Si è molto parlato dei voti degli studenti del Sud, mediamente più alti rispetto a quelli del Nord. Su ilLibraio.it ospitiamo la lettera di un ricercatore pugliese, da anni in Svizzera, che ammette il problema e si interroga sulle conseguenze: “Quale messaggio stiamo lasciando alle donne e gli uomini del domani? Vogliamo forse che pensino che nella vita si possano ottenere risultati facilmente e senza troppo sforzo?”

Ok, diciamolo subito. Sono del sud. Sì, proprio così, terrone. Nato, cresciuto ed educato al sud. In Puglia precisamente. Uno di quei terroni che partono con le salsicce nella valigia, e che aspettano frementi “il pacco” da casa. Quante feste con i colleghi dell’università e quei pacchi. Al dottorato ho smesso, così, di botto. E non ne parliamo ora che sono all’estero.

Ora guardo ai miei studenti, molti italiani, tutti del nord. Partiti verso quello che c’è a nord del nord. A loro i pacchi non arrivano, chissà perché.

Una cosa invece mi è sempre stata chiara di quelli del nord: ne sapevano cronicamente più di me. Al primo anno dell’università mi resi inevitabilmente conto del divario con la loro preparazione, in matematica, filosofia, ma soprattutto in fisica. Il primo anno di università, a Fisica, è stato duro per me. Mi sono ritrovato a dover recuperare una serie di lacune croniche che i miei colleghi non avevano. Parliamoci chiaro, io sono uno di quelli che prese 100/100 (allora la lode non esisteva) e lo voglio dire qui nel modo più chiaro possibile: per me il liceo è stato una passeggiata. Non studiavo mai, praticamente.

Tuttavia, dentro di me sapevo che all’università non sarebbe più stato così. All’università non si scherzava. Ma ciò che subito mi colpì fu il fatto che nemmeno al famoso liceo Ulisse Dini di Pisa si scherzava. Affatto.

E ora permettetemi di entrare nel merito della questione: i voti di maturità “gonfiati” al sud. Recentemente ho letto qualcosa riguardo questo presunto divario di voti attraverso i miei contatti su Facebook. Come di consueto sono andato ad approfondire la questione (un bel riassunto lo trovate in questo articolo di Marco Bollettino). Ciò che ne è emerso è che, aldilà di ogni polemica, di ogni razzismo, di ogni campanilismo, regionalismo, populismo, personalismo, e, soprattutto, aldilà di ogni ragionevole dubbio, è palese che, al sud, il numero di 100 e 100 e lode sia molto maggiore rispetto al nord. Allo stesso tempo, quando confrontati con test oggettivi a livello nazionale come OCSE-PISA o Invalsi, gli studenti del sud ottengono consistentemente risultati peggiori rispetto ai loro colleghi del nord.

Ora, si potrebbero stendere interi trattati in materia per disquisire su quali siano le cause o, perfino, sul senso stesso dei voti e dell’Esame di Stato.

Nel frattempo, però, credo sia molto importante che le autorità in materia si occupino al più presto di questa questione. Non si può certamente scaricare tutta la responsabilità sui singoli professori. Il problema, infatti, è troppo generalizzato perché si possa trattare di un pugno di professori “dalla manica larga”.
E attenzione! In questo caso la generalizzazione non la fa l’ideologia, la fanno i dati. E i dati parlano chiaro. Questo “problema” è ormai endemico al sud.

La domanda da porsi è: quali sono le conseguenze di questa situazione? Per quanto mi riguarda gli spunti di riflessione sono due:

Il primo è nozionistico. Molto semplicemente, se gli studenti possono raggiungere voti eccellenti studiando meno, conosceranno meno cose dei loro equivalenti al nord. Questo è infatti ciò che dimostrano i dati sui testi OCSE-PISA/Invalsi. La conseguenza diretta di questo problema è quello di arrivare all’università con lacune che possono essere anche importanti (come nel mio caso quelle in Fisica). Questo tipo di problema può pero essere affrontato dai singoli studenti semplicemente studiando di più per recuperare le lacune iniziali.

E’ invece la seconda questione a preoccuparmi di più, e riguarda il messaggio educativo della scuola. E cioè l’idea che si stiano sfornando generazioni di giovani ai quali viene insegnato che si può raggiungere l’eccellenza senza particolare impegno. E, permettetemi un ulteriore passo logico, dai dati OCSE-PISA e Invalsi si può indurre che la stessa situazione si presenti anche per i voti più bassi.

Questa prospettiva è particolarmente preoccupante se si considera l’attuale contesto internazionale. Nel mondo moderno, le sfide tecnologiche e culturali, a cominciare dall’integrazione con altre culture, fanno sì che la società sia molto più complessa rispetto a quella di 30 o 40 anni fa, e che richieda, semmai un grado di conoscenze e cultura ancora maggiore per poter affrontare anche le più semplici sfide di un modo globalizzato.

Mi chiedo dunque quale sia il messaggio che stiamo lasciando alle donne e gli uomini del domani: vogliamo forse che pensino che nella vita si possano ottenere risultati facilmente e senza troppo sforzo? Che la soluzione dei problemi sia sempre quella più semplice? Penso che bisognerebbe partire da questa considerazione per affrontare la questione, o per ripensare interamente al concetto di scuola. Che, ripeto, aldilà delle nozioni, deve essere centrato, anche e soprattutto, sul ruolo educativo della scuola.

La scuola deve quindi pensare oltre l’obiettivo di fornire nozioni e concentrarsi sulla formazione degli europei che affronteranno le sfide di domani; d’altra parte, come diceva sempre la mia odiata professoressa di latino: “Gli studenti non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere”. Grazie professoressa, io non l’ho dimenticato.

L’AUTORE DELL’INTERVENTO – Marco Capogrosso è nato e cresciuto Manduria, in provincia di Taranto. Dopo aver conseguito la laurea magistrale in Fisica Applicata all’università di Pisa, ha ottenuto il diploma di dottorato di ricerca presso l’istituto di Biorobotica della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, con una tesi sui metodi teorici per la progettazione di tecnologie di neuromodulazione elettrica del sistema nervoso. Ha lavorato con il professor Silvestro Micera alla progettazione e implementazione di protesi robotiche di mano. Si è poi spostato all’Ecole Polytechnique Federale de Lausanne, in Svizzera, dove, lavorando con il professor Gregoire Courtine, si è specializzato nella stimolazione elettrica del midollo spinale per il recupero del cammino in soggetti paralizzati. Attualmente è ricercatore in neuroscienze all’università di Friburgo, sempre in Svizzera, dove lavora con il suo gruppo, sul controllo motorio degli arti superiori per la ricerca di soluzioni tecnologiche per la cura delle lesioni cervicali del midollo spinale.


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