“Medusa. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo)”, saggio narrativo di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi, è un progetto multipiattaforma che nasce dall’omonima newsletter, in cui da quattro anni viene raccontato il cambiamento climatico. “In Medusa scriviamo di Antropocene, crisi climatica, rapporto tra umano e non umano, nuovi ambientalismi, e ci sono tanti i punti di vista che cerchiamo di raccogliere, scientifico, cognitivo, politico, sociale, e quello letterario, che scorre sotterraneo in tutti i capitoli”, raccontano gli autori intervistati da ilLibraio.it. E spiegano: “Servono più voci possibili, ma anche contenitori e collettivi, gruppi che possano contenerle. Il nostro è un esempio, in piccolo, di una cosa che accade sempre più spesso, cioè progetti multidisciplinari portati avanti da persone che mescolano capacità e linguaggi allargando l’orizzonte del racconto”

Medusa. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo) è un saggio narrativo edito da Nero di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi, senior editor e editor del Tascabile.

De Giuli e Porcelluzzi, tra i vari progetti in ambito culturale e divulgativo di cui si occupano e con cui collaborano, sono anche autori dell’omonima newsletter nata a ottobre del 2017, che da quattro anni racconta il cambiamento climatico con un approccio multidisciplinare che unisce l’impostazione scientifica a punti di vista letterari, filosofici, politici e sociali.

Medusa arriva nelle caselle di posta ogni due mercoledì, e ora che ha quasi raggiunto il suo centesimo invio, ha dato origine a un saggio narrativo; non si tratta di una raccolta dei numeri della newsletter, ma di un racconto che amplia e approfondisce le questioni trattate in questi quattro anni, anche grazie alla possibilità del formato libro di sottolinearne maggiormente i rimandi e i collegamenti.

ilLibraio.it ha parlato con De Giuli e Porcelluzzi, gli autori di questo progetto che si muove su più piattaforme e che è nato dalla voglia di raccontare l’antropocene in tutte le sue sfaccettature, aprendo spazi di riflessione che non fossero esclusivi di una sola materia, ma inclusivi di tutti gli approcci con cui è possibile, e a volte doveroso, affrontare il tema.

medusa. storia della fine del mondo per come lo conosciamo

Quando avete iniziato il vostro progetto, quattro anni fa, sapevate già che avreste voluto scrivere un libro. Perché avete scelto di iniziare creando una newsletter?
Matteo De Giuli: “Volevamo prima sperimentare stili e approcci, avevamo bisogno di uno spazio in cui misurare le nostre scritture e iniziare a mescolarle, e in più volevamo continuare a leggere e confrontarci anche con altre persone. La newsletter si è rivelata lo strumento migliore, ci ha dato la libertà di aprire un laboratorio dove potevamo anche sbagliare e ricominciare da capo. Tutto sommato scrivere un libro è un atto di arroganza, mentre aprire una newsletter è un atto di arroganza minore, diciamo. Dopo quattro anni ci siamo sentiti pronti per costruire finalmente il libro che avevamo in mente. In Medusa scriviamo di Antropocene, crisi climatica, rapporto tra umano e non umano, nuovi ambientalismi, e ci sono tanti i punti di vista che cerchiamo di raccogliere, scientifico, cognitivo, politico, sociale, e quello letterario, che scorre sotterraneo in tutti i capitoli. Partiamo dalla pandemia, da come ci abbia ricordato in maniera drammatica la nostra continuità con il resto dei viventi, da lì raccontiamo i diversi sguardi sulla crisi climatica, il ruolo delle storie e delle narrazioni per poter comprendere l’emergenza, e poi la giustizia climatica, l’ansia da catastrofe… Ci serviva tempo e spazio per attraversare tutto questo”.
Nicolò Porcelluzzi: “Quattro anni fa, poi, in Italia si parlava poco di queste cose: assistevamo al divario tra la divulgazione scientifica anglosassone e quella italiana. Nel frattempo, per fortuna, le cose sono cambiate, e ora si parla molto di più di cambiamento climatico, e con qualità”.

Com’è cambiato invece Medusa in questi quattro anni di newsletter?
MDG: “La newsletter ci ha portato in posti diversi da quelli che ci aspettavamo, ci ha fatto incontrare molte persone nuove, e autori, libri, approcci che ancora non conoscevamo”.
NP: “In questi quattro anni, grazie alla newsletter abbiamo ricevuto molte richieste che ci hanno portato a esplorare altri media, per esempio, dal linguaggio dell’arte, tramite la casa editrice NERO che si occupa anche di questo, a quello radiofonico, come con radio Raheem e la Radio del Festival della Letteratura di Mantova. Qualche anno fa ci aveva contattati anche un drammaturgo che aveva scritto una pièce teatrale ispirandosi – in mezzo ad altro – ad alcuni numeri di Medusa, che purtroppo non è potuta andare in scena al Parenti a causa della prima quarantena, e poi della seconda. Giocare con i linguaggi è anche utile, aiuta a capire quali strade sono percorribili. Scrivendo, però, non abbiamo mai preteso un’idea di… completezza, e in questa scelta vedo anche dei riflessi del metodo scientifico e di quello poetico, i pilastri del nostro progetto. Da una parte, ‘chi fa scienza’ sa di non sapere e dubita di ogni conoscenza e dei dispositivi che la creano, e dall’altra, per ‘chi fa poesia’, l’inesattezza è una risorsa, più che un problema”.

Ora che il libro è stato pubblicato, la newsletter cambierà?
MDG: “Cambierà di sicuro, non sappiamo ancora come. Stiamo cercando un modo nuovo per continuare a scrivere insieme”.
NP: “Oltre al fatto che si è creata una comunità di lettori che si è affezionata, e a cui noi siamo affezionati, ed è un rapporto che non vogliamo interrompere”.

Per parlare del cambiamento climatico oggi viene usato sempre più uno stile che mescola scienza e racconto, per cercare di dare una forma più comprensibile alla complessità del problema. Vi ritrovate in questo stile?
MDG: “Questo genere di libri è stato tra le nostre prime letture su questi argomenti, Elizabeth Kolbert, Ed Yong… Oppure David Quammen, che con Spillover, che citiamo all’inizio di Medusa, ha raccontato i suoi viaggi in giro per il mondo, dal Congo alla Cina, per ricostruire la storia di virus e epidemie. E Spillover un libro letterario, che come stile ambisce a essere una strana miscela di Faulkner e Crichton, ma è soprattutto un libro giornalistico, che ha fatto anche un grande lavoro informativo, di educazione quasi, su temi ancora poco noti – tant’è che oggi è considerato quasi profetico per aver anticipato la pandemia di COVID-19. Ma questo tipo di saggi narrativi è legato moltissimo al genere di rivista su cui scrivono i loro autori (New Yorker, The Atlantic, ecc..) e quindi alla tipica struttura dello storytelling anglosassone. Noi non volevamo, né potevamo, replicare questo modello in Italia. Perché, se da lettori ci può appassionare, da scrittori non ci appartiene. Poi ovviamente ci sono molti bravi giornalisti che anche da noi hanno scritto libri così, e sono lavori utili, a volte fondamentali, per raccontare alcune cose che sono state troppo a lungo taciute nel dibattito pubblico, di cui si ha ancora poca consapevolezza e conoscenza”.
NP: “A quel modo di fare giornalismo e divulgazione abbiamo voluto aggiungere la nostra tradizione letteraria di scrittori italiani, scavando il nostro canone alla ricerca di interessi, passioni e influenze. Alla fine questa pratica reiterata nel tempo, attraverso l’esercizio e una vaga forma di disciplina, è diventata il nostro stile”.
MDG: “Chiuso il libro ci siamo accorti di aver citato soprattutto scrittori che hanno riflettuto sul rapporto tra umano e non umano prima che la parola Antropocene venisse partorita, Volponi, Ortese, Gadda, Bianciardi, autori che hanno vissuto il boom economico e hanno finito per raccontare le loro ossessioni e i loro traumi lungo quegli anni di trasformazione sociale, economica, e quindi anche ecologica, anni in cui il rapporto tra esseri umani e natura è cambiato radicalmente. Ma sono tutti scrittori che non scrivono pensando di ‘affrontare un tema’ o che la narrativa debba avere uno scopo. Alcune delle domande che ci facciamo dentro Medusa, in fondo, sono proprio queste: esistono storie che oggi possono raccontare meglio di altre una realtà prismatica e stratificata come la crisi climatica, che riescono coinvolgere e interessare un pubblico che a lungo è rimasto indifferente a questi temi? Quali sono? E siamo sicuri che sia la letteratura a dover accogliere e dar corpo a queste storie?”

Oggi le notizie, le inchieste, e i dati che riguardano il cambiamento climatico sono moltissimi. Non c’è il rischio che sia necessario fare una selezione affinché i fatti siano più comprensibili?
NP: “Dovremmo prendere questa situazione come un invito alla polifonia e alla collaborazione. Servono più voci possibili, ma anche contenitori e collettivi, gruppi che possano contenerle. Il nostro è un esempio, in piccolo, di una cosa che accade sempre più spesso, cioè progetti multidisciplinari portati avanti da persone che mescolano capacità e linguaggi allargando l’orizzonte del racconto. Poi, anche noi nel libro ci siamo chiesti se ci fossero ‘storie’ più utili di altre. Di sicuro c’è bisogno di avvicinare il racconto della crisi climatica, sia da un punto di vista umano che geografico: per quanto riguarda i cosiddetti media mainstream, una buona idea potrebbe essere insistere sui problemi quotidiani che affliggono la vita delle persone, questioni che oltretutto prescindono dal credo politico. L’aria che respiri, il cibo che mangi, le malattie dei tuoi figli. Meno soldi hai, più questa situazione ti farà del male”.

Nel libro vi soffermate sul concetto di climate anxiety. Cosa significa per voi occuparvi di un progetto che richiede di rimanere a contatto costante con il tema del cambiamento climatico?
NP: “Ricordo un vecchio articolo che parlava di climate anxiety, credo del New York Times, dove si chiedeva a più ricercatori del settore quali potessero essere i metodi per affrontare questo problema (e trauma) da un punto di vista psicologico. La soluzione più ripetuta era diventare ‘un megafono’, aggiungersi alle voci, e fare il possibile per annunciare la novella. E confesso che funziona: scrivere di queste cose, e vedere che qualcuno le legge, ti aiuta a pensare che stai facendo qualcosa di utile. La climate anxiety però, va detto, non è un problema che interessa solo ricercatori e scrittori, è un fardello che riguarda tutti”.
MDG: “Nell’occuparsi di questi temi infatti ci si rende conto che non basta la divulgazione, bisogna anche raccontare le disuguaglianze, il modello di sviluppo che ci ha portato a questo punto, le contraddizioni delle possibili soluzioni che vengono trovate. Lo sguardo diventa inevitabilmente più politico”.

Nel libro, infatti, proponete un atteggiamento che chiunque può mettere in atto di fronte alla climate anxiety.
MDG: “Nel libro citiamo il famoso motto di Gramsci, ‘il pessimismo della ragione, l’ottimismo della volontà’ (che in origine era ‘pessimismo dell’intelligenza’, ma si è diffuso in quest’altra versione che forse suona meno altezzosa). Sarebbe eccessivo però, dire che è un atteggiamento che proponiamo a chiunque, è solo il modo che abbiamo trovato noi, per non perdere ogni speranza”.
NP: “Un certo relativismo porta avanti la tesi che il mondo è sempre cambiato, l’umanità ha attraversato diversi stravolgimenti, così come il pianeta Terra, e quindi supereremo anche questo. Pensiero magico. Ma questa stessa superficialità si può manipolare, ed essere modellata in un esempio positivo: se tutto cambia significa che possiamo cambiare anche noi, che possiamo adattarci, perché non ce la faremo senza fare nulla”.

Cosa vorreste portare ai lettori tramite la lettura del vostro libro?
MDG:
“È difficile da dire, perché non è un libro che propone soluzioni, non ne abbiamo di soluzioni, se non, forse, la condivisione di un approccio, la necessità di coltivare il dubbio”.
NP:
“Ci auguriamo che i lettori, di fronte a questo libro, si sentano meno soli; noi stessi, scrivendolo, abbiamo tentato di affrontare la nostra angoscia. Speriamo poi che sia una fonte di informazioni utili, e che spinga a molte ricerche, alla scoperta di mondi finora ignoti”.

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