Carlo Carabba, responsabile della narrativa italiana Mondadori, è all’esordio narrativo con “Come un giovane uomo”, un memoir al limite dell’autofiction – Su ilLibraio.it un estratto

Carlo Carabba è un nome ben conosciuto nell’ambiente editoriale. Romano, classe ’80, ha ricoperto per alcuni anni il ruolo di coordinatore della rivista letteraria Nuovi Argomenti, e ha pubblicato testi critici su diversi filosofi, monografie e, soprattutto, due raccolte di poesie: Gli anni della pioggia (peQuod) e Canti dell’abbandono (Mondadori). Attualmente è responsabile della narrativa italiana Mondadori.

Carabba è all’esordio narrativo con Come un giovane uomo (Marsilio), un memoir al limite dell’autofiction (il protagonista, non a caso, si chiama Carlo) su come, quando e perché diventiamo adulti; un libro che racconta il delicato passaggio dall’adolescenza all’età adulta, e che potrebbe essere tra i protagonisti al premio Strega 2018, come anticipato da ilLibraio.it.

carabba come un giovane uomo

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it un estratto dal libro:

A ogni modo Davide continuava a tenermi informato e, sebbene la mia memoria confonda i giorni e io non ne sia sicuro, mi parve che mercoledì  mi comunicò la notizia di un incremento dell’attività cerebrale di Mascia.

Nonostante la scaramanzia e i moniti contro l’ottimismo, il mio buonsenso, pur non riuscendo a scacciare da me l’angoscia, poteva farsi i complimenti per l’ottimismo ben riposto e abbandonarsi a una commozione superficiale e edificante, in cui ringraziavo la forza misericordiosa che aveva risparmiato Fabrizio e anche quella volta aveva fatto il suo dovere e, senza curarmi che la invocassi solo nelle emergenze, mi mostravo doppiamente riconoscente, come se dal risveglio di Mascia fosse dipesa non solo la sua salvezza, ma anche la mia, e il felice esito di quella vicenda sancisse un’assoluzione che attendevo, incerto sulla mia innocenza, da parte di un misterioso tribunale incaricato di giudicare certe mie colpe.

Il venerdì mattina, a una settimana esatta dalla neve e la nostra spedizione al Regina Elena, era atteso un grande esame cerebrale, per il quale sarebbe stato necessario spostare Mascia accanto a un sofisticato macchinario o, viceversa, per il quale era necessario attendere l’arrivo di un sofisticato macchinario al reparto dove stava Mascia. Rinvigorito dal progresso del giorno precedente, giovedì notte andai a dormire lasciando, nuovamente, che la fiducia prevalesse sui timori.

A metà mattino mi arrivò il messaggio di Davide. Il medico chiamato a fare l’esame, insospettito da qualche risultato che non gli sembrava corretto, aveva ordinato di allontanare Mascia dal paziente che le stava accanto, scoprendo che l’incremento registrato era stato causato da un’interferenza e che l’attività cerebrale di Mascia era nulla. Ma tutto questo, ovviamente, il messaggio di Davide non lo diceva, composto, com’era, da due sole parole:

«È morta.»

Sotto la luce al neon del seminterrato dove lavoravo le ho lette, senza un vero stupore e senza che mi accorgessi di nessun nuovo dolore che nasceva improvviso dentro di me. Nulla in me reagiva nel modo che era giusto attendersi. Quel messaggio rompeva il divieto di menzionarla che

per una settimana aveva escluso dal mondo dei miei sensi e delle mie percezioni la parola “morte”. Ma quello stesso divieto, così evidente anche se mai formulato, aveva fatto sì che il mio pensiero, simile a quello di un bambino che non trova il sonno e cerca di allontanare da sé la filastrocca – che gli pare di udire risuonare in un angolo del cervello – che evoca il mostro che vive nel buio, lambisse continuamente i confini di quella regione mentale in cui avevo tentato di esiliare la morte, simile al giovane curioso che giorno dopo giorno torna a visitare, impaurito e attratto dal pericolo, la frontiera nemica, chiedendosi cosa ci sarà dietro quella linea per lui invalicabile. Mi accorgevo che, nonostante l’ottimismo, Fabrizio, le preghiere e le superstizioni, nonostante i miglioramenti e le speranze, mi stavo comportando come se la settimana trascorsa fosse stata una lenta preparazione, come se in quei sette giorni Mascia fosse stata morta e il pensiero della sua morte fosse, al tempo stesso, inaudito e scontato. Eppure proprio quel pensiero mi sfuggiva ancora, non mi avvicinavo a quel sentimento di chiarezza definitiva che si impadronisce degli uomini davanti a spettacoli maestosi, a eventi percepiti come decisivi, ed è alla base delle risoluzioni più audaci, nobili o disperate, sempre disattese quando facciamo ritorno al corso comune della nostra vita: così come non avevo capito il senso delle parole che aveva pronunciato durante la telefonata che aveva seguito la neve, neanche in quel momento ero in grado di capire il significato dell’sms che mi aveva mandato Davide. Ne ero ancora protetto. Innanzitutto dall’ambiente che mi circondava: la luce non era mutata, le immagini alla parete erano rimaste lì, ferme e identiche a sé, nessun suono, dopo quello che mi aveva annunciato la ricezione del messaggio, aveva rotto il rumore di fondo degli uffici vicini, nulla era cambiato fuori di me così come nulla era cambiato nel mio corpo, il cuore non aveva accelerato, i capelli non erano caduti, né la pelle si era arrossata, i processi da cui dipende la nostra sopravvivenza continuavano a svolgersi, tranquilli e inavvertiti.

E nemmeno la mia vita veniva sensibilmente modificata dalla notizia: non avrei visto Mascia, quel giorno o i successivi, ma non l’avevo vista nemmeno il giorno dell’incidente e quelli che lo avevano immediatamente preceduto.

Mi proteggeva poi l’organizzazione della mia esistenza. Non potevo abbandonare l’ufficio, né avrei voluto farlo. Non desideravo che compiere quello che potevo considerare il mio dovere, continuare a sbrigare le mie faccende, magari badando a mantenere un umore cupo, evitare i sorrisi e, se proprio me ne fosse scappato uno, assicurarmi che la mia bocca e i miei occhi gli conferissero un’ombra, una malinconia nascosta di cui sarebbe stato impossibile non accorgersi.

Incapace com’ero di trovare nel mio interno le reazioni giuste e doverose, potevo almeno far sì che il mio esterno fosse inappuntabile e confermasse le aspettative di chi mi conosceva e la bontà dei miei sentimenti.

Continuai così a lavorare, come se nulla, o quasi, fosse successo, comunicando la notizia alle poche persone cui la dovevo dare ma evitando ogni altro commento, lasciando intendere che avremmo parlato in un altro momento e che quello che provavo erano le emozioni scontate che ci si aspetta si provino in simili occasioni.

E io stesso aspettavo un altro tempo per provare a comprendere quello che non sapevo, potevo e forse neanche volevo afferrare; sapevo che non si guarisce da una sofferenza se non a condizione di provarla appieno e mi ripromettevo di abbandonarmi al flusso dei ricordi, ripercorrendo nel pensiero la vita di Mascia e lasciando che la memoria componesse una selezione dei momenti passati assieme, alla ricerca di quel tipo particolare di dolore che porta piacere e consolazione.

Mi illudevo che dal regno dei vivi potessi disporre della morte come meglio mi sarebbe convenuto.

(Continua in libreria…)

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