Dalla sua morte, Sylvia Plath è diventata quasi un culto, il simbolo di un vivere febbrile, doloroso. Cosa significa leggere oggi “La campana di vetro”, il potentissimo romanzo che pubblicò nel 1963 con lo pseudonimo Victoria Lucas? La poetessa e scrittrice che non aveva ancora trentun anni, e da lì a poco si sarebbe suicidata…

La casa in cui nacque Sylvia Plath, il 27 ottobre del 1932, dava sull’Oceano.

“Il paesaggio della mia infanzia non fu la terra, bensì la fine della terra, le fredde, salate, fluenti colline dell’Atlantico. A volte, penso che la mia immagine del mare sia la cosa più chiara che possiedo… E in un flusso di ricordi, i colori si fanno più profondi e brillanti, il mondo di allora respira”.

Di lei si ricordano molte cose – alcune magnifiche -, tra cui le raccolte di poesie vibranti, un romanzo potentissimo pubblicato con lo pseudonimo Victoria Lucas, La campana di vetro, il grande amore con un altro poeta, Ted Hughes; – altre terribili – il suo suicidio, la fatica quotidiana di vivere con la malattia mentale, la relazione intossicante con un altro poeta, Ted Hughes.

Dal giorno della sua scomparsa, l’11 febbraio 1963, Sylvia Plath è diventata il simbolo di un vivere febbrile, doloroso, di una difficoltà di inserirsi, di riuscire a stare al mondo.

È diventata quasi un culto, un’icona per tante persone, spesso adolescenti, che si sono specchiate in lei, nella sua fragilità. Si sono sentite rappresentate, in un qualche modo, finalmente viste, scrivendo brani delle sue poesie su diari, su fogli, tatuandoseli addosso.

Per celebrare la vita e la potenza immaginifica di questa grande poeta e scrittrice, abbiamo deciso di rileggere La campana di vetro (Mondadori, traduzione di Adriana Bottini) oggi.

La campana di vetro di Sylvia Plath (Mondandori)

La campana di vetro nell’edizione del 2023, con le illustrazioni di Anastasia Stefurak

Il romanzo si apre con una giovane donna, bravissima studentessa, impiegata in una sorta di stage estivo nel magazine femminile Mademoiselle, a New York, insieme a un gruppo di sue coetanee che, come lei, vivono in un hotel. Si chiama Esther Greenwood – omologa letteraria di Sylvia Plath. È brillante, metodica, non riesce mai a lasciarsi andare, giudica le sue compagne – o le invidia? -, vorrebbe perdere la verginità, togliersi finalmente questo peso – sì, ma con chi? -, e pensa ogni tanto al ragazzo che dovrebbe sposare, se solo ne avesse davvero voglia, ricoverato in un sanatorio.

Esther attraversa questo periodo di formazione – professionale e sentimentale – con la strana sensazione si sentirsi: “come un cavallo da corsa in un mondo senza piste”.

Questo è solo l’inizio di qualcosa che dentro di lei comincia a spezzarsi. Al suo ritorno a Boston, dopo l’esperienza newyorkese, il mondo inizia a frammentarsi, a rarefarsi, a perdere di realtà. Esther ritiene di aver perso completamente il dono della scrittura, pensa a suo padre, morto quando era solo una bambina – proprio come quello di Sylvia Plath – e vorrebbe morire. Ci prova, una prima volta, in un mare che le ricorda quello che vedeva da piccola fuori dalla finestra – della narratrice, così come dell’autrice.

Scopre però che uccidersi non è per niente facile.

Non sarà l’unica volta, purtroppo, e un suo tentativo più riuscito degli altri la porterà in un centro di cura mentale. Da lì comincia la seconda parte del romanzo. Prima un ospedale psichiatrico, poi una struttura per sole donne che ricorda, nella forma e nei personaggi che lo abitano, quello che anni dopo verrà messo in scena in Ragazze interrotte, con Winona Ryder e Angelina Jolie, basato su un memoir di Susanna Kaysen che da ragazza venne ospedalizzata nello stesso centro in cui venne ospitata anche Sylvia Plath prima di lei.

Può interessarti anche

Il romanzo La campana di vetro è stato paragonato a Il giovane Holden di J. D. Salinger (Einaudi, traduzione di Matteo Colombo) per le tematiche trattate, per la solitudine e la tristezza che i due protagonisti attraversano, reagendo diversamente, per indole, ma soprattutto per genere. Perché quella campana di vetro di cui parla Plath è una cupola che – come donna americana degli anni ‘50 – sente chiudersi sopra di lei, ed è sì la sua malattia mentale, ma è anche la pressione sociale che la spezza. Due forze centripete che vogliono trascinarla verso due vissuti quasi completamente diversi.

Da un lato c’è l’ambizione, quella che la vuole una incredibile studentessa, la prima del suo corso, dalle grandi abilità di scrittura, di immaginazione, e dall’altro, la conservazione, che la vorrebbe sistemata, con un brav’uomo e con la prospettiva di uan famiglia. Esther Greenwood sente di voler raggiungere entrambi gli obiettivi, con la stessa forza, con la stessa bruciante violenza, eppure li riconosce tra loro antitetici. È proprio questa dicotomia a sbrindellarla, a sfilacciarla.

C’è una scena, oltre i tre quarti del libro, che racconta molto bene quella sensazione condivisa: Esther sta parlando con Joan, una conoscente che come lei si è ritrovata nella struttura psichiatrica a seguito di un tentativo di suicidio. Questa le dice di aver trovato la forza di farla finita solo grazie agli articoli che leggeva proprio su di lei, la Esther Greenwood di Boston, la sua conoscente, che aveva deciso di commettere suicidio.

Anne Sexton, un’altra famosa poetessa americana, quando scoprì del suicidio di Sylvia Plath – con cui spesso parlava di morte – commentò che anche in quella occasione la sua rivale l’aveva preceduta. La compagna di Ted Hughes, dopo (e prima) della morte di Plath, – Assia Wevil – si uccise a sua volta. Una striscia di morte, un alone di predestinazione, che collega queste donne, personaggi e reali, fragili e inascoltate, schiacciate dall’ambizione, schiacciate dalle aspettative.

Rileggere La campana di vetro oggi può sembrare un vezzo, quello di un adolescente cresciuta che vuole recuperare un volume che ha amato e lo ritrova, magari un po’ invecchiato, ma presente, rassicurante nonostante il tragico tema. Eppure, non solo. La campana di vetro, se affrontata con strumenti più adulti, forse meno sensibili al fascino del lasciare tutto dietro le spalle, letta con occhi meno ammaliati dal personaggio Sylvia Plath, meno rapaci, ma con interesse reale per le tematiche trattate, può essere un grande stimolo per riflettere su come ci approcciamo oggi al racconto della salute mentale.

Per fortuna i metodi e gli approcci medici alla salute mentale sono cambiati, sono evoluti dalla lobotomia, dai soli elettroshock somministrati in assenza di una vera e propria terapia, eppure – a ben vedere – la società intorno non è così mutata, così moderna, come ogni tanto ci piace raccontarci.

Una giovane donna può provare la stessa identica pressione provata da Esther Greenwood, Victoria Lucas e Sylvia Plath prima di loro, lo stesso tentativo di sdoppiarsi, triplicarsi, per guardarsi meglio allo specchio, per tentare di tenere tutto assieme.

Scopri le nostre Newsletter

Iscrizione alla Newsletter
Il mondo della lettura a portata di mail

Notizie, approfondimenti e curiosità su libri, autori ed editori, selezionate dalla redazione de ilLibraio.it

scegli la tua newsletter Scegli la tua newsletter gratuita

Fotografia header: Collage di Sylvia Plath su un mare agitato e ondoso via GettyEditorial, progetto grafico di Silvia Cannarsa

Libri consigliati