“Questo non è un libro terapeutico. Non l’ho scritto per sentirmi meglio o per liberarmi, ma perché mi sentivo in dovere di farlo, anche per dare voce a chi ha vissuto un’esperienza simile alla mia. Perché nessuno ne parla”. ilLibraio.it ha incontrato Matteo B. Bianchi in occasione dell’uscita del suo nuovo libro, “La vita di chi resta”, dedicato “ai sopravvissuti”, a chi ha subito la perdita di una persona che ha deciso di suicidarsi: “Quando ti ritrovi ad attraversare questo tipo di perdita, non pensi che riuscirai mai a uscirne. È come se fossi scivolato in una sorta di buco nero. Purtroppo la ferita non si rimarginerà mai completamente. Ma quello che voglio dire è che imparerai a conviverci, anche se in quel momento ti sembra impossibile. Io stesso ero ostinato nel mio dolore. Poi, però, la vita succede”

È dedicato ai sopravvissuti, il romanzo di Matteo B. Bianchi (nella foto di Valentina Vasi, ndr), La vita di chi resta (Mondadori), perché i sopravvissuti hanno sempre bisogno di storie per andare avanti. E Bianchi lo conosce bene, il potere salvifico delle parole, sarà per questo che ha costruito tutta la sua carriera attorno ad esse: attraverso i libri, la televisione, la radio, i podcast. È infatti autore di numerosi romanzi, tra cui Generations of love (Fandango), Esperimenti di felicità provvisoria (Dalai editore) e Apocalisse a domicilio (Marsilio), ideatore del podcast Copertina nonché direttore editoriale di ACCĒNTO, la casa editrice fondata a fine 2022 insieme al conduttore Alessandro Cattelan.

Ma anche se le parole sono tutta la sua vita, ce ne sono state alcune che hanno avuto bisogno di tempo per arrivare sulla pagina. Sono passati circa vent’anni da quando Matteo B. Bianchi ha ritrovato il corpo morto del proprio compagno nella casa in cui avevano vissuto insieme. L’evento più tragico della sua esistenza prende ora la forma di un romanzo in cui l’autore cerca di rimettere insieme, tra singhiozzi e frammenti, i cocci di una vita scossa dal dolore.

È un atto coraggioso e commovente, che può nascere solo da chi è stato scavato dalla sofferenza così tanto da renderla una sorta di corazza. Ma non una corazza per proteggersi dalle avversità, bensì uno stendardo che è lì per dire: eccomi, ce l’ho fatta. Sono riuscito ad accettare questo dolore nonostante tutto.

Perché Matteo non è solo un uomo che ha vissuto una perdita, ma è anche uno scrittore che ha vissuto una perdita. E queste due figure hanno convissuto e sofferto insieme, hanno reagito diversamente – una avrebbe voluto dimenticare, l’altra era portata a registrare -, ma entrambe hanno cercato sempre, in un modo o nell’altro, di trovare una via di salvezza. Nelle storie, certo, ma anche nelle persone.

la vita di chi resta

Che sensazione prova a sapere che la sua storia è ora un libro che tutti possono leggere?
“Sono un po’ agitato a dire il vero. Ed è la prima volta che mi succede con un mio libro. Non so cosa aspettarmi, ma sono anche molto curioso di vedere che reazioni avranno i lettori”.

La paura più grande?
“Quando stavo scrivendo questo libro, mi svegliavo di notte e mi chiedevo: ma cosa stai facendo? Come farai a presentarlo in pubblico? Averlo scritto è una grande responsabilità, me ne rendo conto. Le persone hanno già iniziato a contattarmi, confidandomi di aver vissuto un evento simile al mio. Sono spaventato, perché non so se troverò le parole giuste per rispondere, ma sono anche felice di poter accogliere le loro storie”.

Storie di sopravvissuti, di chi ha vissuto o vive il dolore e non sa come uscirne.
“È un dolore diverso da tutti gli altri, quello di chi ha vissuto la perdita di una persona che si è tolta la vita. Non è un dolore puro. È un dolore che è mischiato a tanti altri dolori: la rabbia, il senso di colpa, il fatto di aver sottovalutato, di non aver saputo cogliere certi segnali. È complicato. È un dolore che è una confusione interiore. A un certo punto ricordo di essere arrivato al punto di invidiare i dolori ‘normali'”.

Ma d’altro canto è come se il dolore diventasse la parte più importante di te: “Sto diventando il dolore che mi abita”.
“Credo che chi vive un dolore così intenso arrivi a sentirsi quasi invincibile, un supereroe. Senti che niente potrà scalfirti di più di così. Ero così assorbito dalla mia sofferenza, che ricordo quanto fosse difficile per me all’epoca confrontarmi con i problemi degli altri”.

Il suicidio è ancora oggi un tabù. Lei ha scelto di mettersi sulla pagina in prima persona, raccontandosi senza filtri. Non ha mai pensato che sarebbe stato più al sicuro se avesse scritto un romanzo di finzione?
“È vero, nel libro racconto cose davvero imbarazzanti per certi versi, ma neanche per un momento ho pensato che avrei potuto narrare questa storia in maniera indiretta. Anzi, devo dire la verità, è un evento che è entrato, seppur in modo filtrato, in molti altri miei libri. Per esempio, in Esperimenti di felicità provvisoria, descrivo la scena di un funerale che viene interamente dalla mia esperienza personale”.

Com’è andata la scrittura di questo libro?
“Sarò sincero: mi sono meravigliato di quanto sia stato facile. Di solito, quando scrivo, sono molto preciso: torno indietro, rileggo, correggo di continuo. Questa volta no. Le pagine sono venute fuori liberamente. All’inizio pensavo che fossero soltanto appunti, frammenti che poi mi sarebbero serviti per costruire qualcosa di più compatto. Poi, invece, mi sono reso conto che quella struttura fatta di flash era perfetta. Una narrazione ‘a pezzi’ che ben rende come mi sentivo in quel momento. Un momento in cui effettivamente la tua vita è sgretolata e non puoi fare a meno che darti piccoli obiettivi per superare la giornata”.

Tutto infatti nella narrazione procede per salti, immagini, riflessioni e rivelazioni. Alcune anche molto dure.
“Certe informazioni più delicate le ho sparse nel libro perché mi sembrava giusto informare piano piano il lettore di alcuni particolari. Molte cose non le avevo mai rivelate a nessuno”.

E scriverle l’ha fatta stare meglio?
“Questo non è un libro terapeutico. Non l’ho scritto per sentirmi meglio o per liberarmi. L’ho scritto perché mi sentivo in dovere di farlo, anche per dare voce a chi, come me, ha vissuto un’esperienza simile. Perché nessuno ne parla, sostanzialmente”.

Infatti nel romanzo lei scrive: “Cerco conforto nella letteratura. La mia ancora di salvezza nel mondo. Guardo in libreria, cerco in biblioteca. Non c’è molto sul tema del suicidio. […] Perché nessuno se ne occupa? Perché ignorano il dolore di chi resta?”.
“In realtà il suicidio è abbastanza presente nei romanzi, nei film, nelle serie tv. Ma è sempre vissuto come svolta narrativa, non è quasi mai al centro della narrazione. E anche se succede è spesso legato alla figura di chi si suicida. Penso per esempio a un libro bellissimo, quello di Fuani Marino, che racconta proprio quanto possa essere forte il malessere di chi decide di rinunciare alla vita. Ma sul dolore di chi resta a me sembra che ci sia ancora molto poco”.

Però nel romanzo, proprio per ribadire il suo attaccamento ai libri come forma di salvezza, sono presenti tante citazioni letterarie: da Ocean Vuong a Joan Didion, passando per Susan Sontag e Steve Abbott.
“Anche se prima ho detto che la scrittura è stata naturale, nella fase successiva il libro è stato molto elaborato. Non volevo fosse una semplice testimonianza, una sorta di reportage di quello che avevo vissuto. Per questo ho inserito interviste e riferimenti a testi che si sono occupati di dolore in un modo o nell’altro. Volevo ci fosse dietro un ragionamento narrativo. Pensa che, in un certo periodo, mi ero posto il dubbio se fosse possibile raccontare questo evento in modo leggero, visto che di solito quando scrivo ho uno stile tendenzialmente ironico. Ma sarebbe stato sbagliato, sarebbe stato sminuente ricorrere a uno stile lieve. Anche se avere uno sguardo ironico è importante, credo che sarebbe stato irrispettoso”.

Non è una domanda che chi scrive ama ricevere, ma mi sembra che nel caso del suo libro – che nasce proprio come un dialogo – sia necessario. C’è un messaggio che ha voluto lasciare ai suoi lettori?
“Quando ti ritrovi ad attraversare questo tipo di perdita, per diversi mesi ti senti in una condizione quasi straniante. Non pensi che riuscirai mai a uscirne. È come se fossi scivolato in una sorta di buco nero, e forse una parte di te sa che prima o poi ne verrai fuori, ma in quel momento ti sembra impossibile. Questo non è assolutamente un libro consolatorio. Purtroppo la ferita non si rimarginerà mai completamente. Ma quello che voglio dire è che imparerai a conviverci, anche se in questo momento ti sembra impossibile. Io stesso ero ostinato nel mio dolore. Poi, però, la vita succede”.

E oggi lei come sta?
“Oggi sto bene. Se non lo fossi stato, probabilmente non sarei stato in grado di scrivere la mia storia. Sono contento che questo libro ci sia e che possa far del bene agli altri”.

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