Il saggio “Giardinosofia” di Santiago Beruete analizzala storia del pensiero umano in relazione alle tante e diversissime espressioni dell’architettura verde… – Su ilLibraio.it l’introduzione

Il saggio Giardinosofia di Santiago Beruete, pubblicato dalla casa editrice Ponte alle Grazie, è un trattato sulle filosofie che hanno preso forma nei giardini. Non è solo una disamina di come il pensiero umano ha percorso e dato vita alle tante e diversissime espressioni dell’architettura verde, ma di come e quanto l’idea di giardino abbia a sua volta influenzato la storia del pensiero.

Il giardino è sempre stato uno specchio dell’umanità. Di volta in volta l’architettura del verde ha incarnato ideali, vagheggiato utopie, soddisfatto desideri e affrontato paure. Nei giardini l’uomo non ha trovato solo un ambito privilegiato per riflettere, ma anche un interlocutore capace di lanciargli sfide e spalancargli opportunità: la natura, mistero da esplorare e allo stesso tempo fonte di piacere; ora materia da plasmare, ora maestra e fonte di ispirazione.

Da Oriente a Occidente, dai tempi più remoti fino all’attualità dei nostri giorni, la natura ha parlato ai filosofi, ai poeti, agli artisti, a tutta l’umanità attraverso l’opera dei giardinieri, portatori di un messaggio che affonda le radici nella nostra più autentica, intima essenza.

Su ilLibraio.it per gentile concessione della casa editrice, proponiamo l’introduzione:

NARRATIVE DELL’UTOPIA, POETICHE DEL GIARDINO
UN LUOGO PER IL VIVERE BENE

Nel corso di quest’opera cercheremo di dimostrare che i giardini sono sia una costruzione materiale, sia una creazione intellettuale. Come scrisse William Chambers, «i giardinieri non sono solo botanici, sono anche pittori e filosofi». Se ci si riflette attentamente, ogni giardino esprime una teoria estetica della bellezza e una visione etica della felicità. Molti giardini, infatti, sembrano rappresentare un simbolo dell’armonia e una metafora del viver bene, oltre che un’immagine del mondo (imago mundi) e un’opera d’arte vivente. Yi-Fu Tuan l’ha spiegato così:

Nel mondo occidentale il viver bene viene concepito, storicamente, a partire da un numero limitato di forme. Una di esse è l’ambientalismo, che intende il viver bene come una conseguenza di un particolare tipo di contesto fisico. La natura è uno dei contesti in cui, in teoria, si promuoverebbe questo tipo di vita. I parchi di divertimenti, una versione umanizzata della natura, ne sarebbero un altro esempio. All’estremo opposto rispetto alla natura inviolata si troverebbe l’orgoglioso ambiente artificiale: la casa, la strada o la piazza della città. L’idea che uno spazio architettonico possa, in un certo senso, generare il viver bene, è caratteristica dei tempi moderni, vale a dire del xix e xx secolo.

Il punto di partenza di questo lavoro è il concetto che i giardini esprimono meglio di altre manifestazioni culturali le inquietudini filosofiche di ciascuna epoca. E non soltanto perché le idee trovano facile traduzione nel linguaggio del giardino, ma anche perché, fin dall’antichità, i giardini hanno ispirato e accolto i pensatori: ricordiamo l’Akademos platonico, il Liceo aristotelico, il giardino di Epicuro, il ginnasio di Cinosarge, ma anche Shaftesbury, Rousseau, Kant e tanti altri uomini di lettere che hanno riflettuto nei e sui giardini. Si può affermare che il giardino è sia una cornice privilegiata per la pratica filosofica, sia un veicolo di diffusione di pensieri e saperi. E in questo senso è anche un documento della particolarità di una cultura e di un luogo, sebbene da Walter Benjamin sappiamo che ogni documento di cultura lo è anche di barbarie. Questo aspetto andrebbe sottolineato, perché i giardini hanno rappresentato e rappresentano un importante simbolo del potere politico (Versailles, Kew Gardens, ecc.) e dello status sociale dei rispettivi proprietari, nonché del dominio e della violenza che l’uomo esercita sulla natura.

Sir Francis Bacon scrisse che il giardinaggio è il più puro degli umani piaceri («the purest of human pleasure»). In questo senso esprime un elevato grado di raffinatezza culturale, elevato quanto quello della filosofia stessa. In sostanza, i giardini danno forma e visibilità agli ideali di perfezione latenti in una società e materializzano la loro immagine del viver bene. Nel suo libro A Philosophy of Gardens (2006), David E. Cooper scrive:

I giardini contribuiscono alla vita felice, sostenevo, essendo «accoglienti» verso determinate attività che «inducono» virtù, nel senso che queste virtù sono «interne» a tali attività quando queste sono svolte con la giusta comprensione.

Ecco il tema fondamentale e il nocciolo della questione: perché nel corso della storia gli esseri umani hanno sentito la necessità di costruire giardini? Ci sono molte possibili risposte a questa domanda, che è alla base della nostra ricerca, ma la più semplice è che creiamo giardini perché ci infondono benessere. Il fatto che gli esseri umani si sforzino di trasformare un pezzo di terra in un eden mette in evidenza la loro necessità di pace, serenità, equilibrio, oppressi come sono dalla contraddizione permanente tra il proprio destino mortale e la vocazione all’eternità, tra il desiderio di ordine e il timore del caos, tra il potere della ragione e il disordine degli istinti. Questo è il loro proposito, la loro ragion d’essere: armonizzare arte e natura creando bellezza, che è promessa di felicità. Proprio come l’eudaimonia (εὐδαιµονία) era, per Aristotele, gli stoici e altre scuole filosofiche, inscindibile dalla pratica dell’areté, la virtù, allo stesso modo l’esercizio del giardinaggio richiede pazienza, perseveranza, umiltà, speranza e un vasto repertorio di virtù specifiche. Un giardino esige costanza pur essendo in perenne cambiamento. Forse ciò spiega perché, come segnalò il poeta culterano del Siglo de Oro Francisco de Trillo y Figueroa, all’interno dei confini del giardino rientri tutto lo spazio del mondo.

Molti dei piaceri fisici e dei benefici psicologici offerti da un giardino – serenità, libertà, riposo, innocenza – costituiscono gli ingredienti essenziali del viver bene. Qualunque sia questa ricetta, c’è una corrente sotterranea che unisce la felicità ai giardini dagli inizi della civiltà (Paradiso Terrestre, Eden, Campi Elisi, Giardino delle Delizie…) e che li trasforma in isole di perfezione. L’utopia si respira in tutti i giardini del pianeta. E il fatto che, come osserva Karel Čapek, i giardinieri vivano per il futuro rafforza quest’idea. Senza correre il rischio di esagerare, potremmo affermare che il giardino è a tutti gli effetti uno spazio utopico. Se, come suggerisce Northrop Frye, il pensiero utopico è meno interessato a raggiungere fini che a visualizzare possibilità, il giardino, in verità, permette di intuire, intravedere e apprezzare ciò che potrebbe essere ma che ancora non è, nonché ciò che avrebbe potuto essere. E contribuisce a mantenere viva la promessa di un futuro migliore, che paradossalmente a volte si trasforma nell’aspirazione di un ritorno all’Arcadia dove, come scrisse Arthur Schopenhauer parafrasando a sua volta Friedrich Schiller, noi tutti siamo nati. I giardini ci parlano della nostalgia di ciò che è stato e di ciò che mai potrà essere. La passione per la costruzione di giardini è alimentata sia dall’ansia di evasione dalla realtà che dall’aspirazione di ritorno alla natura. In questa festa dell’effimero, per usare l’espressione di Michel Baridon, la nostalgia del paradiso si confonde con il sogno utopico di un mondo migliore, e il tentativo di forzare la natura compete con l’aspirazione di redimerla.

L’esperienza del giardino possiede non soltanto una dimensione etica ed estetica, ma anche politica, inscindibile dalle precedenti. Le abitudini e i valori coltivati – si perdoni la ridondanza – dal giardinaggio potrebbero benissimo guidare la ricerca del bene comune e migliorare la convivenza sociale. Oltre a essere una scuola di rettitudine morale e uno scenario per il viver bene e per la salute privata e pubblica, il giardino è giunto a essere, nella nostra epoca, anche uno spazio di resistenza e protesta sociale, di solidarietà e ribellione contro l’egemonia del neoliberismo e del neocapitalismo rampanti, ed è diventato un oggetto di rivendicazione politica e di lotta per i diritti dei cittadini e la sostenibilità ambientale. Il fenomeno degli orti e dei giardini comunitari, che proliferano nelle città del mondo occidentale, illustra alla perfezione i rapporti esistenti tra il giardinaggio e l’attivismo politico. Ne esistono attualmente più di seimila solo nella città di New York, dove si sono trasformati in spazi di socializzazione e integrazione intergenerazionale, in fonti di solidarietà, coesione sociale e mobilitazione cittadina, e in catalizzatori del cambiamento sociale. Oltre a essere un modo per produrre alimenti salutari e una forma per abbellire i luoghi pubblici e migliorare le condizioni ambientali dei quartieri, i giardini comunitari costituiscono una formula alternativa ed efficace di promozione dell’identità e del lavoro di gruppo, di prevenzione dell’emarginazione e dell’esclusione sociale e di riduzione della criminalità. Nelle parole di Karen Schmelzkopf, i giardini comunitari sono tra le realtà locali più partecipative.

La Green Guerrilla, nata a Manhattan all’inizio degli anni ’70, è stata la prima associazione senza scopi di lucro a rivendicare i giardini comunitari come strumento politico al servizio della rigenerazione di aree urbane degradate e mezzo per promuovere il coinvolgimento delle comunità di quartiere nella soluzione dei loro problemi. Nel suo sito web questa organizzazione pioniera, che è servita da modello a molti altri gruppi di giardinieri volontari e militanti di tutto il mondo, definisce così i suoi obiettivi:

Green Guerrillas utilizza un metodo unico di istruzione, organizzazione e promozione allo scopo di aiutare le persone a creare i giardini comunitari, sostenere gruppi di base, coltivare cibo, coinvolgere giovani e affrontare aspetti critici sul futuro dei loro giardini.

La Green Guerrilla ha partecipato attivamente alle proteste contro le politiche neoliberiste portate avanti dall’amministrazione del sindaco Rudy Giuliani a New York tra il 1999 e il 2000 e contro il suo aggressivo e ambizioso piano per privatizzare e mettere all’asta i terreni in cui erano stati creati svariati giardini comunitari. Una delle azioni più eclatanti e radicali per portare la natura, sebbene in modo surrettizio, nei terreni abbandonati, sui lotti non edificati e i terrains vagues, per usare l’espressione francese messa in circolazione dall’architetto e filosofo catalano Ignasi de Solà-Morales, è consistita nel gettare seedbombs, sorta di granate ecologiche costruite con materiali riciclati e contenenti semi, compost e fertilizzanti per facilitarne l’attecchimento e la germinazione. Questi ingegnosi dispositivi, perfezionati nel tempo, vengono venduti attualmente su Internet in ecostore virtuali. Così recitano le istruzioni per l’utilizzo delle cosiddette bombe di semi in un sito web del Regno Unito:

Unisci le forze con la natura e provoca un impatto visibile lanciando bombe di semi in terreni abbandonati, spazi trascurati o perfino nel giardino dei vicini, e vedrai come crescono.

Dopo questa breve dichiarazione di principi e intenti, non resta che voltare la pagina, uscire in giardino e addentrarci in noi stessi.

(Continua in libreria…)

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