“La vita fino a te” è il nuovo libro di Matteo Bussola che racconta l’amore di coppia, che “non ti completa, ma ti comincia”. Attraverso la sua storia, l’autore descrive le relazioni sentimentali, l’istante in cui nascono e il tempo che abitano… – Su ilLibraio.it un estratto

Dopo il successo di Notti in bianco, baci a colazioneMatteo Bussola scrive un libro sull’amore di coppia. Un amore che “non ti completa, ma ti comincia”. La vita fino a te (Einaudi Stile Libero) è un romanzo che racconta lo sguardo degli innamorati, capaci di osservare il mondo come se lo scoprissero per la prima volta, riuscendo a sentire la vita pulsare in ogni cellula.

la vita fino a te

È proprio con questo sguardo che lo scrittore, autore di Sono puri i loro sogni (Einaudi) e della rubrica Storie alla finestra del settimanale Robinson, indaga le relazioni sentimentali, l’istante in cui nascono e il tempo che abitano. Lo fa mettendosi a nudo, ricordando gli amori passati, per ripercorrere la strada che lo ha portato fino alla sua situazione attuale, alla sua esistenza con Paola e le loro tre figlie. Soprattutto, lo fa specchiandosi nelle storie delle altre persone: quelle che incontra su un treno, o mentre sbircia dal finestrino della macchina, o seduto in un bar la mattina presto.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto 

Le risposte che contano.

La mappa della mia vita sta in un enorme cassetto bianco.

Lo chiamo «il cassetto della morte».

Ci butto dentro da sempre le cose che non ho tempo di catalogare, le carte sopravvissute ai traslochi, i documenti importanti, i diari che tenevo al liceo, i vecchi abbonamenti degli autobus, le foto in attesa di destinazione costrette a una convivenza sedimentaria. Le butto lí perché m’illudo che, se stanno in un unico posto, quando mi serviranno le troverò di sicuro.

Ieri mattina dovevo cercare un vecchio libretto degli assegni per restituirlo in banca, ho rovistato nel cassetto, non sono riuscito a scovarlo.

Ho ritrovato invece la brutta copia di una lettera che mi ha aperto a metà. È lunga otto pagine.

È una lettera d’amore scritta a biro verde su fogli a quadretti, la calligrafia frettolosa e storta di chi ha premura, con la quale cercavo di riconquistare una ragazza che mi aveva lasciato.

Comincia con tono incazzoso, finisce che le dico che la amo.

La scrissi millenni fa, la bella copia andai a imbucarla personalmente nella sua cassetta delle lettere facendomi dodici chilometri in bici, alle cinque del mattino, solo per non essere visto. Ricordo ancora che la prima frase la rubai da un libro di Octavio Paz, e consideravo quanto stesse meglio nella lettera mia che nel libro suo.

Lei non mi rispose mai.

Avevo sempre sue notizie frammentarie, attraverso amici comuni, le solite cose. Chi mi diceva di averla avvistata al Valpolicella Rock Festival a limonare con uno, chi la dava per certa in Brasile o giú di lí. Chi mi diceva è da maggio che sta con Giorgio, non lo sapevi?

Io non riuscivo a farmene una ragione, ero ossessionato.

Una sera la intravidi per puro caso all’interno di un bar, mentre passavo davanti alla vetrina, e feci la mia mossa. Bloccai un indiano di quelli che vendono le rose, e cercando di spiegarmi meglio che potevo nel mio esperanto veronese-inglese gli diedi ventimila lire e gli intimai di filare dentro il bar e consegnare tutte le rose che aveva alla ragazza là in fondo, quella bellissima e splendente come la rugiada del mattino.

Ho sempre avuto un po’ di problemi con l’inglese. Infatti il tipo entrò e io dal vetro fui costretto ad assistere all’agghiacciante scena di ’sto venditore maledetto che andò a distribuire a tutte le donne presenti nel locale una rosa a testa, implacabile e fulmineo, dopo essersi intascato tutti i soldi che avevo.

Quando l’indiano m’indicò attraverso il vetro, come a dire «eccovi il genio», e l’intero bar si voltò a fissarmi tipo pesce palla in un acquario, compresi per la prima volta il vero significato della parola «umiliazione» (o figuremmé, recita il vocabolario dei sinonimi). Dopo quel giorno, niente riesce piú davvero a farmi del male.

Rividi la ragazza tempo dopo a una festa, in quelle scintillanti condizioni da sabato sera a trent’anni. Si era laureata da poco, io ero diventato architetto, lei aveva una borsetta blu coi brillantini che m’ipnotizzava, parlammo fitto per mezz’ora con i gin tonic che annullavano lo spazio-tempo.

Mi resi conto che il tono incazzoso era sparito del tutto, l’amore invece no.

Ci scambiammo i numeri di telefono – il mio era rimasto lo stesso – qualche giorno piú tardi le mandai un sms che terminava con una domanda, che com’è noto è la regola base per suscitare un messaggio di replica.

Non mi rispose nemmeno allora.

Finí in quel momento anche per me, non ci ho piú pensato fino a ieri.

Mi è venuto in mente che l’amore certe volte termina cosí, sospeso e privo di soluzione, come quei problemi che non abbiamo fatto in tempo a risolvere sui quadernoni delle vacanze estive.

Finisce non quando smettiamo di fare le domande, ma quando non arrivano piú le risposte.

Negli anni magari te ne arrivano altre, a domande che non sapevi nemmeno di avere fatto, contenute in lettere che non hai mai scritto: sono le risposte che contano.

(continua in libreria…)

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