William Trevor, maestro del racconto del secondo Novecento, è morto a 88 anni. Scrivere storie brevi per lui era una scelta. Il commento di Luigi Brioschi (Guanda): “Ha dato vita a personaggi tanto umani da essere indimenticabili”
E’ morto a 88 anni, William Trevor, maestro del racconto. Trevor era un intagliatore di legno. Prendeva la materia grezza, la natura selvaggia e piano piano ne scartava l’eccesso, ne modellava la forma, ne estraeva la sostanza. Ne tirava fuori l’anima, il necessario, la verità. Trasformava il legno in un’opera d’arte.
In un certo senso, Trevor ha fatto per tutta la vita l’intagliatore. Anche quando ha smesso di soffrire la fame ed è passato dal comporre slogan pubblicitari a raccontare storie. Creava “vite ordinarie, comuni, emarginate da cui faceva emergere lentamente le ricchezze interiori” ricorda su Repubblica Luigi Brioschi, presidente di Guanda, la casa editrice che ha pubblicato la gran parte dei suoi libri in italiano; in uno stile “terso, essenziale, un minimalista naturale, discreto” ha dato vita a personaggi tanto umani da essere indimenticabili.
C’è che lo ha descritto come erede di Gogol’ per la naturalezza con cui scriveva racconti, ma la verità è che per Trevor lo scrivere storie brevi non era un vezzo, era una scelta. Di scrivere romanzi ne era capace – ne scrive quindici, da cui sono stati tratti anche dei film – ma la short story, di cui è considerato uno dei maestri, gli permetteva di parlare di quelle figure vulnerabili, minori, sole di fronte agli ostacoli che erano di gran lunga i suoi personaggi preferiti.
Nel secondo Novecento il racconto era considerato un’arte minore. Nulla a che vedere con il romanzo d’ampio respiro, più completo, più ricco, più definitivo. Ma la verità è che Trevor amava usare il racconto perché si limita al minimo indispensabile. Il racconto – quello scritto da Trevor, per lo meno – raccoglie una piega, un momento, una singola atmosfera e la rende, semplicemente. Come fosse quella l’unica storia importante. Mette in luce un aspetto dell’esistenza troppo fragile per essere notato, altrimenti, nel correre distratto del mondo. Sono le persone comuni i non-eroi del racconto, con le loro paure, le loro solitudini. Tutte le loro perplessità da vita quotidiana – le stesse che tormentano i sonni di ogni lettore.
Come i personaggi di Uomini d’Irlanda, quella sua Irlanda fatta di gente comune che Trevor ha lasciato giovanissimo, nel 1950, per trasferirsi in Inghilterra. Oppure Leggendo Turgenev o Peccati di famiglia. Esistenze ordinarie dietro cui nascondersi, dentro cui immedesimarsi. Per raccontare tutto, fino al più piccolo aspetto dell’umano; ma a piccole dosi, a singoli assaggi: perché ogni boccone esprima al meglio la sua peculiare nota di sapore.