In occasione dell’uscita della raccolta di racconti “La fatalità del male”, la riflessione di Bruno Nacci. Che cita Nietzsche: “Chi lotta con i mostri deve guardarsi da non diventare, così facendo, un mostro”

Serie televisive, thriller, film horror, e anche molti romanzi, mettono in scena quotidianamente una galleria di perversioni in cui allo spettatore non viene risparmiato niente. Serial killer e psicopatici di ogni genere affollano l’immaginario collettivo con tutto il repertorio di corpi fatti a pezzi espressione di una macelleria visionaria.

Come se un invisibile fochista fosse incaricato di alimentare senza tregua i prodotti dello svago comune con personaggi crudeli che si muovono dentro storie che sono un pretesto per le efferatezze più scellerate. Superfluo chiedersi perché. Al posto dei racconti edificanti delle vite dei santi di Iacopo da Varazze o dei Fioretti di san Francesco, delle luminose vetrate istoriate delle cattedrali gotiche che esortano alla virtù, interminabili inseguimenti e indagini guidati da investigatori ed eroi che si gettano sulle tracce insanguinate del crimine.

Sarebbe facile, ingiusto e inconcludente rimpiangere il passato e deprecare i tempi presenti. Ciò su cui vorrei invece riflettere è quella che sembra essere una caratteristica comune alla produzione di molta fiction contemporanea. Un modo ipocrita, apparentemente innocuo, per giustificare tante scene feroci, un alibi con cui l’happy end del trionfo della giustizia o la fine ingloriosa e spesso sadica del cattivo si compiono secondo lo scontato contrappasso della vendetta. Questa specie di visione allucinata e apocalittica del male a un primo sguardo potrebbe essere ricondotta al vecchio tema della catarsi: assistere alla rappresentazione del male ci libera da istinti presenti e in agguato in tutti noi. Se non che, l’ossessiva replica di questi schemi suggerisce un altro tipo di lettura e ci fa riflettere sulla tendenza della fiction a invadere anche i campi limitrofi della storia e dei sentimenti collettivi che accompagnano gli eventi storici.

La distinzione tra bene e male, di per sé imprescindibile, anche e soprattutto per chi la nega, guida certamente la nostra percezione della realtà. Ma, ecco il punto, spesso nella coscienza comune questa distinzione tende a tramutarsi in qualcosa di più ambiguo e inquietante: chi viene percepito come malvagio, nella finzione letteraria e cinematografica come nella storia reale, non solo appare spesso come soggetto di azioni deprecabili e dalle conseguenze terribili per l’umanità, ma diventa per ciò stesso un mostro. E in fondo, la consolazione dello spettatore e lettore consiste proprio in questo: il mostro non appartiene all’umanità, è una presenza terrificante come gli zombie o il demonio, da cui ci si deve guardare e che, in ogni caso, va quanto prima eliminata, distrutta.

Ma cos’è un mostro? In un saggio illuminante, L’effetto Lucifero, Philip Zimbardo osserva che il carattere principale del mostro è il fatto che non riconosce in quelli che dovrebbero essere i suoi simili quei tratti di umanità che attribuisce invece a se stesso. Il mostro tratta gli altri uomini come cose o animali di cui disporre a piacere. Proprio per questo però, quando definiamo mostro qualcuno, senza accorgerci, ci comportiamo con lui come lui si comporta con gli altri! Lo escludiamo dall’umanità, ottenendo il duplice risultato di sentirci innocenti e di espellere il male estremo in una zona tenebrosa che niente ha a che fare con la storia comune, con la vita di ciascuno di noi. I personaggi di Destini si sono resi responsabili nella storia di gravi colpe, e nessuno li vuole o può assolvere. Ma osservati più da vicino, quando non erano ancora ciò che purtroppo sono diventati, o non lo erano più, in altre parole quando erano uomini comuni, colti nel limbo dell’anonimato, le loro vite non appaiono diverse dalle nostre, come suggerisce l’antico detto di Terenzio: Sono un uomo, niente di ciò che appartiene all’umano mi è estraneo.

Abolire la barriera che li confina nel cerchio dannato dei non uomini, può farci riflettere, su loro e su di noi. Il Natale cristiano segna una linea di continuità con il pensiero più alto, da Socrate a Spinoza, e ammonisce con grande saggezza e prudenza a non giudicare, nel senso di presumere una superiorità che solo le circostanze possono confermare o smentire, circostanze che non conosciamo mai del tutto. Ognuno corre dunque il rischio mortale di diventare ciò che denuncia e respinge con più veemenza. Forse anche per questo il male esercita un fascino sinistro, credendoci al sicuro possiamo vedere all’opera i fantasmi che popolano i nostri incubi. Ma il dilagare di questi sentimenti genera una coscienza collettiva disposta al linciaggio morale, senza alcuna pietas, che non significa certo accondiscendere al male, ma capirlo, sorprenderlo nel suo nascere ben radicato nella storia, non qualcosa di estraneo e impensabile. Ha scritto Nietzsche: “Chi lotta con i mostri deve guardarsi da non diventare, così facendo, un mostro”.

Bruno Nacci Destini La fatalità del male

L’AUTORE – Bruno Nacci ha curato classici della letteratura francese, si è occupato di Blaise Pascal, di cui ha scritto il saggio biografico La quarta vigilia. Gli ultimi anni di Blaise Pascal (La Scuola di Pitagora 2014). Ha scritto il noir L’assassinio della Signora di Praslin (Archinto 2000), cronaca di un fatto di sangue dell’Ottocento. Con Laura Bosio ha scritto i romanzi storici Per seguire la mia stella (Guanda 2017) e La casa degli uccelli (Guanda 2020). Ha pubblicato le raccolte di racconti La vita a pezzi (Solfanelli 2018) e Dopo l’innocenza (Solfanelli 2019), tranches de vie di inquiete solitudini urbane.

Per Edizioni Ares arriva ora in libreria La fatalità del male: nella riproduzione in copertina di un particolare della Presentazione al Tempio di Giovanni Bellini, i due volti guardano in direzioni opposte e pare di cogliere sulle loro labbra l’ombra di un sarcasmo, il sentimento recondito di qualcosa di negativo che, nel momento solenne della presentazione di Gesù, incombe o è già accaduto. In questi racconti vengono descritti cinque protagonisti, colti prima o dopo il periodo in cui sono stati al vertice del potere, dunque all’inizio o alla fine della metamorfosi che li ha portati a indossare una maschera infernale. Pol Pot, il tiranno cambogiano, è la mite mascotte di un gruppo di studenti a Parigi; Loan, capo della polizia del Vietnam del sud, diventa l’anonimo proprietario di un ristorante in Virginia; Albert Speer, delfino di Hitler, passa il tempo sognando di viaggiare nel cortile del carcere di Spandau; il giovane Hitler è ospite nel ricovero viennese per senzatetto e disegna cartoline; Seneca, in punto di morte, confessa in alcune lettere i suoi tormenti e segreti. Non sono ancora o non sono più dei mostri, sono uomini comuni sulla frontiera del male.

 

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