In 365 giorni si accumula un immenso materiale narrativo, che racconta l’umore del paese, rivela le domande più urgenti, i desideri e le speranze di una comunità. In questo orizzonte narrativo sempre più fitto e articolato, il rischio del disorientamento è forte e una mappatura può essere utile. Nasce per questo il primo annuario Treccani dedicato all’esplorazione del paesaggio editoriale italiano e del suo immaginario – I particolari e l’editoriale di Paolo Di Paolo

In 365 giorni si accumula un immenso materiale narrativo, che racconta l’umore del paese, rivela le domande più urgenti, i desideri e le speranze di una comunità. E ancora: ogni anno vengono pubblicati in Italia circa 80.000 nuovi titoli: si tratta soprattutto di storie, raccontate in molte forme e rivolte a un pubblico sempre più segmentato. Ai libri si sommano serie tv, esperienze che nascono sui social o nei social trovano compimento. In questo orizzonte narrativo sempre più fitto e articolato, il rischio del disorientamento è forte e una mappatura può essere utile.

Parte da queste premesse il primo annuario Treccani dedicato all’esplorazione del paesaggio editoriale italiano e del suo immaginario, che punta a ripercorrere il 2023 attraverso romanzi, racconti e narrazioni: Un anno di storie – Un paese è le storie che racconta prova a rispondere a domande come: quali storie racconta oggi il paese? Quali sono i temi, le tendenze, le linee di ricerca? Che cosa indica o rappresenta il successo di un certo genere editoriale? L’insistenza su alcuni nodi della storia più o meno recente di cosa è sintomo? La vetrina dei premi letterari che cosa mette in rilievo?

Domande, risposte, dati, eventi che costellano una stagione letteraria e che questo volume collettivo cerca di ricostruire, seguendo l’evoluzione di un immaginario pubblico in continuo cambiamento. Alle analisi dei temi più rilevanti segue una cronologia dei fatti (grandi eventi, premi letterari, festival di rilievo, dibattiti, profili di autori scomparsi).

un anno di storie 2023

Tra i temi, la “fame” di storie vere, la fortuna degli pseudonimi, il cambiamento climatico per come è rappresentato (o non rappresentato) nei romanzi e nel dibattito pubblico, la temperatura emotiva di un paese che invecchia, il modo in cui cerchiamo le parole per raccontare la violenza sulle donne, gli anniversari come carburante (davvero efficace?) dell’editoria letteraria, l’exploit dei libri autopubblicati. E un affondo su ciò che raccontiamo poco o male, su aspetti della società poco evocati nella narrativa.

Tra le “firme” del volume, autori e autrici, studiosi e studiosi. A firmare i testi (alcuni inediti, altri che riprendono articoli pubblicati su testate cartacee e online nel corso degli ultimi mesi), Tamara Baris, Daria Bignardi, Angelo Carotenuto, Matteo Cavezzali, Beppe Cottafavi, Agnese Codignola, Fabio Deotto, Paolo Di Paolo, Paolo Di Stefano, Ida Dominijanni, Luca Doninelli, Arianna Farinelli, Enrica Maria Ferrara, Tommaso Giagni, Laura Imai Messina, Nicola Lagioia, Vincenzo Latronico, Loredana Lipperini, Eleonora Mazzoni, Melania G. Mazzucco, Matteo Moca, Gianfranco Pasquino, Francesco Piccolo, Bruno Pischedda, Lidia Ravera, Lara Ricci, Thea Rimini, Vanessa Roghi, Gino Roncaglia, Roberto Saviano, Gianluigi Simonetti, Marino Sinibaldi, Walter Siti e Cristina Taglietti.

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Un paese è le storie che racconta

di Paolo Di Paolo

«Mai come oggi – lo vedo da quel che accade ai libri di tutti, da quel che si legge sui giornali, oppure si sente dire da gente scontenta – c’è stata più estraneità, almeno da noi, tra il libro e la vita reale del paese. Anche se il libro riguarda proprio il paese, gettato dall’editore nella vita di questo, dopo un po’ scompare. Si ha la sensazione di essere su una nave che corre in acque sempre più ossessive per la loro uniformità di fondo; il libro è un oggetto, o sono tanti oggetti, che un ragazzo lancia dalla murata fra le onde. Le onde non lo conoscono. Al massimo lo sopportano un po’, quindi lo ingoiano».

È un’immagine vivida, romanzesca e disperata. La scrittrice Anna Maria Ortese vedeva così, all’inizio degli anni Ottanta, il rapporto fra i libri e la vita italiana. Parla di estraneità: è un termine netto, forse ingeneroso. La prospettiva di uno scrittore è più emotiva rispetto a quella di un sociologo, si fonda su umori e stati d’animo viscerali, contraddittori, talvolta perfino su un risentimento, su un’insoddisfazione di natura personale. L’impressione – a leggere queste righe quattro decenni dopo – potrebbe essere che il quadro sia ulteriormente peggiorato, e che il ragazzo che lancia «tanti oggetti» fra le onde ne stia lanciando una quantità esuberante. E che quel mare sia costretto a inghiottire con più rapidità, con meno clemenza. Ma leggere il presente mentre accade porta a conclusioni fallaci: bisogna semmai tradurre ogni sentenza in una domanda.

Per esempio, questa: che rapporto c’è tra i libri e la vita del paese? Come la vita di una comunità nazionale è toccata (o non toccata) dalla produzione editoriale? Come nella produzione editoriale – e più specificamente narrativa – si riflettono gli umori e i malumori, i desideri, le speranze di quella comunità? È una relazione che istituiamo, nel discorso pubblico, assai di rado. C’è un margine di fraintendimento altissimo: si può essere portati a dedurre, da un libro in cima alle classifiche di vendita, parametri sociologici ingannevoli e fuori asse. Tuttavia, per vie spesso contorte, opache, qualcosa dell’“umore della nazione” finisce per rivelarsi dai libri che si scrivono e si pubblicano. Quelle che chiamiamo tendenze – linee di ricerca che si ispessiscono, orizzonti narrativi frequentati con intensità fino a diventare ovvi – ci dicono qualcosa delle domande (e perciò delle ansie, delle preoccupazioni) più ricorrenti.

Perché raccontiamo soprattutto “storie vere”? Perché il trauma – fisico e psichico – è così marcato nei romanzi delle ultime stagioni? Le risposte non sono e non possono essere univoche. Ma limitarsi a registrare i fenomeni – un’imprevista passione per libri legati al mondo giapponese, l’exploit dei volumi sul fascismo, la fortuna della divulgazione scientifica o più in generale delle “storie di scienza” – è poco: più avventuroso è provare a interpretare, tentare di leggere in questa galassia qualche segno. Le linee di un paesaggio, frastagliato, segmentato in aree di interesse sempre più circoscritte e meno comunicanti fra loro. Gli appassionati del romance non è detto che incontrino i lettori del libro autoprodotto da un generale preoccupato dal mondo che cambia. E così i cultori di “giapponeserie” nemmeno sfiorano chi decreta il successo anche italiano di Emmanuel Carrère. O forse invece sì?

Come l’analista politico monitora le oscillazioni dell’elettorato, come dovesse misurargli la febbre, così si può prendere la temperatura del “lettorato”, altrettanto volubile e imprevedibile. E proiettarne le preferenze e le scelte su un fondale più largo – un anno di storie, appunto. C’è un immenso materiale narrativo che si accumula in 365 giorni: la porzione che ci raggiunge nel formato di un libro è minima rispetto a ciò che resta non narrato, o non fino in fondo.

Nelle pagine che seguono, se ne offre una campionatura. Ma più in generale si prova a rimettere in relazione libri e «vita reale del Paese», per riprendere le parole di Ortese. Non sarebbe d’altra parte incongruo ripensare a stagioni, più o meno remote, di grandi speranze collettive o di turbolenza politica verificando come certi romanzi abbiano funzionato da specchi – rivelatori, deformanti, ustori; da scintille per un vasto dibattito (La Storia di Elsa Morante nel 1974!), da slogan involontari e validi per un decennio (L’insostenibile leggerezza dell’essere, 1984; Va’ dove ti porta il cuore, 1994). Non basta: il nodo misterioso che tiene insieme privato e pubblico, vita intima e vita della collettività spesso è sbrogliato – o, viceversa, stretto con più forza – dai narratori. Non è facile leggere il presente mentre accade. Né è scontato che la finestra da cui un narratore o una narratrice si affacciano abbia vetri chiari. Magari sono opachi, appannati; tuttavia consentono – perfino tradendo la realtà – di aumentarla. Non è un imbroglio: questa “realtà aumentata” può rivelarci molto, scaldare per una via emotiva il rigore documentario o una fredda sequenza di eventi, spingerci a interpretare l’attualità da angolazioni insolite, da dove meglio si connettono o riconnettono l’io e il noi. Dal punto in cui, con nitore imprevisto, si intuisce come il collettivo sia una dimensione del personale.

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