“Da bambino non sognavo di fare lo scrittore e in questo mi sento molto contemporaneo. Rifuggo dagli specialismi”. Dopo il successo di “Febbre”, torna in libreria Jonathan Bazzi con un nuovo romanzo, “Corpi minori”. ilLibraio.it ha intervistato l’autore per parlare di amore, di desiderio, di vocazione, di Milano e di precarietà. Ma non solo: dalla presenza sui social alle relazioni tossiche (“rivendico i miei margini di dipendenza affettiva”), passando per la definizione dei personaggi queer (“c’è bisogno di andare contro una certa agiografia che tende a parlare delle comunità marginalizzate come soggettività da proteggere”) e le critiche ricevute nel corso degli anni (“non credo di aver ancora superato alcuni di quegli attacchi”), un dialogo in cui lo scrittore si racconta a tutto tondo: “Tornare al premio Strega? Un’esperienza che mi ha segnato. Allo stesso tempo è stato come vivere un sogno…”

Di etichette Jonathan Bazzi ne potrebbe avere – e ne ha avute – molte: esordio di successo, nuova promessa della narrativa, eroe del Premio Strega. Di parole ne sono state spese tante sullo scrittore milanese, classe ’85, cresciuto nella periferia sud della città, a Rozzano, che ha debuttato nel 2019 con Febbre (Fandango), in cui racconta la scoperta della sieropositività, e che gli è valso la partecipazione alla finale di uno dei riconoscimenti più celebri e ambiti del nostro panorama letterario.

Eppure, quando ilLibraio.it l’ha incontrato in un bar nel centro di Milano, nel bel mezzo di una fredda giornata di nebbia, inquadrarlo non è stato affatto semplice, anzi: non è stato necessario. Perché la sua idea di narrativa vuole sfuggire a ogni tipo di schema e di dottrina, si nutre di ambiguità e di contraddizioni, di opposti e di imprevedibili sorprese.

Con Bazzi abbiamo parlato del suo nuovo Corpi minori (Mondadori), un testo corale che si srotola tra le strade di Milano raccontando le conseguenze dell’amore e dell’età adulta, i mostri che ci portiamo dentro e quelli che crediamo di vedere fuori, le ossessioni, le manie e i desideri oscuri che non possiamo fare a meno di provare.

corpi minori jonathan bazzi

Dopo il successo del suo esordio, quanto si sente cambiato?
“Tanto. Ho sicuramente aggiunto pezzi in più al mio affresco. E spero che questo cambiamento si senta in quello che ho scritto”.

Com’è stata la scrittura di questo nuovo romanzo, che ha segnato anche un cambio di casa editrice?
“È stata una genesi più travagliata e confusa rispetto a Febbre, in cui avevo la mia mente sgombra da tutte le aspettative, i giudizi, le voci e i pareri che ho sentito negli ultimi anni” .

Pressione?
“Principalmente curiosità. Sono consapevole che probabilmente qualcuno sarà deluso da questo nuovo libro, ancora una volta un po’ sui generis, ma mi auguro che ci sarà anche chi riuscirà a capire in quale direzione desideravo andare”.

E quale sarebbe?
“L’idea era quella di creare una specie di midquel di Febbre. Nel mio primo romanzo ho raccontato due periodi di vita: da un lato l’infanzia e l’adolescenza, dall’altro l’età adulta. Con Corpi minori ho voluto riprendere quel lasso di tempo che non avevo affrontato, ovvero quello dei vent’anni”.

Di fatto i due libri sono profondamente legati. Non le sarebbe piaciuto esplorare una nuova strada, che magari non aveva niente a che fare con l’autofiction?
“Trovo che sia superficiale fare distinzioni tra romanzo, memoir e autofiction. Non credo che debba essere questo il punto, il discrimine per valutare e definire un’opera letteraria. Mi interessano di più i temi, lo sguardo e lo stile, indipendentemente dal tentativo di capire ciò che sia reale o meno”.

Parliamo di stile e di lingua, allora. In questo nuovo romanzo si evince fin dalle prime pagine un cambiamento di registro rispetto a Febbre. È dettato dalle critiche che erano state mosse al suo esordio?
“È vero, la voce narrante di Febbre è stata molto attaccata, definita ‘vittimistica’ e portatrice di una certa passività, caratteristiche che in fondo appartengono alle fasi della vita che ho voluto indagare. In quel momento avevo bisogno di una lingua che aderisse mimeticamente a quello che stavo raccontando: l’esperienza della crescita e quella di un soggetto annientato fisicamente. Sentivo di non potermi permettere autocompiacimenti linguistici. Adesso è avvenuta una rimodulazione, perché il personaggio protagonista si trova in una condizione del tutto differente. È un ragazzo che sta attraversando la cosiddetta quarter-life crisis, la crisi del primo quarto di vita, con tutti i problemi e le complicazioni che ne derivano. Diciamo che con questo libro ho potuto permettermi un uso più complesso e stratificato della lingua. Anche perché Febbre beneficiava del fatto di riportare esperienze eccezionali, spesso tenute nascoste, mentre questo testo cerca di abitare in modo proprio delle esperienze più comuni”.

L’esperienza di molte persone giovani, che cercano di diventare indipendenti, di entrare nel mondo del lavoro, di trovare la propria strada…
“Ovviamente c’è tutto questo. Ma in più c’è anche il tentativo di esplorare i lati ambigui e contraddittori di una soggettività queer”.

Cioè?
“Ne parla anche Carmen Maria Machado nel suo Nella casa dei tuoi sogni. C’è bisogno di andare contro una certa agiografia contemporanea che tende a parlare delle comunità marginalizzate come soggettività da proteggere e da difendere, spesso nascondendone i lati oscuri e negativi. È necessario mostrare la cattiveria e la spietatezza delle personalità queer, perché questo significa restituire loro umanità”.

E poi c’è Milano, l’altra grande protagonista del romanzo.
“Questo è un libro sul desiderio e sul sogno. E credo che Milano sia la città italiana che più di ogni altra catalizza i desideri e le aspettative, specialmente in termini di autorealizzazione e lavoro. A me interessava parlare di quello che significa questo luogo per una persona che non ha una rete, un sostegno, ma desidera restarci a tutti i costi. Perché è vero che è la città dei sogni, ma c’è anche un prezzo molto alto da pagare. In tutti i sensi. Ho creato un affresco corale di personaggi che non nascono qui ma che ci arrivano – dalle periferie, dalla provincia, ma anche da altre zone di Italia – e che lottano per restarci, per non essere risucchiati ai margini”.

 Febbre di Jonathan Bazzi

Sono personaggi che vivono in case grandi quanto cabine armadio, che non arrivano a pagare l’affitto, che fanno fatica a restare a galla. Anche per lei è stato così? 
“Un tempo sicuramente sì. Ora vivo in una fase più tranquilla rispetto al passato, anche se la precarietà appartiene sempre al mio orizzonte mentale”.

Percarietà, però, può voler dire in un certo senso anche possibilità di cambiare, di non fossilizzarsi. Del resto il protagonista ondeggia in questo stato di vaghezza. Desidera ardentemente diventare un artista ma non riesce a focalizzarsi, a mantenere un obiettivo. Vuole arrivare, ma continua perdersi.
“Il punto era proprio mettere in scena una vocazione determinata e allo stesso tempo confusa. Di solito siamo abituati a parabole di persone che fanno di tutto per perseguire i propri sogni, oppure racconti di persone alla deriva. A me invece piacciono le ibridazioni. Volevo raccontare l’intensa ricerca di un sogno che cambia forma in continuazione e che, di conseguenza, diventa inafferrabile. Una vita che contiene in sé molte vite, molte identità, molte possibilità. Sant’Agostino la definisce ‘dispersione’, facendo riferimento al momento che ha preceduto la sua vocazione. Io ho provato ad accettare questa dispersione perenne, provando a usare la scrittura come grande raccoglitore, grembo nel quale far circolare tutti i miei interessi, tutte le mie vocazioni”.

E quali sono?
“La musica, il canto, lo yoga, la filosofia, l’astrologia, le arti visive, la condizione animale…”

Quindi non sognava di fare lo scrittore da bambino?
“No. E in questo mi sento molto contemporaneo. Rifuggo dagli specialismi. Quello che mi interessa è provare a mettere insieme delle cose che prima non erano state messe insieme. Chiaramente questa è una strada complessa, che genera anche scetticismo. Dopotutto lo specialismo e la settorialità fanno sentire al sicuro. E tutto questo spaziare a livello mentale può essere molto faticoso anche per noi stessi”.

E quindi?
“Ho bisogno di stare nel corpo. Di bonificare la mente attraverso il corpo”.

Per questo il titolo, Corpi minori?
“Il titolo è stata un’intuizione che racchiude in sé tanti messaggi che vorrei emergessero. Sì, i corpi che appaiono in questo libro possono essere considerati minori, resi marginalizzati, perché hanno delle caratteristiche che li mortificano – rapporto con il cibo, marchi emotivi, vitiligine, psoriasi. Spesso sono corpi femminili o queer, che soccombono sotto il potere e la violenza maschile. Ma l’espressione Corpi minori mi ha colpito anche per la metafora astronomica”.

Spieghi.
“In fondo siamo tutti corpi minori che orbitano attorno al desiderio e che ne subiscono le dinamiche gerarchiche. E, come sempre, dove c’è gerarchia c’è anche prevaricazione, c’è violenza. Volevo mettere in luce il lato oscuro del desiderio, quello che poi dà spazio all’inganno, alla mortificazione, all’umiliazione di se stessi e degli altri”.

Un romanzo sul desiderio. Ma anche sull’amore.
“L’amore è la vocazione della mia vita. Sono nato in un ambiente in cui di amore ne è circolato poco. Sulla base di questo ho preso consapevolezza di aver covato questo forte desiderio, ma quando sono riuscito a soddisfarlo, c’è stata una sorta di cortocircuito. Non è affatto detto che un grande amore non possa portare con sé un grande dolore e un potenziale oscuro. Mi sono molto spaventato quando è successo, perché ero convinto che quando una storia è giusta, quando un sentimento è ricambiato, tutto deve andare bene. Invece non è così semplice”.

Del resto siamo abituati a narrazioni in cui il dolore, la sofferenza e la sopportazione hanno sempre meno spazio.
“Viviamo in un tempo in cui c’è molta igiene delle relazioni. Siamo immersi in una retorica che si scaglia contro le dipendenze affettive. C’è un estremo bisogno di voler etichettare i rapporti come ‘buoni’ o ‘sbagliati’. Che okay: chiaramente ci sono persone che soffrono molto, però ci tengo a rivendicare i miei margini di dipendenza affettiva. Sono dipendente dalla persona con cui sto e dai miei gatti. Questo ideale di eliminare completamente la sofferenza, rafforzando un soggetto talmente indipendente che alla fine si rivela una monade, ecco… non mi ci ritrovo tanto”.

Un tipo di atteggiamento molto “da social”, universo dove tra l’altro lei è molto attivo. Come la vive?
“Ora in modo molto meno spontaneo rispetto all’inizio. Mi sono accorto che ci sono tanti limiti e diverse incompatibilità. I social premiano le polarizzazioni estreme, la semplificazione e la ripetizione, e questo ha iniziato a crearmi dei problemi in quanto scrittore. Credo che la letteratura si debba occupare di esplorare le ambiguità, le idee controverse e le imperfezioni, per questo trovo assolutamente geniale e brillante il lavoro di Teresa Ciabatti, perché lei cerca sempre di addentrarsi nelle contraddizioni che ci abitano”.

Nonostante questo, si può dire che i social siano stati un po’ il suo trampolino di lancio?
“Sì, sono stati una piattaforma preziosa per farmi conoscere, per iniziare a far leggere ciò che scrivevo negli anni che vanno dal 2011 all’uscita di Febbre. Le persone che mi seguono mi hanno aiutato e sostenuto, mi hanno permesso di fare un salto che magari io, da solo, non avrei avuto il coraggio o la forza di fare. Non smetterò mai di ringraziare Matteo B. Bianchi, che ha molto insistito perché lavorassi a un romanzo. Finché non l’ho scritto, tornava periodicamente a chiedermi: ma stai scrivendo? È stato lui a far leggere i primi capitoli a Fandango (casa editrice con la quale Bazzi ha pubblicato Febbre, libro tradotto all’estero ndr)”.

In fondo oggi è così: molte case editrici scovano nuove voci proprio sui social. 
“All’inizio cercavo di tenerla nascosta, questa cosa dei social. Specialmente quando ho partecipato allo Strega. Temevo che un po’ mi sminuisse. In realtà poi ho capito che era un tratto imprescindibile del mio percorso, ma soprattutto del tempo in cui vivo. Dovevo cercare di portare la mia personalità in un universo, in un certo senso, ancora molto conservatore, senza adeguarmi a dinamiche che non condividevo. Da questa idea è nata la scelta di non indossare il canonico abito e di collaborare con Valentino, fatto di cui si è molto parlato. Anche per questo mi fa piacere quando vengo accostato a figure lontane dal mondo dei libri, come rapper o artisti, perché sono convinto che questa vicinanza tra diversi mezzi di comunicazione sia identificativa della cultura contemporanea”.

E a proposito di Premio Strega, ci tornerebbe?
“Sono un enorme fan del Premio Strega. Andare in giro con gli scrittori, mangiare nei ristoranti di tante città diverse, incontrare i lettori… mi ha regalato molto anche solo da un punto di vista umano. Ho conosciuto persone incredibili. Ma in questo momento non lo so, è stata un’esperienza che mi ha segnato. E quei segni li porto ancora addosso”.

Come mai?
“Quando hai quel tipo di esposizione diventi una tela dove le persone possono proiettare qualsiasi cosa. Sei in una posizione di ‘privilegio’ che ti porta ad attirare critiche di una violenza singolare. Non credo di aver ancora superato alcuni di quegli attacchi, di quei toni. Ad ogni modo, aver avuto la possibilità di partecipare è stato anche come vivere un sogno. Dopotutto credo che i libri siano individualità separate dai loro autori; sono loro a far succedere le cose, non noi”.

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