“Uno di questi due paesi è immaginario” è la raccolta di racconti che segna l’esordio di Pauline Melville. Tra Londra e i Caraibi vanno in scena le metamorfosi di queste storie dove si fa labile il confine tra sogno e realtà – Su ilLibraio.it proponiamo un estratto tratto dal racconto “La conversione di Millicent Vernon”

Pauline Melville è nata in Guyana nel 1948. Trasferitasi a Londra con la famiglia quand’era ancora piccola, ha tuttavia conosciuto in prima persona e a fondo la realtà dell’ex colonia inglese.

Ex attrice, è autrice negli ultimi trent’anni di romanzi, racconti e opere poetiche. Tra queste è stato tradotto in italiano Il racconto del ventriloquo (e/o, 1999). Nel 2018 è stata accolta nella Royal Society of Literature.

Uno di questi due paesi è immaginario (Tamu Edizioni, traduzione di Pietro Deandrea) è la sua opera d’esordio. Tra Londra e i Caraibi vanno in scena le metamorfosi di questa raccolta di racconti.

I personaggi di queste storie si muovono nella capitale inglese, tra negozi di spezie africane e in desolate città dell’America centrale. Emarginati della working class incontrano figure carismatiche dai poteri soprannaturali, e il confine tra sogno e realtà si fa labile quanto la distanza tra le due sponde dell’oceano.

Nei racconti, la pura cattiveria della vita quotidiana è compensata da un’immaginazione comica, componendo trame inquietanti e allo stesso tempo divertenti, che giocano con il caleidoscopio genetico offerto dalla storia delle migrazioni e del colonialismo.

uno di questi due paesi è immaginario

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto tratto dal racconto “La conversione di Millicent Vernon”:

In lontananza cominciò a risuonare la campana della chiesa luterana. Più o meno un minuto dopo si aggiunse quella della chiesa anglicana, lugubre e profonda. Per un po’ queste due campane arrancarono insieme, fuori tempo, e poi riecheggiarono i rintocchi acuti e dolci della chiesa cattolica, mescolandosi a loro e rendendo ancor più confusa la differenza tra tutt’e tre. Millicent Vernon, diciottenne dalla pelle chiara, teneva i gomiti appoggiati sulla ringhiera del ponte Canje, lo sguardo abbattuto sulle acque marroncine del fiume. Selma, la sua amica, aveva la schiena contro la ringhiera e sporgeva in avanti il seno puntuto come in un vecchio poster di Jane Russell che aveva visto una volta, sputando in strada i semini nero-violacei delle bacche di jambul. «Oddio, Selma, com’è che li trovo, adesso, i soldi per sistemarmi i denti?»
«Scrivi a tua cugina in Inghilterra e pregala di mandarti dei soldi. Lo sai quanto ci piace supplicare, a noi guyanesi», rispose con un sorriso malizioso.
Le due ragazze si voltarono per ritornare verso New Amsterdam. Nella luce della prima sera vennero superate da un catorcio strapieno di ragazzi, da cui partirono fischi e urla. Selma rivolse loro uno dei suoi sguardi sensuali e superbi, impettita in un paio di lucidi pantaloncini attillati e impegnata a schiaffeggiare i pappataci che la pungevano. Millie indossava una camicetta bianca e calzoncini rossi. Le gambe lunghe le diventavano dorate sotto il sole della sera. Da qualche parte nella boscaglia, lungo il fiume, giungeva il verso di un uccello kiskadì. Alla loro destra, lontano dalla strada, in un appezzamento che pareva una landa desolata, si ergeva il manicomio fatiscente e sgangherato. Da uno dei piani alti, mentre passavano, si levò una voce di donna che strillava come un gatto: «Portatemi qualcosa, per favore! Portatemi qualcosa, per favore!» Le ragazze scapparono via strillando.
Era già il tramonto quando arrivarono in centro città. Nell’aria calda della sera la gente faceva capannelli in strada, appoggiata pigramente contro il muro di un negozio di rum, a cazzeggiare e a far passare il tempo. Le fiaccole accese dai venditori di strada guizzavano sui tavoli montati su cavalletti, illuminando una modesta varietà di panini, arachidi e caramelle. Era una città fantasma in più di un senso, questa. Qui i fantasmi camminavano sfrontati per strada, senza nascondersi. Gli occhi azzurri di un latifondista olandese guardavano incuriositi dal viso nero dell’ostetrica locale; i polsi di un bracciante indiano, uno schiavo a contratto morto cent’anni prima, erano gli stessi polsi che impacchettavano nella carta marrone le arachidi comprate da Millie alla bancarella. Il viso del signor Chan aveva navigato lungo i secoli attraverso il Demerara e fino a Panama, per ritornare qui, alla porta del suo ristorante, da dove osservava con ansia questa arteria principale
di New Amsterdam. Ogni decennio mutava il caleidoscopio genetico con una gamma più varia di fantasmi, a volte addirittura quattro o cinque insediati sornioni in uno stesso corpo. Jumbie: ecco la parola migliore per descrivere la popolazione di New Amsterdam, capitale della contea di Berbice. Erano jumbie. L’elettricità mancava già da quattro settimane. In strada l’unica fonte di illuminazione, a parte il ristorante del signor Chan che aveva un proprio generatore, erano le fiammelle nelle pentole sui banchi dei venditori, una luce incerta e tremolante che gettava ombre bizzarre sui visi in movimento. Millie stava cercando di staccarsi le arachidi sgranocchiate dalle carie dei denti posteriori quando Selma le sussurrò all’orecchio: «La vedi là, la signora Singh?» Millie gettò lo sguardo verso la prosperosa donna indiana che stava esaminando dei sandali esposti su una bancarella. Selma continuò: «Non può avere figli». Selma aveva occhi piccoli, duri e neri come semi di ackee. «Dicono che dopo che si è sposata la sua passera non era più dolce e cremosa e ha cominciato a sprizzare ammoniaca e acido, e poi ha preso pure a parlare e a dire parolacce e suo marito era così spaventato che non poteva più avvicinarsi».
In quel momento la signora Singh guardò direttamente Millie negli occhi. La ragazza si sentì arrossire.
«Buonasera, Millie», la salutò da lontano. «Salutami tua madre».
«Sì, grazie signora Singh».
Selma continuava, implacabile:
«Comunque, suo marito l’ha mandata a fare una visita da un guaritore obeah indiano e quello le ha detto di prendere un’immagine di Madre Cathari – quella cattiva delle sette sorelle indiane – e tenerla sotto il cuscino, così la sua passera la smetteva di parlare e sputare veleno e lei poteva avere bimbi».
«Shhhhhh! Selma, sei perfida». Millie pareva turbata. Sua madre aveva cercato di farla smettere di frequentare troppo spesso Selma, ma siccome abitavano di fianco, era impossibile. Quando Millie aveva chiesto perché, la risposta della madre era stata torva: «Perché quella ragazza non mi convince, ecco perché». Millie e Selma proseguirono in silenzio verso New Street, dove abitavano.
«Ci vediamo Selma». Selma salì con cautela i gradini di legno dissestati di una casetta a un piano su palafitte. Arrivata in cima, prima di scomparire tra le oscure fauci di legno marcio della casa, si voltò a salutare con la mano, come una stella del cinema sulla scaletta dell’aereo.
Millie rimase un po’ a ciondolare sugli scalini di casa sua. Come poteva dire alla madre che le servivano centocinquanta dollari per salvarsi i denti? Dentro casa, sotto la luce della lampada a cherosene, sua madre stava lavorando, curva sulla macchina da cucire. La nonna dormiva in una delle logore poltrone con la gamba malata poggiata su uno sgabello, grossa e gonfia come una zampa di tartaruga.

(continua in libreria…)

© TAMU EDIZIONI 2022

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