Fu il grande amore di Lenin, oltre che la sua più fidata collaboratrice. Nel suo nuovo libro, Ritanna Armeni racconta la storia di Inessa Armand: rivoluzionaria, impegnata nella lotta per i diritti delle donne, sostenitrice del libero amore, madre di cinque figli e donna sorprendentemente moderna… – Su ilLibraio.it la postfazione

Donna attraente e appassionata, magnetica e vitale, pianista eccellente, poliglotta, rivoluzionaria, impegnata nella lotta per i diritti delle donne, sostenitrice del libero amore, madre di cinque figli e moglie di un ricchissimo industriale russo: è Inessa Armand, votata anima e corpo alla causa bolscevica. Anche se per molto tempo il regime sovietico ha fatto di tutto per tenerlo segreto, fu il grande amore di Lenin, oltre che la sua più fidata collaboratrice. Si conobbero a Parigi nel 1909, in un caffè dove si incontravano i rivoluzionari russi in esilio: il loro legame si nutriva dell’ardore politico, dell’ebbrezza di ideare e partecipare a un cambiamento storico epocale, ma anche di fascinazione, attrazione e tenerezza. Inessa è sepolta, per volere di Lenin, davanti alle mura del Cremlino vicino a John Reed, ma è stata cancellata dai libri di storia. Il capo della rivoluzione non poteva essere macchiato dalla meschinità di un adulterio borghese. Nel suo nuovo libro, Di questo amore non si deve sapere, pubblicato da Ponte alle Grazie, Ritanna Armeni, che ha seguito le sue tracce nelle poche testimonianze e biografie esistenti e ha ripercorso i suoi passi in Europa, restituisce il ritratto di una donna che più che al passato sembra appartenere al nostro futuro…

Su ilLibraio.it la postfazione

Postfazione

Sulle tracce di Inessa

di Ritanna Armeni

Ho incontrato Inessa Armand per caso. Volevo scrivere un saggio sugli «amori a sinistra», una storia sul modo di amare di chi ha pensato di voler cambiare il mondo, dai padri fondatori alla rivoluzione sessuale, fino ai giorni nostri. Avevo iniziato le mie letture e le mie ricerche. C’era molto da indagare: Marx, la moglie Jenny e la governante Helene Demuth, Togliatti, Nilde Iotti e Rita Montagnana, Antonio Gramsci e le sorelle Schucht…

L’ho trovata proprio all’inizio del mio lavoro a fianco di Lenin e non sono riuscita a lasciarla. La sua figura misteriosa – quasi un’apparizione – disegnata in modo poco preciso mi ha incuriosito. Ho cercato di saperne di più, ma non è stato facile. Quasi nessuno di quelli che conoscevano la storia della rivoluzione bolscevica e della nascita dello Stato Sovietico avevano sentito parlare di lei. Alcuni sapevano il suo nome, ma niente di più. Ho trovato solo notizie sparse, qualche articolo che la citava, una sua lettera negli articoli dei giornali dopo l’apertura degli archivi dell’Unione Sovietica nel 1992. Era una bolscevica, era stata ai vertici del partito, ed era forse – «forse» si ripeteva con prudenza – una delle due donne che Lenin aveva amato.

Ho esteso la ricerca in altri Paesi e ho scoperto che, se in Italia nessuno si era occupato di lei, in Francia, in Germania, in Inghilterra e in Russia c’erano studi storici e biografie. Non molti, ma c’erano. Inessa aveva fatto parte del gruppo di donne bolsceviche che avevano avuto un ruolo nella costruzione dell’Urss; la sua figura politica era quindi citata di frequente anche se non analizzata in profondità; il suo rapporto con Lenin era raccontato con sfumature e toni diversi.

Ho deciso di procurarmi quei libri, di trovare le sue lettere, i suoi discorsi, i libri dove appariva anche solo in una breve citazione. Il lavoro per delineare in modo più chiaro i contorni della sagoma di Inessa non era facile, ma neppure impossibile, anche se non avevo fonti italiane e su di lei era stato scritto in tempi non recentissimi. Poi, proprio lo stesso giorno in cui ho abbandonato il progetto degli «amori a sinistra» e ho deciso di cambiare e di indagare sulla sua figura, la fortuna mi aiutato. Navigando su Internet, la prima scoperta. Su Ebay, un certo «Petruccio» vendeva usata la biografia di Inessa Armand di George Bardawil, ormai quasi introvabile. Ho chiamato immediatamente. Pensavo a una telefonata breve e formale, ma Petruccio aveva una voce simpatica ed era molto curioso. Non si è limitato a prendere accordi per l’invio del libro, ha voluto sapere perché ero interessata alla figura di Inessa. «Non lo so esattamente», gli ho risposto, «faccio la giornalista e forse scriverò qualcosa su di lei, quasi nessuno la conosce e mi sembra un personaggio interessante». Il mio interlocutore è sembrato positivamente sorpreso, quasi contento. «Anch’io volevo scrivere qualcosa molti anni fa quando gli archivi dell’Urss non erano ancora stati aperti, volevo capire chi fosse davvero Inessa, poi ci ho rinunciato. Era un lavoro troppo difficile. Sarei felice se ci riuscisse lei». Era davvero contento. «Non ho solo la biografia di Bardawil», mi ha detto, «ne ho delle altre: Elwood, Pearson, persino quella di Fréville, il segretario di Thorez, che mi hanno mandato in fotocopia dalla Francia. Sono un mio regalo».

La telefonata mi ha emozionato. Mi è sembrata un segnale, ha confortato quella spinta di curiosità del tutto irrazionale che avevo provato. Di segnali ne avevo avuti già altri in quei giorni. Avevo deciso di scrivere su Inessa, il 9 ottobre e di cominciare con il racconto del suo funerale quando avevo realizzato che si era svolto lo stesso giorno del 1920, proprio il 9 di ottobre. Subito dopo ero andata a fare una passeggiata per schiarirmi le idee: era giusto abbandonare il progetto di un libro sull’amore a sinistra per affrontare l’avventura di scrivere su una donna la cui vita era rimasta così sconosciuta? «A chi vuoi che gliene freghi di un amore di Lenin?» mi aveva detto mio marito Sergio, che non è esattamente un ottimista, ma qualche volta ci azzecca. Per strada avevo trovato due chiavi. Per me erano un altro segnale. Mi capita di frequente di trovarne e le raccolgo perché, secondo una mia privata e stupida superstizione, significa che posso risolvere il problema che in quel momento mi si pone. In quel caso le chiavi dicevano che dovevo scrivere su Inessa. Così, almeno, mi piaceva pensare. Poi l’incontro con Petruccio, la simpatia provata nei suoi confronti, la sua generosità erano stati un’altra indicazione.

Pur colpita da quel colloquio telefonico e da quelle coincidenze, non potevo lasciare tutto al Caso. Quando il mio interlocutore ha cominciato a elencarmi i modi in cui poteva inviarmi i suoi preziosi volumi, ho temuto il peggio: le poste, i corrieri, qualche sua mancanza, un cambiamento d’idea. «Dove abita?» gli ho chiesto. «A Piadena, fra Mantova e Cremona», mi ha risposto, e allora gli ho raccontato una bugia: qualche giorno dopo mi sarei recata a Verona per lavoro e potevo fare una piccola deviazione per passare da lui a prendere personalmente il prezioso materiale.

Ho trovato Petruccio in una piccola casa zeppa di libri alla periferia di Piadena. Un uomo coltissimo, informato, gentile, che aveva dedicato alla lettura e allo studio tutto il tempo che gli restava dopo il suo lavoro d’impiegato. Si faceva vanto di non avere la televisione, era stato comunista e di quella storia conosceva moltissimo. Ne parlava con ironia e con affetto come di un sogno al quale non credeva più, ma che lo soccorreva ancora per decifrare il presente, gli forniva quegli occhiali dell’ironia che tanto aiutano a non accettare supinamente quel che accade. Mi ha dato notizie utilissime: mi ha consigliato di andare alla Mediateca Rai dove avrei potuto vedere qualche minuto dei funerali di Inessa. E di informarmi sugli orari di un museo dedicato a lei a Puškino, una cittadina a pochi chilometri da Mosca dove Inessa aveva abitato molti anni. Ho capito mentre parlavamo che mi stava affidando la storia che non aveva scritto e che, con una sorta di rude malinconia, mi passava il testimone. L’ho preso. Gli ho detto che gli avrei fatto sapere se il lavoro fosse andato avanti.

Ero impaziente di tornare a casa, e di guardare subito le foto di Inessa. L’ho trovata intensa, di una bellezza non convenzionale. Ho anche letto che nella realtà era ancora più bella.

Ho cominciato a sfogliare i libri con una curiosità avida che non mi ha mai abbandonato man mano che la ricerca si è fatta più precisa, che le testimonianze, i libri, le fotocopie si accumulavano sul mio tavolo. Ai libri che mi aveva dato Petruccio se ne sono aggiunti man mano altri che mi arrivavano dalla Germania, dell’Uzbekistan, dalla biblioteca di qualche amico, che di colpo si era ricordato di lei. Partivo da un indizio, da una frase per scavare e confrontare. Volevo avere tutto quello che era stato scritto anche in lingue che non conoscevo. Pensavo che con il tempo avrei trovato un traduttore.

Da quel momento è cominciata un’avventura. La mia – ho scoperto alle tre di una notte in cui ancora sfogliavo volumi e prendevo appunti – non era solo la curiosità della giornalista. C’era il desiderio di dare conto di una grande avventura, di risarcire una donna che la storia non aveva trattato bene; c’era la presunzione – c’era anche la presunzione – di capire ciò che altri avevano messo da parte: i suoi sentimenti, il suo amore per Lenin e quello del capo della rivoluzione per lei. Ero sicura che l’avrei compresa più di quanto avessero fatto altri. O meglio, pensavo che la vita di Inessa mi avrebbe svelato ciò che lei stessa non aveva voluto o non aveva fatto in tempo a raccontare.

Scoprire la storia di Inessa e dell’amore fra lei e Vladimir Il’ič è stato un viaggio mosso dalla passione. Ogni lettura, ogni ricerca sono diventate una sorta di appuntamento e le biografie, gli articoli, la lettura dei libri che parlavano di lei assomigliavano a incontri con amici o conoscenti che mi potevano svelare qualcosa. Ho scoperto subito che se si vogliono avere notizie ufficiali se ne possono trovare moltissime, anche dopo la fine dell’Urss. Archivi, istituti storici, biblioteche soprattutto in Russia hanno conservato molto su di lei. C’è la raccolta degli scritti di Inessa, c’è un’opera collettiva pubblicata nel 1926 in sua memoria, ci sono tanti filmati ufficiali, le lettere di Lenin e le memorie di Nadja Krupskaja. E poi le biografie quelle ufficiali e quelle indipendenti. E gli storici, anche chi ha scritto la storia con la maiuscola, non ha potuto fare a meno di citarla, sia pure en passant, quando hanno parlato della vita di Vladimir Il’ič. O quando hanno affrontato il tema delle riforme che riguardavano le donne e la famiglia nei primi anni dopo la rivoluzione. Anche fra quelle righe così avare di approfondimenti e di particolari, si poteva scorgere il profilo di una vita.

La storia ufficiale, dettata dalla nomenclatura Sovietica, descrive Inessa come una rivoluzionaria di professione, colta e disciplinata, la cui vita era stata dedicata al partito, pronta a tutto per l’edificazione dello stato Sovietico. La sua intimità con Lenin derivava proprio dalla sua straordinaria abnegazione. Tanto eccezionale che il diffidente Lenin aveva avuto assoluta fiducia in lei prima e dopo la rivoluzione e aveva fatto sì che diventasse presidente dello Zhenodtel, cioè della sezione femminile del Comitato centrale del partito bolscevico. In poche parole, per una fase sia pur breve, la donna più potente di Russia. Era stata sicuramente fra i pochi che avevano libertà di frequentare il capo della rivoluzione e aveva avuto l’onore di essere sepolta – unica straniera insieme a John Reed – nel «cimitero rosso», davanti alle mura del Cremlino, con i grandi uomini della rivoluzione.

Ma nel ritratto ufficiale, stereotipato, sicuramente incompleto, forse non del tutto veritiero, la figura di Inessa risultava opaca. Anche la lettura delle biografie che con il regime non avevano nulla a che fare, che anzi a esso erano avverse, la chiariva solo in parte. Erano scritte tutte da uomini, che, per quanto attenti, professionali, ricercatori e professori d’indubbio rigore, mi pareva si fossero lasciati sfuggire qualcosa. Quel che si diceva sul suo conto pareva documentato e la sua figura era apprezzata, ma qualcosa strideva o non quadrava. Inessa sfuggiva, non si riusciva ad afferrarla nella sua completezza.

Soprattutto era difficile capire il suo rapporto con Lenin. E quindi – questione non da poco – i suoi sentimenti, il modo in cui aveva vissuto un’amicizia, un amore o entrambi. Era stata solo una devota compagna, amica di famiglia e dirigente del partito? Una figura importante per il capo della rivoluzione ma solo come confidente, una donna di fiducia come la storiografia di regime affermava? Oppure era stata anche qualcos’altro? La sua «amante», come, con un cedimento maschilista e conservatore, era definita da alcuni testimoni e storici? Era lei la donna per cui il capo della rivoluzione russa aveva nutrito una passione segreta? C’era stato davvero fra i due, come molti sospettavano, un amore durato undici anni fino alla morte di Inessa nel Caucaso? E che amore era stato il loro? Come lo avevano vissuto?

Per molto tempo, per molti anni, ho scoperto nelle mie letture, non era stato possibile dare una risposta certa neppure sulla effettiva esistenza di un amore. Fino al 1992, sulla relazione fra i due c’erano solo illazioni, mezze frasi, allusioni. Oggi avremmo detto gossip.

C’era una frase allusiva al loro rapporto che Aleksandra Kollontaj aveva detto a Marcel Body, comunista francese diplomatico come lei in Norvegia, dopo aver notato la disperazione di Lenin ai funerali di Inessa. Body aveva riportato quella frase nella sua biografia della Kollontaj.

C’erano le parole di Angelica Balabanoff, anch’essa stupita della reazione di Vladimir Il’ič alla morte di Inessa. Angelica ne aveva parlato con Bertram Wolfe, intellettuale comunista americano e gli aveva detto senza girarci attorno: «Lenin amava Inessa. E in questo non vi era nulla d’immorale giacché aveva raccontato tutto alla Krupskaja».

C’era un’osservazione di Charles Rappaport, comunista russo francese, fondatore dei circoli operai israeliti, che aveva notato l’interesse del capo della rivoluzione per Inessa fin dal primo momento in cui l’aveva conosciuta in un café di Parigi. «Con i suoi occhi da mongolo lui non smetteva di fissare quella piccola francese», aveva acutamente osservato.

C’erano gli articoli di Bertram Wolfe sulla Slavic Rewue nei quali si raccontava della loro possibile relazione e come i due fossero vissuti probabilmente per qualche settimana da soli a Parigi nel 1914. Quegli stessi articoli in cui Wolfe parlava di Inessa e della probabile relazione amorosa con Lenin, citati dal Time, cioè da un giornale ad ampia diffusione, aveva provocato nel 1964 la chiusura dell’ufficio di corrispondenza a Mosca e l’espulsione del corrispondente.

C’era la notizia che il duro e distaccato leader rivoluzionario, fatto davvero inconsueto, le si rivolgesse con il “tu” invece che con il “lei”. Si potevano contare davvero sulle dita della mano le persone con cui Lenin aveva questa familiarità: sua madre, le sue sorelle, sua moglie. E poi aveva usato il «tu» in una lettera a Martov prima della rottura politica e nelle lettere a Kržižanovskij, un compagno di esilio in Siberia con cui aveva diviso la stessa cella.

C’era stato il suggerimento che Louis Aragon, segretario del partito comunista francese, aveva dato a Georges Bardawil, poi biografo di Inessa, di indagare su quella donna perché per Lenin non era stata solo una compagna. E Aragon aveva, senza dubbio, informazioni verificate.

C’era la voce di Solženicyn che, in contrapposizione con il ritratto ufficiale, che l’ha sempre mostrato duro e non influenzabile dai sentimenti, dipingeva un Lenin innamorato di Inessa fino alla dipendenza. Solo fantasie di un grande scrittore?

C’erano le voci degli avversari politici del leader che, all’immagine del rivoluzionario puro e assoluto, contrapponevano quella di un soggetto debole e contradditorio, vittima dei suoi desideri e dei suoi amori, delle sue donne, fra cui, appunto, Inessa. C’era qualcosa di vero in quella sia pur esplicita e, qualche volta, volgare volontà di denigrazione?

C’erano i rapporti dell’Ochrana, la polizia segreta della Russia zarista, che definiva – senza mezzi termini – Inessa come «l’amante di Lenin».

C’era il fatto, davvero importante, che durante i periodi di separazione Lenin aveva scritto a Inessa molte, moltissime lettere, più che a chiunque altro. Lettere politiche, a dire il vero, ma anche personali, che riguardavano loro due, la loro salute, i loro rapporti. Lettere sottoposte a censura, tagliate visibilmente. In cui tuttavia traspariva qualcosa che andava oltre la politica: tenerezza, familiarità, preoccupazione. E anche rabbia, malinconia, insicurezza, ansia. Comunque emozione e intimità.

Tutto questo forniva indizi, ma non prove. Diceva che c’era qualcosa di sconosciuto nella storia della compagna Armand e del suo rapporto con Vladimir Il’ič. Certo si poteva anche supporre che fra loro ci fosse solo una solida amicizia, una profonda solidarietà, una familiarità nata negli anni dell’esilio e cresciuta nel lavoro comune. Si poteva pensare che le voci di una loro particolare vicinanza nascessero dal fatto che a Parigi e in Svizzera fossero vicini di casa, che passassero le vacanze insieme e che Inessa si fosse resa necessaria per il lavoro del partito. Lenin, negli anni difficili prima della rivoluzione, aveva fatto affidamento su quella donna colta e intelligente che parlava fluentemente quattro lingue. Nadja Krupskaja, moglie devota, non bastava per la gran mole di lavoro da svolgere. Compagni come Kamenev o Zinov’ev, non erano in grado o non volevano fare quello che Inessa, che era una Girlfriday, come la definisce il suo biografo R.C. Elwood, aveva fatto. Un’amicizia fuori dagli schemi poteva essere scambiata per un rapporto sentimentale.

Il mistero è rimasto tale per molti anni. E nel mistero si sono contrapposti per molti anni due «partiti» con due opinioni molto diverse. Il primo che potremmo definire «romantico» era sicuro che fra i due ci fosse stato un rapporto d’amore lungo e coinvolgente e tendeva a ridimensionare il ruolo dirigente, il valore storico e politico della figura di Inessa. Il secondo, all’opposto, valorizzava la femminista e la rivoluzionaria, ma negava la possibilità di un rapporto amoroso ritenendolo puro gossip.

Già questa divisione m’insospettiva. Non riuscivo a capire perché entrambe le parti non prendessero in considerazione la tesi che Inessa fosse una femminista, rivoluzionaria, innamorata di Lenin e che Vladimir Il’ič fosse tutto quello che gli storici favorevoli o contrari hanno detto – duro, determinato, capace di fare la rivoluzione e anche di annientare in suo nome gli oppositori – e, tuttavia, potesse amarla. Mi chiedevo perché non riflettessero sul fatto – a dire il vero banale – che una relazione durata undici anni potesse conoscere varie fasi, alti e bassi. Che potesse interrompersi e riprendere. E che in un lungo rapporto i sentimenti e le persone potessero cambiare. Non capivo perché si preferisse semplificare invece che osservare la complessità della loro vita e del loro amore.

La situazione è cambiata con l’apertura degli archivi dopo la caduta dell’Urss. L’amore fra i due, fino allora negato o nascosto o ammesso, ma solo come voce, è emerso finalmente in una lunga lettera scritta da Inessa a Parigi e ritrovata in fondo a una scatola perché mai spedita. Un documento fondamentale che ha tolto ogni dubbio e ha consentito di partire da un dato di certezza. Fra Inessa e Lenin c’era stata una storia d’amore.

Da questo dato si poteva partire per rispondere a molte domande. In che modo avevano vissuto questo sentimento prima nell’esilio e poi nella Russia dei primi anni della rivoluzione? Come si era intrecciato con il loro impegno per la causa? Quali conseguenze aveva avuto sulla vita di entrambi e su quella di Nadja Krupskaja? Era riuscito Lenin, il rivoluzionario, a fare posto nella sua vita per Inessa? E la compagna Armand come aveva vissuto quell’amore segreto e impossibile? A queste domande, nonostante la scoperta della lettera, nessuno negli anni seguenti alla fine dell’Urss aveva provato a dare una risposta. Certo era difficile, occorreva interpretare dei segnali, captare delle sfumature, rileggere la storia, anche quella ufficiale, con altri occhi. Ma si poteva tentare.

Dopo molti giorni passati a leggere ho avuto bisogno di un contatto più concreto di quello che potevano darmi i libri. Volevo visitare i luoghi in cui Inessa aveva vissuto, in cui lei e Lenin si erano incontrati. Non pensavo di scoprire fatti ed episodi ancora sconosciuti, ma volevo vedere ciò che loro avevano visto, anche se erano passati cento anni, capire da segnali, che magari ad altri erano sembrati insignificanti, qualcosa di più della loro storia. Davvero, come si raccontava, a Parigi le loro case erano tanto vicine da favorire un rapporto quotidiano e intimo? E poi a Mosca, nella Mosca di Putin e degli oligarchi, c’era un ricordo anche piccolo di Inessa? E com’era quella Cracovia dov’era esploso l’amore e dove c’era stata la prima dolorosa rottura?

Sono andata a Parigi e ho contatto i passi che separano il numero di rue Marie Rose dove abitava Inessa dal 4 dove aveva il suo appartamento Lenin, ho visto che a Porte d’Orléans, dove c’era probabilmente il Café des Manilleurs, c’è ancora un café, grande e rumoroso come doveva essere quello in cui si sono incontrati per la prima volta. Ho capito, ripercorrendo le passeggiate di Lenin e Inessa a Cracovia, perché amassero tanto quella città nella quale si sente l’odore della Russia. Infine sono andata a Mosca e a San Pietroburgo. Volevo constatare di persona se qualcosa di quella storia d’amore era rimasto nella memoria di qualcuno. Se ancora c’era chi accostava il nome di Lenin a quello di Inessa.

La Mosca del capitalismo trionfante è diversa da quella che avevo conosciuto alla fine degli anni Ottanta, quando era la capitale dell’Urss, ma possiede ancora una bellezza speciale forse perché resta casuale e confusa, “scombiccherata”. In questa città dove la grandiosità del passato va a braccetto con l’ostentazione dirompente di un presente che comunque si vuole «grande», l’immagine di Lenin è dovunque. Nelle piazze, nella metropolitana, nei giardini, nelle stazioni ferroviarie il capo della rivoluzione è sempre lì con il dito alzato e lo sguardo severo. Insieme a lui i contadini, gli operai, le donne, i marinai, tutta l’iconografia dell’ottobre, della rivoluzione, della grande Unione Sovietica. Trovo una lapide in via Mochovaja che segnala dove Inessa ha abitato dopo la rivoluzione. Mi basta per capire. Di fronte dall’altra parte della strada c’è il Cremlino. Non doveva davvero percorrere molta strada per raggiungere l’abitazione e lo studio di Lenin.

Vado anche a Puškino dove ha vissuto per tanti anni, prima con la zia e la nonna e poi come moglie di Alexander Armand. Petruccio mi aveva detto che avrei trovato qualcosa su di lei: un museo, la sua casa, non avevo capito bene. Ho comunque un indirizzo.

Per andare a Puskino si prende un treno alla stazione Jaroslavskij, uno dei nove terminal ferroviari della capitale russa, lo stessa da cui parte il treno della Transiberiana. Si arriva dopo circa un’ora. Inessa l’ha fatto tante volte quel percorso e la campagna non deve essere cambiata molto. Nella piazza della stazione un transit mi conduce all’indirizzo che Petruccio ha scritto su un foglietto: Prospekt Inessa Armand 13, una traversa dell’omonima via, una delle strade principali del paese. Almeno nella toponomastica è presente. A quell’indirizzo dove avrei dovuto trovare una casa-museo, non c’è nulla. Ci abita, invece, Ruslan Hairullin, un professore universitario che sa chi è Inessa Armand ma che mi dà una delusione. L’appartamento non ha nulla a che fare con lei. Ci sono tuttavia molte cose in quel paese vicino a Mosca che ricordano Inessa e che posso rivedere grazie a Ruslan Hairullin e a sua moglie che si rivelano ospiti gentili, colti e disponibili come sanno esserlo i russi: le strade a lei intitolate, le case che erano state abitate dagli operai e dagli impiegati degli Armand, le vecchie aziende tessili, ormai abbandonate che si raggiungono attraversando boschi e sterpaglia, e soprattutto, le splendide cupole blu di San Nikolaj, la chiesa in cui Inessa ha sposato Aleksandr Armand, che ancora oggi dominano il paese. Se voglio – aggiunge Ruslan Hairullin – può accompagnarmi nel piccolo museo del paese dove si conservano i ricordi della famiglia Armand e dove sicuramente troverò qualcosa sulla donna di cui voglio scrivere. Ancora due chilometri a piedi, sotto il sole e ci siamo. Il museo è una piccola casa di legno composta di tre stanze che mi sembrano piene di cimeli e cianfrusaglie. Il direttore m’indirizza verso una teca di vetro che contiene alcuni oggetti di Inessa: gli occhiali, il calamaio, una tazza, una sua sedia. È lusingato dalla presenza di una giornalista straniera, ma, è evidente, ignora o fa finta di ignorare il suo legame particolare con Lenin, non è interessato alla vita di Inessa, quanto piuttosto alla grandezza della famiglia Armand che per decenni ha dato lavoro e lustro a Puškino. Mi racconta in russo, con la traduzione del gentile professore, gli incroci familiari, i matrimoni dei vari Armand, mi mostra le foto di gruppo, quelle con i dipendenti della grande azienda tessile, quelle di famiglia.

Nel museo, che è di tre stanze, ci lavorano in quattro (retaggio della piena occupazione dell’era socialista?), fra cui una ragazza bruna con gli occhi verdi che ascolta silenziosa e che, di fronte alla delusione per le mancate risposte alle mie domande, mi lancia – così almeno mi pare –
sguardi complici e comprensivi. A un certo punto si avvicina e mi bisbiglia: «Venga con me». Saliamo su una traballante e cigolante scala di legno che porta in un’altra stanza, la quarta del museo cittadino. Anche lì mi pare che ci siano solo oggetti di poco valore, ma c’è qualcosa che la ragazza vuole mostrarmi e che ha curato personalmente. In un angolo c’è un busto di marmo bianco di Inessa e accanto una piccola statua di Lenin; dietro di loro una bandiera rossa cosparsa di distintivi. Lei – mi dice – ha curato personalmente quell’angolo, che appare come un piccolo altare. Ha voluto metterli insieme – Vladimir Il’ič e Inessa – perché il loro rapporto d’amore fosse almeno segnalato. A dire il vero l’insieme è ingenuo e buffo, ma lo sguardo della mia accompagnatrice è così partecipe, l’intenzione così evidentemente romantica, che mostro comprensione ed entusiasmo. Incoraggiata mi sussurra con gli occhi commossi, approfittando del fatto che siamo sole: «Si amavano, si sono amati fino alla fine e hanno avuto due figli». Non voglio deluderla, ma ho letto abbastanza sulla vita di Inessa per sapere che questa è una diceria. C’era stata, è vero, la voce di un figlio, ma due addirittura! «Forse in Russia si sarebbe saputo», le rispondo mostrandomi per gentilezza più incerta di quello che effettivamente sono. Mi dice sicura: «Li hanno avuti in Francia». Non parlo più, lei guarda le due statue con occhi inteneriti ed è evidentemente soddisfatta: finalmente ha potuto mostrare e spiegare a qualcuno la sua piccola iniziativa. Anch’io sono contenta: ho trovato una piccola traccia di quel che cercavo. La giovane donna che me ne ha parlato ha vissuto gran parte della sua vita dopo la fine dell’Unione Sovietica. Quel piccolo angolo nella soffitta di un museo di paese significa che decenni dopo la rivoluzione qualcosa di quell’amore è sopravvissuto. Lo stalinismo, il regime l’hanno tenuto nascosto, ma non l’hanno cancellato.

Per avere un’ulteriore conferma, sia pure di segno opposto, devo andare in un altro luogo, ancora una volta a qualche decina di chilometri dal centro di Mosca. Ho già detto che la capitale russa colpisce per la quantità di statue e ritratti di Lenin. I russi – è evidente – della loro storia non rinnegano niente e la memoria della rivoluzione del 1917 convive con il lusso dei negozi, la frenesia dello shopping, l’ammirazione per la ricchezza. A San Pietroburgo il grande spazio antistante il palazzo Smol’nyj, l’edificio scelto da Lenin nel 1917 come quartier generale dei bolscevichi durante rivoluzione d’ottobre, si chiama ancora Piazza della dittatura del proletariato. Nessuno ha pensato di cambiargli nome.

Nonostante tutto, i russi sono orgogliosi della rivoluzione e tuttavia non vogliono che intralci il presente e che sia in qualche modo d’ingombro. Lo erano evidentemente lo studio e gli appartamenti privati di Lenin al Cremlino che avevo già visitato una volta nel 1986, in piena era gorbacioviana. Infatti non sono più nel palazzo rosso e sono stati trasportati altrove. In quello studio, di cui ricordavo la lampada verde, i libri, il ritratto di Marx, Inessa e Lenin si erano incontrati molte volte, per questo volevo rivederlo. Ho verificato su Internet e – benedette tecnologie – ho appreso che dal palazzo del Senato all’interno del Cremlino, sede del governo russo, erano stati portati in un paese poco lontano da Mosca chiamato Gor’kij Leninskie.

Allora prendo la metropolitana e scendo a Domodedovo. Anche qui un transit mi porta a un incrocio con un cartello che indica Gor’kij Leninskie. Attraverso a piedi un quartiere popolare, palazzoni colorati, parchi per i bambini e mi inoltro nella campagna russa perché – mi hanno assicurato – quel che cerco è vicino, basta seguire i piccoli cartelli di legno. Ho modo di ammirare le betulle, le dacie, perfino i cavalli, ma non posso fare a meno di chiedermi perché quel pezzo di storia che è l’appartamento di Lenin sia stato confinato in un luogo così lontano da Mosca. La camminata è lunga, tiro un sospiro di sollievo quando vedo di fronte a me all’improvviso un’enorme costruzione, moderna, razionalista, monumentale di marmo e vetro un po’ cupa e tuttavia rassicurante dopo tanto verde. Entro, sicura di essere arrivata alla meta, mentre i campi sono invasi dal suono di una sinfonia che viene da quell’edificio e che rende quel luogo ancora più severo e solenne. È davvero suggestivo, penso. Dietro le vetrate non c’è nessuno. Dopo un po’ arriva una ragazza in minigonna e pistola nella fondina, che mi chiede con cortesia che cosa voglio. Rispondo che vorrei vedere l’appartamento di Lenin. «Ha sbagliato», mi dice, «deve proseguire, ancora qualche minuto sempre diritto e lo troverà». L’edificio nel quale mi trovo è il centro nel quale si raccolgono gli audiovisivi, i filmati della rivoluzione, ma per quello che cerco devo andare più lontano. Riprendo la camminata ed ecco finalmente una grande villa. Mi pare di riconoscerla, quelle colonne, quei portici li ho già visti da qualche parte. Me ne ricordo all’improvviso: nei tanti documentari sulla morte di Lenin, di recente nel film Taunus che racconta le ultime settimane del capo dei bolscevichi. È la villa di Gor’kij, dove Lenin ha vissuto per qualche anno dopo essere stato colpito da un ictus e dove è morto. Ecco, qui hanno probabilmente trasportato e ricostruito il suo appartamento. Ci sono due donne in una stanza a pianterreno intente a cucire una tenda a fiori che mi salutano senza alzare la testa dal loro lavoro. «È qui che devo fare il biglietto di ingresso?» chiedo, sicura di essere arrivata. Ma le due non hanno intenzione di interrompersi. Mi dicono che devo andare oltre. Oltre quanto? Qualche minuto, mi rassicurano. Se voglio – mi dicono sempre continuando a fare l’orlo alla tenda – il biglietto lo rilasciano loro, ma posso farlo direttamente nella dacia in cui mi sto recando. Visto che devo andarci… Tolgo il disturbo, riprendo il cammino e, finalmente, vedo un cancello, un giardino e una grande statua del capo dei bolscevichi. Ci sono, ho camminato in aperta campagna per più di un’ora ma sono arrivata.

L’appartamento di Lenin è ricostruito con cura, ordine e meticolosità. Una signora che deve guidarci e che parla inglese arriva in tutta fretta non appena il custode le comunica per telefono che ci sono dei turisti che vogliono visitarlo. Di mezza età, ha i capelli corti, biondi, decolorati, un atteggiamento – mi pare – decisamente sovietico. Racconta e descrive con orgoglio, controlla le nostre reazioni, cerca di capire perché siamo arrivati fin là – devono essere davvero pochi i turisti curiosi di conoscere la quotidianità della vita di Lenin – ma è molto professionale. Quando apprende che siamo italiani ci fa vedere che, fra i suoi libri, Lenin aveva anche la Divina Commedia, e poi ci mostra il suo studio, la sala dove si riunivano i commissari del popolo, un salottino, la cucina, disadorna con le pentole rappezzate e le tazze sbeccate, le tre stanze da letto, quella della sorella Marija, quella della moglie Nadja e la sua. Ci fa notare che quella del capo della rivoluzione è la più piccola. Ci mostra, nel salottino antistante le stanze da letto, un grande pianoforte a coda. Penso all’amore di Lenin per la musica e a Inessa che suonava per lui la Patetica, ma qualcosa nell’atteggiamento di quella pur gentile signora mi dice che non posso affrontare l’argomento Inessa in modo diretto e quindi la prendo da lontano. «Lenin suonava il pianoforte?» le chiedo. «Ma no! Lenin non sapeva suonare», mi risponde con l’aria di chi pensa che l’interlocutrice deve essere un po’ scema se pensa che il capo della rivoluzione avesse tempo da sprecare con la musica. Mio marito Sergio, che mi ha accompagnato pazientemente in quel viaggio e nella ricerca della casa di Lenin nella campagna russa, non capisce la mia prudenza e con assoluta tranquillità domanda: «Forse lo suonava Inessa Armand?» L’ho fulminato con lo sguardo, ma era ormai troppo tardi. La signora è arrossita per la rabbia e ci ha guardato con disprezzo. «Sono tutte stupidaggini», ha sibilato. Non ha aggiunto: «Di voi corrotti occidentali», ma ho avuto la netta sensazione che l’abbia pensato. Poi mi ha preso per il braccio e mi ha detto: venga con me. Mi ha riportato nella stanza di Nadja Krupskaja che avevamo già visto, e questa volta ha aperto l’armadio. I vestiti della moglie di Lenin erano sulle grucce, lei ne ha tirato fuori uno e mi ha mostrato la manica. Era rattoppata non una ma più volte. «Ecco», mi ha detto, «questo è il vestito, della prima donna di Russia». Poche parole aspre, e ancora una volta molte altre, più aspre, sottintese: «Non ci sono amanti, non ci sono scandali. Voi occidentali vi interessate di stupidi pettegolezzi. Io vi mostro con questo vestito chi era la donna, l’unica donna amata da Lenin. Vi mostro la realtà di un amore socialista e proletario, altro che Inessa». Era veramente arrabbiata. Quando l’ho ringraziata con calore per averci guidato nella visita mi ha risposto con un sorriso formale. Ho capito allora che, in coloro che – e ce ne sono nella Russia di Putin – si sentono ancora legati all’Urss, Inessa va cancellata, parlarne ancora oggi significa infangare la reputazione del capo della rivoluzione. C’è ancora chi pensa che mantenere il silenzio sia un dovere nei confronti dello Stato sovietico.

In quella dacia a trenta chilometri da Mosca che ospita quel che è rimasto della vita quotidiana di Lenin mi sono stati confermati i motivi del silenzio che per anni ha avvolto la figura di Inessa. Vladimir Il’ič, il padre della patria Sovietica, anche dopo la sua morte, che avvenne quattro anni dopo quella di Inessa, doveva rimanere su un piedistallo. La storiografia Sovietica e stalinista non poteva ammettere e tanto meno rivelare che avesse avuto un amore fuori dal matrimonio e non fosse il fedele marito di Nadja Krupskaja. Non poteva permettere che l’immagine di chi aveva come unico pensiero le sorti del proletariato fosse macchiata da una storia d’amore. Parlare del rapporto fra Inessa e Vladimir Il’ič avrebbe significato rivelare molti fatti e molte circostanze che non era opportuno portare alla luce: che Lenin, anche Lenin, era stato trascinato dai sentimenti e aveva sentito la mancanza della donna che amava, che aveva sofferto per qualcos’altro, non solo per la difficoltà di mettere in pratica il socialismo, e che in qualche momento senza di lei si era sentito perduto.

Inoltre la Russia stalinista non poteva accettare che il capo della rivoluzione proletaria fosse stato legato a una donna dell’alta borghesia, con un’autonomia culturale, e la cui famiglia di industriali progressisti era stata una delle fonti di finanziamento dei bolscevichi. Quando lo aveva incontrato per la prima volta a Parigi, Inessa aveva trentacinque anni e una personalità formata. Aveva avuto quattro figli, si era separata dal marito (con il quale peraltro aveva mantenuto ottimi rapporti) per unirsi a suo cognato dal quale aveva avuto un altro figlio. Era una militante bolscevica, una rivoluzionaria convinta e audace che era stata disponibile a tutto per la causa. Anche lei, come Lenin, voleva la rivoluzione del proletariato e un nuovo avvenire per il suo paese. Anche lei aveva partecipato alla grande illusione della costruzione del paese dei Soviet. Era morta prima di vivere a pieno la delusione, ma la sospettò e capì prima di altri quello che non funzionava. Era socialmente, culturalmente ed economicamente autonoma, poteva anche aiutare le casse del partito, aveva mostrato una certa indipendenza di giudizio e, quando era stato necessario, un’aperta opposizione alle idee del leader supremo. Inessa era favorevole al libero amore, contraria alla pace di Brest-Litovsk, aveva simpatizzato per il gruppo di Baugy, critico con Lenin. Aveva, insomma, una sua biografia di militante politica e femminista che si distingueva a volte polemicamente da quella del suo leader.

Se questi sono i motivi dell’oscuramento della figura di Inessa nella storiografia Sovietica, meno chiari sono i motivi della difficile comprensione della figura di Inessa da parte di quella occidentale. Certo era in grande misura dipendente da fonti sovietiche e ne era, suo malgrado, influenzata. Ma probabilmente c’è anche un’altra ragione. Inessa non è facile da inquadrare negli stereotipi femminili di cui anche la migliore cultura occidentale abbonda. È difficile per uno storico o un accademico, inevitabilmente soggetto a schemi maschili, farne il ritratto e orientarsi nella storia e nella psicologia di una donna che riuniva in sé e nella sua vita tante passioni e tante inclinazioni. Inessa era una rivoluzionaria convinta che conosceva il carcere e il confino, ma era anche madre affettuosissima e presente di cinque figli. Era devota a Lenin, ma teneva alla sua libertà. Era una «bolscevica», ma consapevole dei limiti del suo partito sulla «questione femminile». Aveva vissuto l’inizio del tragico degrado dei progetti rivoluzionari, ma era rimasta legata a essi. Era ricca, ma non aveva temuto la povertà ed era morta povera. Era stata una buona moglie, ma aveva praticato e teorizzato il libero amore. Il suo legame con Vladimir Il’ič, forte sino alla fine, non le aveva impedito di essere amica di Nadja Krupskaja. Aveva relazioni in tutto il mondo, ma quando poteva si rifugiava nella solitudine. Era un’idealista e aveva abbracciato l’utopia del mondo nuovo, ma anche una dirigente realista e mediatrice. Il suo modo di essere, complesso, a volte contradditorio, soggetto a tutte le umane debolezze, agli entusiasmi e alla depressione, all’abnegazione e alla ribellione, la sua capacità di amare la politica, i figli, l’amore e l’amicizia e di vivere tutto con passione, ne facevano una figura eccentrica, non catalogabile. Nella vita di Inessa tutti gli schemi cadono e gli stereotipi si sgretolano. Per questo mi è piaciuto raccontarla.

 

Libri consigliati