“Lavori sporchi – Storie dalla sala macchine della nostra vita comoda” raccoglie dieci reportage del giornalista tedesco Jan Stremmel, che si mette letteralmente “nei panni” dei lavoratori sfruttati, andando a cercarli in aree difficili del pianeta per affiancarli nel loro lavoro quotidiano… – Su ilLibraio.it un estratto dal capitolo “Le rose degli ippopotami”

Il giornalista tedesco Jan Stremmel, classe ’85, firma un libro-inchiesta inquietante e attuale: Lavori sporchi – Storie dalla sala macchine della nostra vita comoda, edito da Il Margine con la traduzione di Michela Guardigli. Un volume tutto dedicato al sottobosco di sub-sub-subappaltatori, di piccoli fornitori, di fabbrichette improvvisate, e ai temi della tutela dei lavoratori o dell’ambiente, che hanno confini sempre più labili.

Stremmel, che lavora come reporter per la Süddeutsche Zeitung am Wochenende e per la rivista scientifica Galileo, e che dal 2021 collabora con il network giornalistico Y-Kollektiv (i suoi servizi appaiono sui canali pubblici tedeschi ARD e ZDF), propone dieci reportage, in cui si mette letteralmente “nei panni” dei lavoratori sfruttati, andando a cercarli in aree difficili del pianeta per affiancarli nel loro lavoro quotidiano.

Le sue inchieste descrivono così i luoghi dove i Paesi occidentali hanno relegato la produzione dei beni di consumo che compongono la nostra comoda quotidianità, dettando legge e prezzi al costo dello sfruttamento di popoli ed ecosistemi e contribuendo a perpetuare conflitti e disuguaglianze.

Spazio nel libro alle tintorie di Kolkata, dove migliaia di persone lavorano a contatto con centinaia di sostanze chimiche tossiche, corrosive, cancerogene; ai “ladri di sabbia” di Capo Verde, che riforniscono illegalmente i cantieri edili degli hotel dedicati al turismo di massa mettendo a repentaglio la sopravvivenza di interi ecosistemi e le riserve mondiali di sabbia, seconda risorsa naturale più sfruttata al mondo dopo l’acqua; e ancora, ai taglialegna del Paraguay che, producendo carbone ricavandolo di frodo da legname tropicale, hanno già disboscato un quarto della copertura forestale del Paese, al ritmo più rapido dell’intera America Latina.

Nel libro si racconta poi il comparto florovivaistico kenyano, che alimenta il mercato di fiori di tutto il mondo, sfruttando le lavoratrici e causando gravi danni alla flora e alla fauna locali; e si parla degli ex pescatori del Lago d’Aral, in Asia Centrale, un tempo grande quanto l’Irlanda e ora completamente prosciugato a causa dell’industria cotoniera che ha portato la mortalità infantile a divenire tra le più alte al mondo.

Jan Stremmel indaga inoltre sul “mare di plastica” delle serre andaluse, dove ortaggi vengono coltivati in un’area desertica grande quasi quanto il Mar Morto – la più ampia al mondo ricoperta da serre – tenuta in piedi da lavoratori clandestini che riforniscono così di ortaggi l’intera Europa, in qualsiasi stagione; e sulle coltivazioni di caffè colombiane, in fase di abbandono da parte dei coltivatori locali a causa del progressivo crollo del prezzo dei chicchi sul mercato mondiale.

E ancora, scrive degli oranghi del Borneom, minacciati d’estinzione dalla deforestazione dovuta alla richiesta di olio di palma. Per poi raccontare degli smartphone prodotti in Cina, sulle spalle di milioni di lavoratori spesso in cerca di opportunità migliori di quelle offerte nelle aree rurali da cui provengono; e delle savane africane, dove gli elefanti stanno scomparendo per via del bracconaggio…

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Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo la prima parte di uno dei reportage:

Le rose degli ippopotami

La colpa era solo del taiwanese morto. Almeno così la pensava il facchino che mi aiutò a portare le valigie dalla reception alla mia capanna. Era un uomo tarchiato con un’uniforme da safari color sabbia. Il taiwanese era stato ucciso cinque mesi prima nel giardino dell’hotel, sulle rive del Lago Naivasha, a cento metri scarsi dal viottolo ben curato che avevo appena imboccato per seguire il facchino, tra acacie e cespugli di oleandro in fiore.

«Era andato lì per scattare una foto. Vicinissimo. A un ippopotamo al pascolo». L’uomo alzò la voce mentre, in mancanza di una mano libera, indicava con la fronte in direzione del prato, intorno al quale si ergevano a semicerchio le capanne di mattoni con il tetto di paglia in cui avrei dormito per le notti successive. L’animale aveva fatto quello che gli ippopotami fanno spesso in questi casi: mordere. Non per niente sono considerati i mammiferi terrestri più pericolosi per l’uomo, nonostante i loro occhioni teneri e le zampe simpatiche. «Un’idea davvero molto stupida», brontolò il facchino scuotendo la testa.

Non tutti all’hotel avevano un’opinione così netta sull’incidente. Le donne alla reception non avevano detto una parola al riguardo. Gli ippopotami intagliati a mano continuavano a essere venduti come souvenir. In quattro misure. Il taiwanese, come lessi in seguito, era stata la sesta vittima degli ippopotami di quell’anno solo sulle rive di quel lago. Negli ultimi anni il livello dell’acqua si era innalzato bruscamente, per questo gli animali di notte si spingevano sempre più verso l’interno per pascolare, nei giardini e nei complessi residenziali. La causa dell’innalzamento dell’acqua era anche il motivo del mio viaggio: la rapida crescita dell’industria floreale.

La direzione dell’hotel aveva preso alcune contromisure. Ora nella proprietà era obbligatorio essere accompagnati. Per uscire dalla mia capanna e andare a pranzare nell’edificio principale, a meno di cento metri di distanza, dovetti comunicare il mio desiderio all’addetto alla reception. Dieci minuti dopo, l’addetto bussò alla mia porta, con in mano una mazza di legno lunga un metro e mezzo. «Jambo», disse sorridendo — il saluto universale in kiswahili — e poi mi accompagnò a passi spediti verso il buffet all-you-can-eat.

Tradizionalmente, queste mazze venivano utilizzate dai guerrieri Masai. Questo popolo seminomade, famoso in tutto il mondo per le sue danze e i suoi mantelli rossi a quadri, visse qui per secoli fino a quando, all’inizio del XX secolo, venne cacciato dalla fertile valle dagli inglesi che volevano coltivarla per sé. L’attuale Kenya si chiamava allora Africa Orientale Britannica. Come spesso accade nella storia di questo continente, il problema degli ippopotami affonda le proprie radici in un miscuglio di razzismo, avidità e tradimento: nel 1904 gli inglesi firmarono un trattato con i Masai, che garantiva loro una riserva nella valle. Sette anni dopo, il trattato fu infranto dai governanti coloniali: erano stati i Masai, secondo gli inglesi, a chiedere di essere spostati. Casualmente, gli agricoltori bianchi ebbero così libero accesso a uno degli altipiani più favorevoli dell’Africa dal punto di vista climatico. Ma poiché la natura non si cura di chi rivendica per sé un determinato pezzo di terra, né di chi paga quanti soldi per una camera doppia con vista sul lago, oggi — centodieci anni dopo — c’era un problema di turisti morti.

Anche chi non era interessato agli incidenti non poteva ignorare la natura. I bufali erano immersi fino al dorso nell’acqua, vicino alla riva, gli uccelli con piume dai motivi intricati erano appollaiati sulle cime degli alberi semisommersi, i coccodrilli prendevano il sole sui banchi di sabbia e orde di scimmie si aggiravano sul tetto della terrazza dove si faceva colazione. Un pomeriggio, una giraffa e il suo piccolo attraversarono il giardino — con tutta calma, a non più di venti metri dalla panchina dove ero seduto. Sembrava che dietro i cespugli ci fosse un regista, in attesa di mandare in scena un altro tipico animale africano.

Osservando un po’ più da vicino quel quadretto idilliaco, però, si notava che alcune cose non tornavano. Non solo gli ippopotami di norma non pascolano nei giardini degli hotel. Gli alberi, le cui chiome spuntava- no dall’acqua a dieci metri dalla riva, in origine si trovavano sulla terraferma. Dieci anni prima, il livello del lago era sceso drasticamente; si temeva addirittura che potesse prosciugarsi. Le aziende floricole circostanti avevano estratto troppa acqua. Inoltre, l’autorità idrica aveva rilevato concentrazioni elevate di fertilizzanti.

Il livello si era poi alzato di nuovo, ma a causa di un altro problema: il fertilizzante aveva favorito la crescita di una pianta invasiva, il giacinto d’acqua. Il suo pesante tappeto di foglie colonizzava la riva, privava il lago di ossigeno, allontanava i pesci e rendeva fangoso il fondale. Il lago era diventato meno profondo e ora allagava regolarmente le aree residenziali. Come sotto una lente di ingrandimento, il Lago Naivasha era la dimostrazione di ciò che è vero per gli ecosistemi di tutto il mondo: tutto è interconnesso. Arrivando da Nairobi si apriva un panorama spettacolare in direzione nord-ovest. La strada conduceva lungo un crinale da cui la vista spaziava in lontananza, dove si intravvedeva una vasta oasi verde con un occhio blu quasi rotondo al centro. Era il nostro lago. Si trova nella Great Rift Valley, una sorta di gigantesca crepa nella placca continentale dove, da milioni di anni, la parte orientale si sta gradualmente separando dal resto dell’Africa. La valle è punteggiata da vulcani, fiumi e laghi, ma si vedono anche numerosi tendoni bianchi. Soprattutto la sponda meridionale del Naivasha ne è piena. Erano il motivo per cui mi trovavo là.

Alle sette e mezza del mattino, in un bus Nissan bianco, attraversammo il traffico dell’ora di punta lungo la costa, dall’hotel al cosiddetto Flower Business Park. Tutto puzzava di benzina e di rifiuti e, come ogni volta che mi recavo in Africa, in strada mi rendevo conto del lusso a cui ero abituato. La maggior parte dei pendolari andava a piedi: nella polvere rossa ai bordi della strada camminavano gruppi di bambini in uniforme scolastica e donne in tailleur. Alcuni uomini sfrecciavano in motorino con rimorchi pieni di gabbie per uccelli in pile altissime.

Era l’inizio di febbraio e i tendoni in riva al lago erano in piena attività. Proprio in questo periodo, infatti, più di duemila anni prima, nell’antica Roma si svolgevano i rituali pagani relativi all’accoppiamento: i Lupercali. I sacerdoti sacrificavano i caproni e frustavano le donne con le loro pelli, sperando che diventassero feconde. Nel V secolo d.C., la Chiesa cattolica sostituì il rituale con una festa in onore di San Valentino, un martire che si dice sposasse in segreto coppie cristiane a Roma. La fusione di queste due tradizioni ha fatto sì che oggi il 14 febbraio sia considerato un giorno di amore e fertilità e che a febbraio gli uomini in Occidente comprino rose.

Gran parte dei fiori venduti in tutto il mondo è coltivata qui in Kenya. Il suolo vulcanico è fertile, la manodopera è a buon mercato e lo Stato non si impiccia in cose tipo salari minimi o contributi sociali. Il lago è diventato un hotspot dell’economia kenyota; dopo il tè e il turismo, i fiori qui sono la più importante fonte di reddito. Centinaia di migliaia di kenyoti vivono direttamente grazie alla produzione di fiori, milioni grazie all’indotto.

Davanti al cancello di sicurezza dell’azienda floricola si stava svolgendo un grande sit-in. Almeno un centinaio di donne e uomini erano seduti su sedie di plastica o accovacciati a terra accanto al vialetto, all’ombra dei tamarindi. Alcuni avevano con sé bottiglie d’acqua e sacchetti di plastica con del cibo; sembrava che stessero facendo una pausa prima di riprendere il lavoro. Ma questa folla, come appresi in seguito, veniva a sedersi lì ogni giorno. Dalla mattina alla sera. Erano disoccupati che aspettavano giorno dopo giorno che si creasse un nuovo posto di lavoro al Flower Business Park, che qualcuno perdesse il lavoro o che — anche se sembrava un’idea del tutto ridicola — si licenziasse di propria iniziativa. La disoccupazione giovanile in Kenya è elevata; più di un terzo della popolazione vive in condizioni di estrema povertà.

(continua in libreria…)

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