“Infanzia”, primo volume della trilogia di Copenhagen di Tove Ditlevsen (1917 – 1976), poetessa e scrittrice di spicco del Novecento danese, arriva in Italia per Fazi, nella traduzione di Alessandro Storti. In poche pagine, in capitoli brevi e fulminanti, la bambina Tove riprende vita, e ripercorre i passi dolorosi che l’hanno portata alla maturità… – La (ri)scoperta di un’autrice che ha anticipato l’autofiction

Le bambine, per quanto ci si sforzi, sanno essere tristissime. Sono continuamente messe davanti al fatto che stanno vivendo una stagione della vita breve, e che la rimpiangeranno per sempre; che la vita abbia un termine è una considerazione lontana, con cui gli adulti stessi faticano a venire a patti, ma la trasformazione che si trova davanti una bambina è urgente. L’infanzia è il tempo già segnato dalla nostalgia per qualcosa che non si è ancora perduto; è “lunga e stretta come una bara”, scrive Tove Ditlevsen, nel primo dei tre romanzi che compongono la sua “trilogia di Copenhagen”.

Infanzia, Tove Ditlevsen

Poetessa e scrittrice di spicco del Novecento danese, Tove Ditlevsen divide nei volumi Infanzia, Gioventù e Dipendenza la rielaborazione della propria vita, riscoperta adesso a più di quarant’anni di distanza.

Infanzia esce per Fazi, nella traduzione di Alessandro Storti: in poche pagine, in capitoli brevi e fulminanti, la bambina Tove riprende a esistere, e ripercorre i passi dolorosi che l’hanno portata alla maturità.

Figlia di un mancato letterato socialista, spesso disoccupato, e di una madre infelice, di cui avverte una rabbia sottile, pronta a erompere in momenti imprevedibili, Tove sa già di essere una di quelle intelligenti, che però devono agire da stupide. Le sue giornate si svolgono all’insegna della mimesi e del nascondimento: alla madre deve celare il proprio essere una bambina, perché c’è qualcosa nella sua età che disturba il rapporto tra le due, forse un’invidia verso un essere in potenza, o un miscuglio in cui trova spazio anche un amore colmo di pena; in mezzo alle altre persone, deve fingere di provare sentimenti ed emozioni che la vita reale non le offre. Tutto quello che riesce a sentire le arriva dalla scrittura, anche se il padre le rinfaccia che le scrittrici non esistono.

La realizzazione che l’amore per la parole la terrà distante da tutti quelli che ha intorno è allo stesso tempo un parapetto e un precipizio: alla poesia Tove affida i suoi desideri, le speranze di un amore che non sia con un “bravo operaio che porta a casa lo stipendio” come si augura la famiglia, ma la sua esistenza trova uno spazio solo al loro interno.

Da adulta, scrivere rimane l’unico modo di fare esperienza delle cose, anche quando l’esperienza è l’atto del ricordo: attraverso la narrazione può restituire una dimensione alla madre morta da tempo, e piangere la nonna dopo aver temuto di non essere in grado di sentire la tristezza.

L’unica occasione di uscire da se stessa, di abitare l’angolo di città in cui vivono – Vesterbro, quartiere operaio di Copenhagen – è con l’amica Ruth, la scapestrata che la invita a esplorare, a utilizzare l’inganno non solo per la sopravvivenza ma come sfida all’esterno, al mondo degli adulti.

Il rapporto con Ruth è creativo quanto l’atto di comporre versi, e Tove modella se stessa sulle aspettative dell’amica, finché con la fine dell’infanzia cessa anche la simbiosi, e Ruth muove da sola i passi in una direzione che Tove non può sentire sua.

Il destino che deve condividere con le altre ragazze, troppo povere per poter continuare a studiare, e che trasversalmente la unisce alla madre, alle zie, alla nonna, è un matrimonio, o andare a servizio: la speranza del mattino svanisce man mano che si avvicina il fatidico momento della cresima, e il piccolo mondo in cui trovava un attimo di quiete, nel soggiorno con la famiglia riunita, si sgretola. Tutto quello che riusciva anche in minima parte a controllare, imitando e tacendo, perde i suoi confini: la madre dilaga sopra di lei, felice di accoglierla nella sua schiera di deluse, il fratello amato si incammina nel sentiero uguale e opposto degli uomini lavoratori; il suo corpo spinge verso l’alto, diventa sgraziato. Rimane solo, testardo, l’amore per la scrittura, che funge da unica compagnia in questo passaggio.

Tove Ditlevsen è vissuta tra la fine della Prima guerra mondiale e la metà degli anni Settanta, quando si toglie la vita: la sua osservazione del mondo intorno, e della condizione specialmente di crescere bambina circondata da adulte disilluse, riecheggia fino ad oggi; l’indagine su di sé e sui ruoli che assume per adattarsi all’ambiente circostante anticipa di diversi anni le grandi scrittrici contemporanee.

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È stupefacente, di questo romanzo, l’onestà sfacciata raccontata da una lingua bellissima; ogni parola distilla dolore, però, a differenza degli adulti che l’hanno circondata, sa come cesellarlo. Con la sua scrittura tersa Tove Ditlevsen svela pian piano il lenzuolo che la avvolge fin da piccolissima – all’inizio fresco e profumato, come la coperta di una nonna amata, ma giorno dopo giorno sempre più incollato alla pelle, pesante come un sudario.

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