Non più di tre, per John Keats, erano “le cose di cui godere”: una di queste era “la profondità del gusto” del saggistica e critico inglese William Hazlitt

Non più di tre, per John Keats, erano “le cose di cui godere”: una di queste era “la profondità del gusto” di William Hazlitt (scrittore e critico inglese, amico di Stendhal e dei maggiori poeti del suo tempo). Diretto, paradossale, provocatorio: così appare Hazlitt (1778-1830) nel suo saggio sull’ignoranza delle persone colte pubblicato da Fazi, un gioiellino nell’arte dell’essay, del componimento in prosa, cioè, discorsivo, di argomento filosofico, morale, letterario o legato all’esperienza quotidiana, il cui modello riconosciuto e tuttora inarrivabile è Montaigne.

Su IlLibraio.it un estratto da L’ignoranza delle persone colte di William Hazlitt (pp. 110, euro 14,50, traduzione di Fabio De Propris)
(pubblicato per gentile concessione di Fazi)

Le persone che hanno meno idee di tutti sono gli scrittori e i lettori. È meglio non sapere né leggere né scrivere che non saper fare altro che questo. Quando si vede un fannullone con un libro in mano, si può essere quasi certi che si tratta di una persona senza né forza né voglia di stare attenta a ciò che le accade intorno, o dentro la testa. Di un tale individuo si può dire che porta il suo giudizio ovunque con sé, in tasca, o che lo lascia a casa, sullo scaffale dei libri. Ha paura di avventurarsi in qualunque ragionamento o di fare una qualsiasi osservazione per proprio conto che non gli venga suggerita passando meccanicamente lo sguardo su alcuni caratteri leggibili; si ritrae dalla fatica di pensare, che per mancanza d’esercizio gli è diventata insopportabile; e si accontenta di un continuo, noioso succedersi di parole e d’immagini abbozzate, che gli riempiono il vuoto della mente. L’istruzione troppe volte è in contrasto col senso comune; un surrogato del vero sapere. I libri vengono usati meno come “occhiali” per guardare la natura che come imposte per tenerne lontana la forte luce e la scena mutevole da occhi deboli e temperamenti apatici.

Il divoratore di libri si avvolge nella sua rete di astrazioni verbali e vede solo la pallida ombra delle cose riflessa dalla mente altrui. La natura lo sconcerta. La visione degli oggetti reali, spogliati del travestimento delle parole e delle lunghe circonlocuzioni descrittive, è un colpo che lo fa vacillare, e la loro varietà lo turba, la loro rapidità lo fa smarrire. Si ritrae dalla confusione, dal chiasso e dal turbinoso movimento del mondo intorno a sé (non avendo né l’occhio adatto a seguirlo nei suoi capricciosi mutamenti né un’intelligenza che sappia ricondurlo a principi fissi), per tornare alla quieta monotonia delle lingue morte e alle meno sconcertanti e più intelligibili combinazioni delle lettere dell’alfabeto. Così va bene, va proprio bene. «Lasciatemi al mio riposo» è il motto dei dormienti e dei morti. Chiedere al paralitico di saltare dalla sua sedia e buttar via la gruccia, o, senza un miracolo, di «prendere il suo letto e camminare», è come aspettarsi dal lettore colto che posi il suo libro e pensi da sé. Ci resta attaccato per avere un sostegno intellettuale, e la paura di esser lasciato solo con se stesso è come il terrore che incute il vuoto. Riesce a respirare solo un’atmosfera colta, così come gli altri uomini respirano aria comune. È uno che chiede la saggezza in prestito dagli altri. Non ha idee proprie e deve quindi vivere di quelle altrui. L’abitudine di rifornirci di idee da sorgenti non nostre «indebolisce ogni forza di pensiero interiore», proprio come l’abuso di liquori distrugge il tono dello stomaco. Le facoltà della mente, se non vengono esercitate, o se vengono paralizzate dalla continua lettura di testi autorevoli, diventano svogliate, torpide e disadatte agli scopi del pensiero e dell’azione. Possono meravigliarci allora la stanchezza e il languore prodotti da una vita di istruzione indolente e ignorante, passata con gli occhi fissi su frasi e sillabe che riescono a suscitare idee o interesse poco più che se fossero scritte in qualche lingua sconosciuta, finché il sonno non chiude gli occhi e il libro cade dalle mani indebolite? Preferirei essere un tagliaboschi o il più misero garzone di fattoria, che tutto il giorno «suda sotto l’occhio di Febo e la notte dorme nell’Eliso», piuttosto che consumare la mia vita così, fra il sonno e la veglia. La differenza fra lo scrittore istruito e lo studente istruito consiste in questo, che il primo trascrive ciò che il secondo legge. Il dotto non è che uno schiavo letterario. Se lo mettete a scrivere una composizione propria gli gira la testa e non sa più dov’è. Gli infaticabili lettori di libri sono come gli eterni copisti di quadri che, quando provano a dipingere qualcosa di originale, trovano che manca loro l’occhio veloce, la mano sicura e i colori brillanti, e perciò non riescono a riprodurre le forme viventi della natura.

Hazlitt

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