Nel volume “Munari per Rodari – Segni sghembi, sghiribizzi, macchie, colori e scarabocchi”, una selezione dei “segni” munariani è accompagnata – oltre che da citazioni dai diversi libri di Rodari – dai testi di approfondimento di Antonio Faeti, Marco Belpoliti e Riccardo Falcinelli (su ilLibraio.it proponiamo la riflessione di quest’ultimo, designer che ha progettato libri e collane per alcuni tra i maggiori editori)

Gianni Rodari (nato 100 anni fa,  il 20 ottobre 1920 a Omegna) e Bruno Munari hanno sempre guardato con attenzione al mondo dell’infanzia, uniti dalla volontà di liberare immagini e parole, facendoci scoprire il piacere dell’invenzione, della fantasia e della creatività.

Mettendo insieme elementi apparentemente opposti e lontani, immaginando sintesi e soluzioni non previste, hanno dato nuovi significati a lettere e segni, svolgendo per anni un percorso parallelo, confluito anche in libri come Filastrocche in cielo e in terra, Favole al telefono, Il pianeta degli alberi di Natale, Il libro degli errori, La torta in cielo, Il gioco dei quattro cantoni, C’era due volte il barone Lamberto.

Nelle illustrazioni realizzate per Rodari, Munari riesce, con la sua leggerezza e il suo inconfondibile segno, a ricreare la stessa poesia delle storie e delle rime di Rodari, e ne arricchisce il lato fantastico e la capacità di stupire.

Nel volume Munari per Rodari – Segni sghembi, sghiribizzi, macchie, colori e scarabocchi (Corraini) una selezione dei “segni” munariani è accompagnata – oltre che da citazioni dai diversi libri di Rodari – dai testi di approfondimento di Riccardo Falcinelli, Antonio Faeti e Marco Belpoliti, che raccontano come i disegni di Munari si inseriscano nella storia dell’illustrazione per l’infanzia, soffermandosi sulla loro accoglienza e la loro natura di “scarabocchi”.

Un libro da leggere e guardare, da completare con i propri “segni sghembi e sghiribizzi” o, al contrario, da usare come punto di partenza per inventare nuove storie, lasciandosi ispirare dalle immagini.

Munari per Rodari

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, un estratto dalla riflessione di Falcinelli, classe 1973, uno dei piú apprezzati visual designer sulla scena della grafica italiana, che ha contribuito a innovare progettando libri e collane per diversi editori. E che ha pubblicato volumi come Critica portatile al visual design (2014) e Cromorama (2017), editi entrambi da Einaudi Stile Libero. Il suo ultimo saggio è Figure – Come funzionano le immagini dal Rinascimento a Instagram.

L’incontro tra Munari e Rodari fu opera dell’intuito di Giulio Einaudi, e il primo frutto del sodalizio furono le Filastrocche in cielo e in terra pubblicate nel 1960. All’epoca Munari faceva visita alla casa editrice torinese ogni due settimane per svolgere le mansioni di consulente grafico (oggi diremmo art director): i rapporti risalivano al 1942, ai tempi di Le macchine di Munari. Rodari stava invece a Roma, e i contatti tra i due furono perlopiù di tipo epistolare o telefonico. Per questo nuovo progetto, Munari aveva carta bianca e la proposta che venne fuori fu davvero inconsueta per i tempi e per un libro per bambini: pochi tratti rapidi a matita colorata, come fossero appunti o bozzetti tracciati direttamente sulle pagine del libro. Una cosa così non si era mai vista. Bizzarra nello stile ma pure nella proposta commerciale. A questo proposito, Antonio Faeti ha raccontato che quando cominciò a proporre i libri di Rodari ai suoi alunni, si trovò di fronte alle perplessità e allo scetticismo di genitori e colleghi che criticavano non tanto i testi quanto, appunto, gli scarabocchi munariani.

Partiamo allora da qui, dalla parola “scarabocchio”. Il termine, dall’evidente sfumatura spregiativa, indica in origine una macchia di inchiostro illeggibile, simile a uno scarabeo: per esteso è un segno mal eseguito, grossolano, approssimativo, veloce. Le Filastrocche sono in effetti disseminate di segni veloci, molto lontani da quello che era l’illustrazione ufficiale rivolta all’infanzia. Ci troviamo di fronte a un doppio nodo, storico e tecnico. Partiamo dal primo.

favole al telefono rodari munari

La centralità che la cultura europea ha da sempre attribuito al testo scritto raggiunge un’acme nel xix secolo: parole e immagini vivono in mondi distinti e, riguardo alla narrativa, più un libro è serio, meno dovranno essere le figure. È la famosa lamentela di Alice di Carroll: “A che serve un libro senza figure?”. Una critica esplicita, seppur in forma di sineddoche, alla mentalità vittoriana che separa il lecito dall’illecito in ogni ambito dell’esistenza. Tuttavia, a fronte di queste rigidezze, nell’Ottocento i libri di consumo abbondano di immagini e in special modo le edizioni per ragazzi; anche perché le figure sono sempre sentite come biblia pauperum, linguaggio per i meno alfabetizzati, che siano i giovani, le donne o i ceti subalterni. E non ultimo, l’illustrazione romantica – proprio perché è alla base di un business floridissimo – è sontuosa e di qualità eccellente. Tra i tanti – giusto per fare qualche nome – Doré e Rackham inventano un mondo, un tono, un linguaggio e soprattutto uno standard.

Un modello che influenzerà decine di artisti riverberandosi per gran parte del xx secolo, spesso aggiornato con stilemi liberty e déco. Per esempio in Italia, tra gli anni Trenta e Quaranta la “Scala d’oro” – l’impresa più imponente nell’editoria per ragazzi – segue, modernizzandolo, un impianto concettuale ed estetico che è ancora ottocentesco: il libro per la gioventù deve essere ricco, di buon gusto, decoratissimo, e di conseguenza lussuoso, pure nel prezzo. Si tratta di edizioni curate nei materiali e nelle legature, perfette come regali, e che quindi devono piacere non solo ai lettori, cioè ai giovani, ma soprattutto ai veri acquirenti, cioè ai nonni e agli zii. Se guardiamo i libri per ragazzi di fine anni Cinquanta in Italia, da Mondadori a Rizzoli, da Utet ai Fratelli Fabbri, il modello estetico è sempre lo stesso: l’Ottocento romantico, impressionista o art nouveau. Di conseguenza gli illustratori, anche quando lavorano a china o al tratto, sono anzitutto pittori. Di fronte a tanto sfarzo è chiaro che gli esili tratteggi munariani risultino solo scarabocchi. Non c’è altro modo di classificarli.

Ma veniamo alla questione tecnica. Trattandosi di un’arte industriale, l’illustrazione libraria è fatta in un certo modo anche perché la stampa permette alcune cose e non altre: sul piano storico il medium più diffuso è stato per secoli la xilografia, l’incisione su legno tipica di molti testi fin dal Quattrocento; le tavole di Doré, finissime di dettagli e tratteggi, sono appunto xilografie, più sofisticate di quelle rinascimentali, ma comunque frutto della stessa prassi. C’e rano poi l’acquaforte e l’incisione a bulino, procedure con cui si ricreava su una matrice il disegno da stampare. Gli illustratori, in altre parole, sanno che tra loro e il pubblico si interpone un filtro, più o meno invasivo, che ha dei limiti e con cui bisogna fare i conti: non sono possibili le sfumature delicate, e non si ottiene sempre una perfetta messa a registro dei diversi colori. Nella seconda metà del xix secolo la cromolitografia cambia le carte in tavola, anche con l’aiuto dei nuovi mezzi fotografici che consentono di riprodurre quasi ogni cosa, inclusi i dipinti. Processi che vanno perfezionandosi sempre di più fino a quando, alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, la fotocomposizione permette di trasformare tramite processi ottici qualsiasi immagine in una matrice da stampa.

In questo modo Munari può disegnare su un comune foglio di carta, col medium che preferisce, e riportare quel segno sulla pagina stampata. Ecco perché i suoi lavori sono importanti sul piano dell’idea ma anche della tecnologia: Filastrocche in cielo e in terra poteva esser realizzato solo in un certo momento della storia della cultura e della tecnica.

Ora sia chiaro: anche a inizio Novecento si sarebbe potuto fotografare e stampare un segno eseguito a pastello, ma solo nel 1960 la tecnologia è abbastanza raffinata da risultare invisibile: sfogliando le Filastrocche ci si trova infatti di fronte a una specie di trompe-l’oeil, come se qualcuno avesse preso il libro e ci avesse scribacchiato sopra. Ecco il succo del gioco, poetico e divertente, di Munari: “Chi ha scarabocchiato sul mio libro?” potrebbe chiedersi un lettore distratto. Perché la sottigliezza della grafica einaudiana è tale che bisogna guardare da vicino per capire che sono segni stampati.

Munari insomma non illustra Rodari. Munari scarabocchia su un libro di Rodari. Un gesto iconoclasta, certo, ma pure memore dello spirito delle avanguardie: non a caso, in una intervista con Carlo Arturo Quintavalle del 1979 a proposito di Favole al telefono, Munari ammette che i suoi sono scarabocchi, simili a quelli che si fanno mentre si parla al telefono: hanno pochi riferimenti col contenuto, sono disegni “inconsci”.

Ecco: l’inconscio. Ci troviamo di fronte a un termine rivelatore, non casuale, da cui emerge un’eredità precisa, quella del surrealismo, movimento molto caro anche a Rodari e alla base della sua Fantastica, l’arte di inventare storie. Ma dentro un tale “inconscio” si sente pure la logica dell’objet trouvé, del montaggio e del collage e anche un po’ di dadaismo e di scrittura automatica, quel lasciar andare la matita sul foglio come fatto fisico, motorio, non realistico o imitativo.

filastrocche in cielo e in terra

In questo aspetto risiede la frattura più significativa col libro illustrato classico: il disegno ottocentesco è realistico perché intrattiene col visibile naturale rapporti di somiglianza di qualche tipo, secondo un’idea che viene dal Rinascimento: è la teoria del quadro-finestra di Leon Battista Alberti, l’immagine in quanto restituzione del mondo guardato. Il disegno di Munari è invece più simile alla scrittura: nella pratica, negli strumenti e nei risultati. E non è una faccenda di forme, ma riguarda il nocciolo profondo delle storie che si vogliono raccontare.

Rodari sta introducendo nella letteratura per l’infanzia temi nuovi: la guerra, la pace, l’uguaglianza, la libertà, i mestieri (anche i più prosaici) e soprattutto non più castelli incantati ma città moderne: quello di Rodari è un mondo urbanizzato, non più regno ma democrazia. Se i draghi e le fate erano consustanziali al pittoricismo romantico, questi nuovi soggetti – la folla, i semafori, le automobili (magari volanti) – trovano il loro correlativo grafico nel rapido tratteggio munariano. Anche perché i mezzi impiegati, le matite colorate, il collage o i pennarelli, sono anch’essi moderni e sono gli strumenti che si usano a scuola e non gli attrezzi professionali di una bottega di belle arti. Non è un caso che gli scarabocchi mantengano un sapore didattico: in fondo i segni di matita colorata sulla pagina scritta sono quelli che fa il maestro quando corregge i compiti, però qui non si tratta di correzioni ma del libero gioco dell’immaginazione.

Forse allora più che “didattico” sarebbe meglio dire “pedagogico”; un tono che accomuna il grafico milanese all’autore del libro e pure al suo editore. L’idea di casa editrice coltivata da Giulio Einaudi è difatti pedagogica in sé: se scorriamo il catalogo di quegli anni è chiara l’intenzione di proporre una biblioteca per gli italiani, costruita con quei libri che andrebbero davvero letti, i mattoni necessari per fare una società civile.

Le Filastrocche sono un successo e il sodalizio con Rodari continua per un decennio. Già due anni dopo, durante il lavoro per Favole al telefono, in una lettera della casa editrice indirizzata a Rodari, Munari è definito “il tuo grafico preferito”. Nei libri successivi lo stile si fa però più descrittivo: nel Libro degli errori del ’64 e poi nella Torta in cielo del ’66 i disegni sono più legati al contenuto dei testi. Guardando insieme questo decennio di attività spicca un aspetto di assoluta freschezza, quasi di improvvisazione, con cui procede la fantasia munariana: quei segni – lo abbiamo visto – sembrano fatti di vero pastello, di carta e di colla, sembra cioè di poterli toccare. Non sono soltanto figure da guardare, ma hanno una qualità tattile, perché – come l’autore ripete in più occasioni – non si progetta per l’occhio ma per tutti i sensi. “Non toccare!” dicono gli adulti, e invece quei disegni viene proprio da toccarli, per vedere se magari, strofinando il dito sulle pagine, si cancellano.

Ora è chiaro che Munari non sta fingendo che quelli nel libro siano opera di un bambino, nella loro essenzialità sono tratti sicuri, rapidi, sapienti. È lo stile di un adulto che però non vuole sedurre o impressionare il bambino, bensì ci gioca insieme: la prima cosa da fare con i bambini è sedersi per terra – dice il grafico –, mettersi al loro livello, fisicamente e metaforicamente. Se Dorè o Rackham incutevano lo stupore e l’ammirazione che si tributa ai virtuosi, Munari è il primo illustratore che suscita affetto.

(continua in libreria…)

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