur-testo del resto della produzione del suo autore, il libro da cui figlierebbero tutti gli altri. Il libro che fino a questa data l’autore non ha mai avuto il coraggio e la forza di scrivere, finché non ha “chiesto di essere scritto come ci si innamora di qualcuno”.

bret easton ellis libri

Metà romanzo di formazione, metà noir, l’apprendistato è quello del giovane Bret Ellis che diventa adulto e diventa lo scrittore Bret Easton Ellis. Ellis suggerisce, senza mai dirlo esplicitamente, che lo scrittore nasca dalla familiarità di creare il proprio io pubblico, “l’essere visibilmente partecipe”.

Il suo io lentamente si è segmentato, spezzando il nodo che unisce quanto di visibile agli altri e quello nascosto alla vista. Il suo primo personaggio è proprio la sua identità eterosessuale, quando confeziona una versione di sé da offrire al mondo per celare la vergogna inconfessabile della sua omosessualità.

Di nuovo imparentato con le armoniche di Stephen King, invece, il noir è la vicenda di come Bret Ellis e i suoi compagni della Buckley durante il loro senior year entrino in contatto con le azioni di un serial killer noto come il Pescatore a strascico. Le sue vittime sono teenager e i loro animali domestici, uccisi in complessi rituali dei cui dettagli macabri la scrittura di Ellis non riesce a non compiacersi. I sospetti del protagonista si concentrano da subito sul misterioso Robert Mallory, nuovo studente della Buckley che diventa oggetto di un desiderio crescente quanto di paranoia. L’indagine non solo spetta al protagonista, ma la storia lo sceglie, lo chiama e lo tormenta, lo elegge perché immischiato in commerci con il mondo della finzione.

Le schegge nasce come un podcast e la trama ne risente. Positivamente. Il ritmo è così serrato da far dimenticare in fretta le sue oltre 700 pagine.

Naturalmente, non esiste nella Los Angeles del 1981 nessun serial killer noto come il Pescatore a strascico, e se anche i fan più accaniti hanno già sviscerato le cronache più minute e l’annuario del 1982 della Buckley, per mappare ogni punto di contatto tra realtà e finzione, nessuno legge davvero i libri di Bret Easton Ellis per capire cosa accada ai personaggi. Dagli esordi l’autore tratta le sue vicende come espedienti per esplorare “un tono sordo e divagante”, per accompagnare i personaggi in un’atmosfera che solo lui riesce a creare (per Meno di zero, più volte ha parlato di un libro senza trama, un hangout book).

Si legge per quell’atmosfera. Perché il suo autore è capace, ancora una volta, di chiamare all’appello tutti gli elementi che la definiscono. Si legge per il clima di decadenza e sfarzo che tinge i suoi anni Ottanta eterni, conscio dell’eccesso e dell’autoparodia (“un’immagine da un certo periodo dell’impero di cui ero, a tratti, consapevole – sembravo un coglione? mi chiesi fuggevolmente – prima di dirmi: ho un’aria così figa che me ne fotto”), fino a dipingere un quadro da fine impero, weimariano.

Si legge per la sua gioventù eterea e sola, viziata e fragile, costantemente in procinto di sdoppiarsi nella sua maschera per farla interagire col mondo, mentre si nasconde. I loro Wayfarer, la loro cocaina, le loro cravatte regimental, il Valium, lo stile Finzi-Contini, i cappotti Armani, il Quaalude, come madeleines del nulla che li convoca. L’assoluta distanza che li frammenta e in ultimo li chiude in sé stessi. E l’erotismo senza piacere, come palliativo per colmarla, sempre eccessivo, grafico, vuoto (memorabile l’eiaculazione chiosata con un bel “che importava, che importava tutto quanto, niente aveva importanza, mi dissi, ansimando”).

Si legge per il suo dolore, la sua paranoia e soprattutto la sua indifferenza, che giganteggia in tutta la produzione di Ellis e in Le schegge non è da meno (facendo dei conti rudimentali ogni 15 pagine a un personaggio “non frega nulla” di qualcosa, la parola niente compare ogni 3).

L’indifferenza come sentimento e come spirito del tempo, nella convinzione che non essere in grado di trovare un senso può essere cosa tanto potente quanto il trovarlo. Per l’atmosfera di un mondo che abdica all’idea di un qualsiasi profondità in virtù di una moltiplicazione incontrollata delle superfici.

Per i dialoghi in cui le parole non contano mai nulla, ma sanno accogliere tra i bianchi quote insuperate di non detto. Per l’imitazione, lo strazio e lo sperpero che Ellis fa di sé stesso. Per il male acefalo, immotivato. Perché ogni individuo è colto nell’atto di scomparire, ogni verità sul punto di svanire, ogni orrore sul punto di tracimare. Insomma, nelle Schegge c’è come sempre tutto Ellis. Resta da capire il perché rischierare tutto l’armamentario ogni volta, dando l’impressione di cercare coscientemente e al limite del manierismo la quintessenza del proprio immaginario.

Ci sono almeno due modi di provare a darsi ragione della coazione alla riscrittura ellissiana. E per farlo bisogna tornare all’origine, al momento in cui “tutto è andato in pezzi” e l’estetica e l’opera di Ellis diventano cose possibili.

Il primo modo ha a che fare con le forme storiche e simboliche della cultura e vede necessariamente l’opera di Ellis come un tutto coerente che nasce come risposta a una frattura storica. I suoi Eighties sono gli stessi in cui ci si è resi conto gradualmente (e man mano più insistentemente) che qualcosa era cambiato. Lyotard, nel suo rapporto sul sapere, lo dice nella forma più celebre. Le impalcature di senso della modernità scricchiolano: crollano le grandi narrazioni.  Crollano i “metaracconti” sui quali si fondano i modi in cui l’umanità ha dato per secoli un senso generale alla propria esperienza (non solo quello marxista, come la Storia dimostra di lì a poco, ma anche quello illuminista e idealista, dice Lyotard), su cui si fondano discorsi filosofici, istituzioni, prassi, sensi della vita. C’è chi parla di crisi della ragione. Per decenni si parla di postmodernità, ma è un’etichetta che per abuso ha smesso di significare qualcosa.

Questa mutazione la attraversa e la oltrepassa perché ha a che fare soprattutto con una realtà più quotidiana e percepibile. Secondo una delle sue versioni più brutali ha a che fare con il fatto che gli individui non hanno più la capacità di contestualizzare la loro esperienza in un intero che abbia un senso (fragments junkies, scrive Ellis in Lunar Park). Vuol dire che, senza un quadro in cui inserirla, ogni azione vale solo se stessa, e necessariamente è uguale a un’altra e, in definitiva, è insignificante.

L’indifferenza è uno strumento difensivo e la sensazione che risulta se ogni gerarchia capace di imprimere un senso sia saltata nello schema generale delle cose.

In letteratura lo registra, notoriamente, per la prima volta Raymond Carver in un racconto del 1977 (So Much Water So Close To Home): una persona assolutamente media, una brava persona, come tutte, va a pescare con gli amici, in un weekend anonimo in un posto anonimo. Poco dopo essere arrivato, il gruppo trova il cadavere di una ragazza e, insomma, lui e gli amici non fanno nulla, pescano, si fanno gli affari loro. Tornando a casa, la domenica successiva avvertono le autorità. Uno dei personaggi lo racconta alla moglie solo il mattino dopo essere tornati a casa. La moglie, portavoce del punto di vista di Carver, nella sua prosa scarna e distaccata, ne conclude “nulla ha davvero nessuna importanza ormai”.

Nessun decennio come gli anni Ottanta ripeterà ossessivamente e in contesti così diversi questa frase. This means nothing to me: sono tutti d’accordo. Lo dicono i punk che rifiutano tutto, gli yuppie che dicono “yes!” a tutto, lo urlano gli Ultravox che tormentano Le schegge con la loro Vienna perché “sembrava contenere trasversalmente ogni cosa”, disperati e in top ten.

Interamente consacrata all’altare dell’indifferenza, la scrittura di Ellis nasce qui. I personaggi di Meno di zero ne sono una reazione precoce. Ellis eredita lo stesso stile scarno di Carver, mediato da Didion, ed è già una tradizione, ma ha uno sguardo al tempo stesso più provocatore e più nostalgico (la voglia di Daniel di “tornare indietro”, non importa dove, “indietro e basta”). Qualcuno direbbe anche conservatore.

Cambiano gli individui, si sfaldano internamente; i costumi; i rapporti; le famiglie; il modo di desirare, il modo di sognare; la politica; si complica il nodo che lega passato-presente-futuro. Nonostante i suoi 19 anni, Ellis riesce ad accordarsi al suo tempo e lo riporta sulla pagina. Gli cuciono addosso l’etichetta della “voce di una generazione”. Della sua generazione non gli interessa molto. In fondo, la trasgressione è un effetto di superficie, Ellis è uno scrittore con delle chiare preoccupazioni morali, per lui contano soprattutto due cose. La prima: se ogni azione significa solamente sé stessa, come spiegare il male? L’unica violenza possibile è una violenza insensata. Ed ecco American Psycho e Patrick Bateman, l’iperviolenza (“Puoi pure sentire la mia carne a contatto con la tua, e credere che i nostri stili di vita siano comparabili, ma io semplicemente non ci sono. Per me, è difficile avere un senso, a qualsiasi livello. Io sono un’invenzione, un’aberrazione”).

La seconda: se conta solo la propria vita privata, perché nulla la supera e nulla la ingloba, gli altri sono una presenza sinistra (“Le persone avevano paura di mischiarsi nelle autostrade di Los Angeles”, così inizia Meno di zero) e, in un mondo di superfici riflettenti si rischia di perdersi nel doppio della propria immagine riflessa (Glamorama, 1998).

Se lo scrittore Bret Easton Ellis nasce per reazione a questa frattura, ne dà conto, la esplora e da qui ricava uno stile, una poetica e una coerenza, cosa fare quando questa ferita non si sutura, non si riassorbe e anzi si grammaticalizza diventando l’impalcatura del senso comune? Non resta che riscriversi, ripetersi, protestare di nuovo, un’ultima volta.

Ma c’è un secondo modo di vedere la cosa. Un modo che poggia su una quota minore di dati di realtà, ma tocca il nucleo più perturbante della scrittura di Ellis, la sua tensione più autodistruttiva, il suo nucleo più intransitivo e paranoide, l’orrore che prova nei confronti delle finzioni che sa creare. Un cuore di paranoia e colpa che pervade le Schegge. E, perché non spingere la paranoia fino in fondo? Perché non prenderla seriamente? Quali sono le responsabilità della finzione sulla realtà? Ellis in Le schegge scrive che “tutto sembrava irreale, come se fosse una mia creazione e tuttavia non potessi averne il controllo”. E, allora, quanto è una sua creazione sfuggita al suo controllo? Non è che questa trappola se l’è creata da solo?, come suggerisce in Imperial Bedrooms. Di quale serial killer ha ispirato le azioni?

La scrittura di Ellis, è vero, se ne frega della trama, del pubblico, se ne frega di Bret Easton Ellis. Vuole descrivere e imprigionare un’atmosfera. Ma quanto di quella atmosfera è stato descritto e quanto invece è stato creato? È possibile che proprio questa atmosfera invece ci abbia contaminato come una nube tossica?

Perché ci hai annerito così tanto il cielo, Bret? E se fosse proprio quello, “l’ultimo momento di felicità, prima di precipitare nella paura e nella paranoia”? Se la gabbia da cui vuole scappare l’avesse creata lui, con le sue finzioni? Qual è l’orrore che la finzione infligge alla vita? Non lo sappiamo, ed Ellis tantomeno, ma, demiurgo a cui si è ribellata la sua creazione, vittima del suo stesso prodotto, sono vent’anni che non fa altro che chiederselo e continua a tentare di contenerla, rifarla, imitarla, cambiarla, dominarla e, certo, a graffiare, premere, scalciare, uccidere. Scrivere.

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