Cinquantré pezzi brevi sulla perdita, il viaggio, l’abiezione e la bellezza, la luce intollerabile del male e il doppiofondo del bene: “L’atlante” di William Tanner Vollmann ci dice che c’è una parte di noi che dimentichiamo o abbiamo bisogno di nascondere, che il male di cui accusiamo il mondo è già tutto dentro…
William Tanner Vollmann non è uno scrittore, non è un sopravvissuto (all’Afghanistan, al Tenderloin, agli Khmer, a Sarajevo, a Fukushima…), non è il felice acquirente di una sposa-bambina, non è Dolores, e non è nemmeno Unabomber, anche se nessuno si stupirebbe del contrario.
Non si tratta di un esperto di violenza, di treni, di prostitute, di eroina, nemmeno di sintassi, aggettivi e teatro Nō o combustibili fossili e mitopoiesi atlantica o travestitismo e contatori Geiger, come è stato via via giustamente definito. Forse non è nemmeno un uomo, o per meglio dire, forse “non è”.
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Il nome sta per una presenza, un errore (il che vuol dire una verità), cui è toccato in sorte di essere precipitato su questa terra per vivere le nostre vite all’unico scopo di dare loro una forma, subordinarle a una sintassi di cui è il solo artefice. Non vivere e poi scriverne, ma vivere all’unico scopo di poterne scrivere.
Vollmann traffica il privilegio di essere vivo, partecipe ancora un giorno al convitato di pietra dell’essere, offrendo in cambio frasi che esondano i margini della realtà a dimostrare che le forme che il mondo dà alla vita (il mondo e terribilmente non Vollmann stesso) siano nient’altro che stanche superstizioni.
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L’atlante, tradotto per minimum fax da Cristiana Mennella, è l’oggetto matematico che lo dimostra ed è anche un libro. Della produzione di uno scrittore che fonda la sua opera su spinte centrifughe che moltiplicano le pagine fino al mutismo per eccesso (Rising up, Rising down ha più di 3500 pagine: se qualcuno dice di averlo letto interamente, mente), costituisce il massimo grado di controllo.
Cinquantré pezzi brevi sulla perdita, il viaggio, l’abiezione e la bellezza, la luce intollerabile del male e il doppiofondo del bene. Trattandosi della stessa cosa, le prose sono disposte a palindromo: la prima dialoga con l’ultima, la seconda con la penultima e così via, con al centro il racconto eponimo.
Alterna prose di finzione e prose di non-fiction (la distinzione è inutile, tutti i mondi possibili essendo finzioni sono veri) su cui Vollmann avanza diritti letterari – la morte della sorella annegata a sei anni di fronte a un bambino impotente, lui (Sotto l’erba), l’attentato di Sarajevo al quale sopravviveranno Vollmann e le sue foto (Questa è bella), l’acquisto di una bambina in Thailandia (Inutile piangere) e così via.
L’atlante è un libro di orizzonti vasti (con tanto di cartina e lista dei luoghi incipitaria che lo fanno testo di viaggio) e verticalità profonde, tenute assieme dall’idea dello specchio e dalla tecnica della simmetria, il che implica uno specchio che riflette tutto tranne l’immagine che gli si para davanti e rende la simmetria la gemella negletta della metamorfosi.
Se si va a pesca di costanti sono le stesse della produzione che comprime: un certo modo di bruciare l’intercapedine di malafede che rende possibile la vita con gli altri, di guardare l’abisso dritto in faccia e mettere la testa dentro il pozzo, cioè di immergersi nella disperazione, consci del fatto che quel dolore è l’unico mistero a cui dedicare una vita e anche l’unica risposta a ogni mistero. Dunque, una disperazione, ma popolata dalle immagini che Vollmann concepisce, o vede, e ci offre per infettarci: perché?
Vollmann non si immerge in queste atmosfere desolate per curiosità etnografica, ma per trovare una cifra nel tappeto: ci dice che c’è una parte di noi che dimentichiamo o abbiamo bisogno di nascondere, che il male di cui accusiamo il mondo è già tutto dentro. Ad esempio, a Bangkok non possiamo sfuggire la complicità con l’uomo che inietta a una disperata del sangue infetto (“What the fuck are you thanking me for? I’m killing you. Excuse me sir me no no understand you speak. I apologize, he said. It’s just that I’ve been feeling pretty down lately”, Sangue).
Il dolore esiste ed è un fatto. Il male esiste ed è un fatto. E questi fatti ci riguardano intimamente. Sorprendentemente, esiste anche la bellezza. Ciascuna di queste cose è invischiata nell’altra. In Dentro o Fuori, uno spacca la testa di una donna contro una vetrina di una libreria. L’autore è uno sguardo raggelato dall’abitudine e comunque in qualche modo partecipe: guarda alla testa. La testa fracassata che nella luce gialla diventa “bella come un Saturno” inanellato da frecce di vetro. Della scena, rimangono solo libri avviliti che sanguinano.
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Il miglior modo per fumare crack è giustamente considerato tra i punti più alti della raccolta. La realtà qui è una materia densa e viscosa che sorpassa infinitamente la capacità di chiunque di percepirla ed è in grado di parlare una lingua muta che straccia le forme in cui si prova a imprigionarla. Sul crack, Vollmann dichiarò notoriamente in un’intervista che al posto di chiedere a cento persone, si faceva prima a provare e basta. Le prime pagine ricordano e poi superano l’aria inquinata della prostitute trilogy. Ed è uno degli scenari più respingenti non solo dell’intera opera di Vollmann, ma di chiunque abbia preso in mano una penna: c’è un personaggio che paragona la fluidità dei suoi orgasmi ai discorsi di Lincoln, formaggio putrido e diarrea e “tutta la carta igienica usata che servirebbe a cominciare una nuova vita”. Insetti. Violenza. Il crack come unica felicità. Discorsi vagamente allucinati e un breve saggio in cinque righe sulla rapacità coloniale dei consumatori bianchi.
A questo punto Vollmann deve entrare nel merito e descrivere che sensazione crea il crack. Uno scrittore peggiore avrebbe spinto sul pedale dell’abiezione per centrare un climax di violenza. Vollmann finge di farlo. Attacca in crescendo (“Le labbra e la lingua si gonfiarono in una grassezza insensibile e pulita come le labbra di una figa”) e poi, continuando, abolisce lo scenario che ha creato, scaccia gli insetti, pulisce i tappeti, fa prendere aria alla stanza. Redime per mezza pagina un personaggio originato da un inferno indicibile, lo rende umano, lo rende tragico. Gli regala un’infanzia. La sensazione che provava, scrive Vollmann, è quella dei primi balli scolastici: i ragazzi e le ragazze ai due lati opposti, la musica incalza e lui ha troppa paura di superare quella faglia simbolica perché tutti lo guardano e il cuore batte e riesce a trovare il coraggio e lei dice di sì e le ragazze ridacchiano e i due ballano e non esiste nessun altro in fondo e le dita si intrecciano, eccetera, eccetera. Il crack è quella sensazione, ma senza alcuna paura – “la sua felicità rimaneva tranquilla”. C’è una dolcezza anestetica, come di neve che ovatti il boato di una civiltà. Uno scrittore peggiore, ancora, ci avrebbe costruito un personaggio a tutto tondo, capace di aggrapparsi a una nuova vita. Vollmann se lo dimentica. Senza esclamativi ti ributta dritto in quell’abisso, come se nulla fosse. In due pagine hai lo schifo del mondo e lampi di una gioia insopprimibile, la disperazione e la calma amniotica, e tutte queste cose sono una dentro l’altra, sono l’una e l’altra, eppure procedono indifferenti.
Insomma, va letto. O forse no, L’atlante non è un libro da leggere dall’inizio alla fine. È un libro da rubare nella biblioteca di una provincia depressa; è un libro da fotocopiare e appendere alle pareti; da recitare di notte; da leggere nei cinque minuti tra la veglia e il sonno, come consiglia l’autore, ma solo nelle notti in cui ci si sente coraggiosi davvero, una o due pagine, e poi chiudere in fretta e pregare di dimenticare. Piuttosto è un libro da ascoltare – dice continuamente che l’inferno è qui ed è possibile viverlo, che è possibile vivere per crearlo, che crearlo è un modo di esplorare o di contaminare, che esplorare e contaminare sono un metodo per perdonare.
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