I giardini sono al contempo luogo di azione e di riflessione. E quelli raccontati nelle pagine degli scrittori non sono certo da meno. In “Giardini di carta” sono raccolte tante descrizioni d’autore: da Proust a Gide, da Sartre a George Sand… – Su ilLibraio.it alcuni estratti

Glicine, rosa, caprifoglio, menta, timo, fragole: il giardino è un mondo di rumori, odori, un concentrato di vita. In Giardini di carta, dell’autrice Évelyne Bloch-Dano, in libreria per add editore, ne esploriamo le origini e la diversità e scopriamo che i giardini sono il riflesso delle società e degli individui, e che ogni giardino ci dà informazioni sui sogni, sull’ideale di felicità di chi lo crea e lo descrive, è uno specchio della cultura che lo ha prodotto.

Reali, ornamentali o urbani, familiari, botanici, i giardini sono al contempo luogo di azione e di riflessione. E i giardini degli scrittori non sono da meno. L’autrice ci accompagna tra le pagine di Rousseau, George Sand, Stendhal e Flaubert, Balzac, Hugo e Zola, Proust, Gide, Colette, Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre, Marguerite Duras, Modiano e Christian Bobin. Alcuni sono stati veri giardinieri, altri non hanno avuto alcuna esperienza; alcuni erano appassionati di botanica, per altri invece è il verde pubblico a essere fonte di ispirazione per il proprio giardino di carta.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it alcuni estratti dal volume:

Marcel Proust o il giardino ricreato

Un mattino, mentre leggevo in giardino…

Avevo diciotto anni, sulla spiaggia di Sagres, nel sud del Portogallo, avevo appena letto Alla ricerca del tempo perduto senza fermarmi. L’Algarve era ancora una regione selvaggia, il vento sferzava le onde, le spiagge erano infuocate e deserte. Ci svegliavamo per veder sorgere il sole ben prima dell’ora in cui Marcel Proust si coricava. Tornai a Parigi in autostop e ripartii subito per Illiers che, all’epoca, non si chiamava ancora Combray. La chiave della «casa di zia Léonie» era custodita dal signor Larcher, il primo ad aver avuto l’idea di trasformarla in un museo. Entrammo dal giardino. Il signor Larcher conosceva molto bene Proust: i suoi discorsi erano intessuti di citazioni di Dalla parte di Swann. Rimasi incantata come se fosse stato il testo a illustrare la casa e non viceversa. Il signor Larcher spinse il cancello dicendo: «Una visita, chi può essere?» ed eccoci in giardino. La prima sorpresa fu scoprire quanto fosse piccolo. Come tornare da adulti nella scuola della nostra infanzia. Quello spazio minuscolo, cui la mia immaginazione aveva dato le dimensioni di un parco, non poteva contenere il testo. Senza saperlo, avevo appena fatto la mia prima esperienza proustiana: la delusione di fronte alla realtà. Decisi di passare oltre. Forse avevo letto male o troppo in fretta. Alla fine della visita firmai con orgoglio il libro degli ospiti: Bloch.

Il lettore di Proust oscilla continuamente tra due poli contrapposti: il diktat di Contro Saint-Beuve, che vieta di identificare l’io che scrive con l’io che vive, e la tentazione di cercare nella realtà tracce tangibili dell’opera. È difficile resistere al bisogno di credere, come prova l’esistenza dei pellegrinaggi letterari. Nella sua opera, Marcel Proust si affida a innesti sapienti, ed è spesso inutile cercare le varietà di origine. Sì, un giardiniere-mago in grado di trapiantare le specie più delicate da un terreno a un altro e di farci ritrovare intatte sensazioni dimenticate…

Difficile immaginare, nella «vita vera», un Proust giardiniere. L’asma gli impedisce molto presto di vivere in campagna, ed è risaputo che bastava l’odore di una pianta a scatenargli una crisi. Eppure quanti fiori, quanti giardini ci sono nei suoi libri! Quanti splendidi bouquet per le signore che conosceva! Giardini immaginari, certo, ma drenati dalla memoria, irrorati dai ricordi d’infanzia, dai soggiorni presso i suoi amici, dalle passeggiate in carrozza o in auto: giardini ormai vietati, contemplati nella mente dalla camera chiusa in cui scrive. Giardini ricreati. Della ventina di passaggi dedicati alla natura in Dalla parte di Swann, tre rappresentano un momento chiave. Nei giardini di Combray, di Tansonville e degli Champs Élysées si manifesteranno i primi indizi di una particolare sensibilità al mondo, alla bellezza e all’amore.

Il giardino di Combray, sintesi impeccabile di parte materna e paterna, è il risultato ibrido dei Weil e dei Proust. Come avrei potuto, in occasione della mia prima visita, riconoscervi quello di Illiers? Si ispira innanzitutto alla tenuta di Auteuil, appartenuta al prozio di Marcel Proust, Louis Weil. Negoziante, fratello di Jeanne Proust, Louis acquista la proprietà nel 1867. Il paese di Auteuil è appena stato annesso al comune di Parigi, e mantiene l’aspetto rustico che ha affascinato tanti scrittori dopo Boileau e Molière. Il fatto che sia vicino alla capitale lo rende un luogo di soggiorno apprezzato dai parigini. La tenuta di 1500 metri quadrati, che si sviluppa in lunghezza, va da rue Lafontaine a rue de La Source, prima dell’apertura di avenue Mozart. In prossimità di rue Lafontaine (in origine rue de la fontaine, oggi rue Jean-de-La-Fontaine) si trova rue Perchamps, che rinascerà a Combray – denominazioni bucoliche cui si aggiunge una rue George Sand. Ci sono dunque tutti gli elementi di un’associazione coerente. La famiglia si reca a Auteuil in estate, ma anche in primavera o, durante la bella stagione, nei fine settimana. Vi si ritrova il clan dei Weil al completo: il prozio Louis, un vedovo amante delle giovani donne come lo zio Adolphe della Recherche, i nonni Nathé e Adèle, i cugini di primo e secondo grado.

L’incipit di Jean Santeuil, romanzo giovanile incompiuto e più nettamente autobiografico, si apre sull’evocazione del giardino di Éteuilles: «La porticina del giardino si richiuse lentamente su Jean, che era tornato per la terza volta a dare la buonanotte alla madre ed era stato ricevuto alquanto malamente». Da Auteuil a Éteuilles, la trasposizione è evidente. Una porta chiusa per aprire un romanzo? Il giardino di Jean Santeuil è un universo chiuso, come l’Eden cui sarà paragonato, come l’infanzia di Jean. «Avete un grazioso giardino, con una sorgente che sembra pura» osserva un visitatore. Ad Auteuil si veniva a prendere l’acqua ferruginosa, come indica anche il nome, rue de la Source. In Jean Santeuil si trova un certo numero di elementi dello scenario ripreso nell’evocazione di Combray: «il rumore vivo dello zampillo d’acqua», «sessanta biancospini arborescenti che circondavano la vasca», il profumo dei roseti, i lillà, i grandi ippocastani. I fiori danno «a chi li guarda una gioia inaudita, l’idea che il giardiniere sia una persona felice, che quel giardino sia un paradiso». Lo stile quasi infantile di questo passaggio contrasta con la visione molto più sottile – e meno paradisiaca – del giardino di Combray nella Recherche.

[…]

Un cancello segna la separazione tra il giardino di Combray e l’esterno. Da un lato la famiglia, dall’altro gli «estranei». Si ricevono poche persone, Charles Swann è uno dei rari visitatori. Qualche dettaglio indica il carattere intimo e un po’ provinciale del giardino: il tavolino di ferro, le poltrone di vimini, una serata in famiglia dopo cena. L’effetto di chiusura è ulteriormente sottolineato dalla doppia annotazione uditiva: «il sonaglio abbondante e chiassoso» dal suono «gelido, implacabile e metallico» (tre aggettivi che arrivano dalla sorgente di Auteuil?) usato dalle persone di casa e «il doppio tintinnio, timido, ovale e dorato» del campanello riservato agli estranei. Sin dall’inizio della Recherche si afferma lo stile proustiano con l’uso dello zeugma, che associa termini che rimandano a campi semantici diversi: qui, una sensazione visiva (ovale, dorato) e una connotazione astratta, psicologica (timido) per caratterizzare un suono. Non un effetto ricercato, ma una ricerca di precisione nel restituire una sensazione propria a un universo cenestesico in cui «i profumi, i colori e i suoni si rispondono».

Quel doppio tintinnio annuncia l’ingresso in scena di uno dei personaggi principali: Charles Swann. È anche l’avvio della commedia di cui Proust è il cronista malizioso, già avviata nelle pagine precedenti. La famiglia funziona come ogni gruppo sociale, con i suoi tipi, i suoi riti, i suoi ruoli, le sue esclusioni. Di fronte a questa visita «inattesa» si finge un’aria naturale: si parla a voce alta per non apparire misteriosi, si mette in tavola qualche sciroppo… Quella messinscena orchestrata in fretta e furia obbedisce alle regole convenzionali della gentilezza borghese.

L’unica che vi si sottrae è la nonna, che si distingue dal gruppo per la sua sincerità, la fantasia, la dolcezza, una devozione autentica per la natura. La sua prima apparizione ce l’ha mostrata «nel giardino deserto e sferzato dall’acquazzone, scostare le ciocche disordinate e grigie perché la fronte potesse accogliere più liberamente la salubrità del vento e della pioggia». Deplora l’aspetto artificiale e troppo simmetrico del giardino dovuto al nuovo giardiniere. Si distingue per la bontà d’animo e l’amore per la bellezza, la semplicità e la spontaneità: una vera eccezione nella Rercherche. Il giardino per lei non è un semplice sfondo alla socializzazione, ma un pezzo di natura. Mandata in avanscoperta per dare il benvenuto a Swann, ne approfitta «per strappare furtivamente, passando, qualche sostegno dei roseti per restituire alle rose un po’ di naturalezza, come una madre che, per renderli più ariosi, passa una mano tra i capelli di suo figlio che il parrucchiere ha troppo appiattiti». In quel gesto tenero si legge la sua inclinazione per una bellezza naturale e in quello di strappare i sostegni il suo carattere discretamente ribelle alle convenzioni borghesi.

Con l’arrivo di Swann si delineano diversi temi orchestrati nel corso del romanzo. Da un lato la grettezza delle regole mondane, per quanto borghesi. Come il fatto che la duchessa di Guermantes non riceva la moglie di Charles Swann, sospettata di essere una donna di facili costumi. Solo la madre del narratore si dà pena di chiedere notizie della figlia, Gilberte. Sono citati i biancospini e la proprietà di Swann, ma come un luogo indefinito dal quale lui porta pesche e lamponi.

Anche il giardino di Combray potrebbe essere un salotto. Vi si dà prova della stessa cecità rispetto alla reale indole delle persone che vi sono ricevute. Quel Charles Swann familiare, di cui da tempo si conosce la famiglia, non può essere il personaggio ricevuto nei salotti più esclusivi del faubourg Saint-Germain. Figlio di un agente di cambio (come il nonno del protagonista e il padre di Jeanne Proust), frequenta solo duchesse.

Abbaglio e vedute ristrette: la nostra personalità sociale è una creazione del pensiero degli altri. «Persino l’atto così elementare che chiamiamo “vedere una persona conosciuta” è in parte un atto intellettuale.»

«Quel primo Swann completamente disponibile, avvolto dal profumo del grande ippocastano, dei cestini di lamponi e di un pizzico di dragoncello» è ben lontano da quello che il protagonista conoscerà in seguito dai Guermantes o dall’uomo innamorato che il lettore scoprirà in Un amore di Swann. Con acume e virtuosità inauditi, Proust ci immerge allo stesso tempo nel passato del narratore, nel presente dei personaggi e nel futuro del testo.

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André Gide, l’appassionato di giardini

Nathanaël, ti parlerò del più bel giardino che abbia mai visto.

 Stanotte è piovuto. Il vento di giugno stacca i petali delle rose e scuote le fronde degli alberi. Malgrado le ortensie in piena fioritura, il giardino è meno bello rispetto alle settimane passate. Giardinetto dell’Ile-de-France dal terreno pesante quando piove e duro come la pietra quando fa caldo… Ben diverso dalle grandi proprietà della Normandia in cui ci portano La porta stretta o L’immoralista. Nell’opera di Gide i giardini sono così numerosi che sarebbe difficile elencarli tutti. Che si tratti di un misero prato o di qualche arbusto, è lì che lo scrittore concentra anzitutto il suo sguardo.

Lui stesso ebbe il piacere di possederne diversi – a La Roque-Baignard e a Cuverville in Normandia, villa Montmorency a Parigi, a Cabris in Provenza, alle Audides, la casa di Élisabeth van Rysselberghe (la madre di sua figlia Catherine), o alla Messuguière dalla sua amica Loup Mayrisch, senza contare tutti quelli che ebbe occasione di ammirare qua e là.

Così, sin dal primo paragrafo di Se il grano non muore, racconto autobiografico scritto a cinquantasei anni, un giardino è associato ai suoi ricordi più antichi: «…Rivedo i draghi di carta ritagliati da mio padre che lanciavamo dal balcone e che il vento faceva volare sopra la vasca della piazza fino al Jardin du Luxembourg, dove rimanevano impigliati negli alti rami degli ippocastani». Immagine aerea, leggera, una carrellata che sorvola rue de Médécis in una complicità tra padre e figlio interrotta precocemente dalla morte. Come sarà in seguito per Jean-Paul Sartre, Gide è un figlio unico cresciuto da sua madre. Come Sartre, bambino viene portato a giocare al Luxembourg, dove rimarrà in disparte. Si diverte persino a calpestare i castelli di sabbia degli altri, quando la tata non lo vede. Compiacimento o sincerità? Sfidando gli stereotipi dell’epoca sul bambino angelico, in se stesso non ritrova che «ombra, bruttezza, ipocrisia». Il Jardin du Luxembourg sarà tuttavia il teatro della presa di coscienza dell’altro, della differenza, della sofferenza, della malattia. André si lega a un ragazzo sgraziato, soprannominato Mouton, ma scopre che sta diventando cieco. Esperienza della mancanza, quando, un giorno, Mouton smette di venire ai giardini.

Il Luxembourg è il luogo dell’educazione sociale dove il bambino si confronta con i suoi pari, talvolta in modo violento, durante le risse tra i ricchi dell’École alsacienne – che frequenta anche lui – e gli studenti della scuola pubblica. Giocare a pallone, fare a botte ma anche, crescendo, lunghe chiacchierate con i compagni di scuola, come Olivier Molinier e Bernard Profitendieu nei Falsari. Si parla di «arte, filosofia, sport, politica e letteratura»: tappe dell’apprendimento della vita con i suoi simili. Come Lucien, potrebbe essere tentato di dire: «Quello che vorrei è raccontare la storia non di un personaggio, ma di un luogo – per esempio di un viale di giardino come questo, raccontare quello che succede – dal mattino fino a sera».

Il Jardin du Luxembourg, come la zona adiacente dove vive con la madre (rue de Médécis, rue de Tournon e, poco più in là, rue de Commaille, dove le case si affacciano su giardini nascosti) disegnano una geografia della rive gauche borghese, all’epoca spesso abitata da universitari o medici. Il padre insegna diritto all’università. Da adulto Gide rimarrà fedele a quel giardino, godendosi le passeggiate e le chiacchiere con gli amici scrittori Pierre Louÿs o Paul Valéry.

Per tutta la vita amerà visitare i giardini pubblici, preferendoli al «più bel parco recintato da muri» (I nuovi nutrimenti). Gioia della contemplazione o di conversare come si faceva un tempo, camminando: le sorgenti di Uzès, il giardino di La Fontaine a Nîmes evocato nei Nutrimenti terresti o lo splendido giardino botanico di Montpellier, dove ritrova Paul Valéry.

La botanica è una delle passioni di Gide. In questo senso, è il degno erede di Jean-Jacques Rousseau e di George Sand. A iniziarlo a quella scienza, bambino, è l’anziana governante e amica della madre, la scozzese Anna Shakleton. Non la dimenticherà mai e le renderà omaggio nella Porta stretta sotto il no- me di Flora Ashburton. Con umorismo e tenerezza, in Se il grano non muore Gide descrive le prodezze della «banda dei botanici» di cui anche lei fa parte. La madre incoraggia il bambino ad accompagnarli per fare un po’ di moto. Con custodie di metallo a tracolla e armati di forbici per potare o talvolta di un retino per farfalle, «anziane signorine» e «adorabili fanatici» percorrono la campagna per arricchire il loro erbario. Anna segue anche i corsi al Museo di Storia Naturale ed esprime pienamente la sua passione nella proprietà di La Roque-Baignard, dove trascorrono le vacanze. «A La Roque, l’erbario era al centro delle attività; tutto ruotava attorno a esso, lo si arricchiva con zelo e con solennità, come un rito».

[…]

Il giardino riunisce tutte le possibilità care ad André Gide. A metà strada tra natura e cultura, al contempo straniante e protetto, è un concentrato di bellezza e sensualità, che si tratti di un parco normanno verdeggiante sotto la pioggia, di un roseto, di un palmeto, di una terrazza italiana o di un orto protetto da una porta stretta. Talvolta è l’unico ricordo che ci resta di un tempo o un luogo perduto. «Ci sono città piccolissime che hanno giardini incantevoli; si dimentica la città; si dimentica il suo nome; si spera di rivedere il giardino ma non si è in grado di tornarci». Ma non credo che in lui ci sia nostalgia. I giardini gli assomigliano, sono «fluttuanti e mutevoli», specchio di un eterno presente.

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Jean-Paul Sartre e Simone al Jardin du Luxembourg

Il Luxembourg pavesato di grandi iris gialli e malva.

Simone de Beauvoir

La leggenda li vuole seduti ai caffè di Saint-Germain-des-Prés, dove un incrocio porta il loro nome, o di Montparnasse, nel cui cimitero riposano l’uno accanto all’altra. Non hanno mai posseduto un giardino, nemmeno una casa, preferendo le camere d’albergo e, una volta diventati famosi, modesti appartamenti. Hanno percorso il mondo ma la loro esistenza si è svolta nel perimento di un quartiere. «Se prendo in considerazione la linea della mia vita» scrive Simone de Beauvoir nell’ultimo volume delle sue Memorie, «mi colpisce per la sua continuità. Sono nata a Parigi, sono vissuta a Parigi, oggi vivo a cinque minuti dalla mia prima casa».

Sartre, le cui Parole devono forse qualcosa all’impresa autobiografica di Beauvoir, constata a sua volta: «Ho cominciato la mia vita come senza dubbio la terminerò: tra i libri». Stesso sentimento di unità, ma in lui l’intelletto si sostituisce allo spazio. Leggere, scrivere: Le parole si articolano attorno a questo cardine, vera colonna vertebrale su cui si regge l’uomo.

Al contrario di Gide, la natura non fa parte della sua esperienza della vita: «I ricordi folti e la dolce irragionevolezza delle infanzie campagnole, invano li cercherei in me. Non ho mai razzolato per terra, non sono mai andato a caccia di nidi, non ho erborizzato né tirato sassi agli uccelli. Ma i libri sono stati i miei uccelli e i miei nidi, i miei animali domestici, la mia stalla e la mia campagna». Insiste sulla sua differenza, in un’epoca in cui i ragazzi diventavano uomini in campagna tra caccia e pesca, attività «virili», educazione allo spirito d’avventura e alla conquista del reale. È cresciuto “fuori dalla terra”. Il contatto sensibile con il mondo è sostituito dai libri. Il suo universo è il prodotto di un vero rovesciamento in cui l’astrazione è considerata la realtà. I libri non rappresentano uno schermo tra lui e il mondo, sono il mondo, e le parole «l’humus della [sua] memoria». «Vi snidavo i veri uccelli, vi facevo la caccia alle vere farfalle posate su veri fiori». Così, la realtà, il giardino zoologico o il Jardin du Luxembourg non possono fare altro che offrire una versione imperfetta della natura incontrata nei libri, descritta, classificata, pensata, assimilata. Una copia sbiadita. L’appartamento familiare accentua quella distanza rispetto al reale. «Un sesto piano parigino con vista sui tetti» è il suo «posto naturale»; Sartre vede il mondo dall’alto, da lontano.

Se Sartre e Beauvoir hanno entrambi famiglie originarie della provincia, il loro universo è però assolutamente urbano, parigino, «uno scenario eretto dalla mano dell’uomo». Durante l’infanzia, il primo abita al numero 1 di rue Le Goff, la seconda al 103 di boulevard du Montparnasse, poi in rue de Rennes. Ma per quei bambini dell’inizio del XX secolo, la strada non è altro che un luogo di passaggio in cui sono sempre accompagnati, il più delle volte la contemplano dalla finestra. Il selciato è un privilegio dei bambini più poveri, Gavroche o Poulbot. Solo loro giocano per strada o sui marciapiedi, passeggiano liberamente. I piccoli borghesi vanno ai giardini sorvegliati dalla balia o dalla tata.

Jean-Paul va tutti i giorni al Luxembourg insieme alla madre. Abitano a due passi dall’ingresso principale. Nelle Parole fa un ritratto severo, benché stilizzato, del bambino che è allora. Solitario, orfano di padre, cresce coccolato e viziato dal nonno, con cui vive insieme alla madre. Recita il personaggio che gli chiedono di essere: il bambino precoce, il piccolo genio destinato a un grande avvenire. Non va a scuola, dunque non si confronta con gli altri bambini della sua età. È l’eroe della commedia familiare, vola «da un’impostura all’altra».

È al Luxembourg, come André Gide, che per la prima volta è esposto allo sguardo dei suoi coetanei. Stesso giudizio sprezzante dell’adulto sul bambino che fu, ma l’esperienza è ancora più amara perché, al contrario di Gide, non c’è un confronto diretto. E non ci sarà fino a La Rochelle, dove la madre si risposa. All’ammirazione iperbolica per gli altri ragazzi, definiti «forti, svelti, belli», «eroi in carne ed ossa» si oppone l’ironia di Sartre nei confronti di se stesso. Tutto quello che c’era di unico, di straordinario in lui scompare, «né meraviglia, né medusa», subisce la peggiore condanna per un bimbo cresciuto sotto lo sguardo adorante dei familiari: i suoi coetanei non lo vedono. Peggio dell’inferno. Quell’indifferenza lo annichilisce, lo annienta.

Lo porta anche, secondo quanto scritto nelle Parole, a prendere coscienza della sua statura e del suo aspetto fisico. La madre lo sminuisce e, senza volerlo, lo umilia ancora di più proponendosi di mediare con le madri degli altri bambini («signore che sferruzzavano su sedie di ferro»). Davanti a questo fallimento, non gli resta che ricostituire la loro coppia: «Andavamo di albero in albero e di crocchio in crocchio, sempre imploranti, sempre esclusi».

Il Jardin du Luxembourg non è dunque un luogo di memoria, evocativo o nostalgico. Degli alberi, delle aiuole fiorite, delle statue, delle vasche non si dice niente. È la cornice della rivelazione del suo rapporto con gli altri e della falsità in cui vive. Uno scenario astratto, svuotato di ogni percezione della natura, dei profumi, dei suoni. È una prova di verità che, se il bambino fosse stato meno protetto, sarebbe potuta avvenire nel cortile di una scuola. Il paragone con gli altri è a suo sfavore: «Avevo visto gli eroi correre e lottare al Luxembourg; messo a terra dalla loro bellezza, avevo capito che appartenevo alla specie inferiore». Giudizio impietoso che descrive una posta in gioco essenziale: la presa di coscienza della sua statura e del suo aspetto fisico lo obbligano a rinunciare ai sogni di spadaccino. In quel mondo di ragazzi, la forza, l’altezza, l’aggressività sono requisiti sostanziali: «Dovetti rinunciare a me stesso». Non è un caso se questo testo è il punto di giuntura tra «Leggere» e «Scrivere», le due parti che compongono le Parole. Quella rinuncia lo porterà alla carriera da scrittore. La scrittura sarà una forma di compensazione.

Il suo ideale di giustiziere tuttavia torna in un sogno ricorrente che ha per cornice il Jardin du Luxembourg, dove deve salvare la vita a una ragazzina. Ma «Poulou» dovrà aspettare la quinta per farsi finalmente degli amici e persino fare a botte, lui, «l’escluso dai giardini pubblici». Vivrà per scrivere: «È la mia abitudine, e poi è il mio mestiere». Le parole danno una forma elaborata a quella che fu forse una percezione più profonda e una realtà più complessa, come indicano le Conversazioni con Simone de Beauvoir: «Avevo un teatrino di burattini fatto di tanti personaggi in cui infilavo le mani; lo portavo al Luxembourg, […] mi mettevo dietro una sedia e immaginavo una scena in cui li facevo giocare». Uno spettacolo che attira le ragazzine, le sue prime ammiratrici. «L’escluso dai giardini» è già un seduttore.

Si potrebbe pensare che il giardino pubblico citato nella Nausea abbia una maggiore potenza evocativa: la radice nera dell’albero sotto gli occhi di Roquentin, il prato rasato, «il rantolo felice d’una fontana, degli odori acuti, dei piccoli cirri di calore che fluttuavano nell’aria fredda». Sartre ha persino osservato l’albero prima di scrivere, come aveva fatto Maupassant su consiglio di Flaubert. Quando è professore a Le Havre, nell’ottobre del 1931, lo descrive a Simone de Beauvoir per saperne il nome: «Ha presente quei giocattoli che turbinano con il vento o quando gli si imprime un rapido movimento di traslazione; dappertutto c’erano piccoli steli verdi che li imitavano, con sei o sette foglie piantate praticamente così». E lo disegna. Un castagno, risponde il «Castoro». Probabilmente il disegno non è molto somigliante. I servizi municipali di Le Havre sono categorici: prima della guerra, nella piazza di Saint-Roch non c’erano castagni, come osserva il giornalista Philippe Lançon. Forse si trattava di un acero? La sua filosofia sarebbe stata diversa?

In ogni caso, non sono le foglie né i rami a catturare l’attenzione di Sartre-Roquentin, ma le radici e il tronco: «Una ruggine verde lo copriva sino a mezz’altezza; la corteccia nera e rigonfia sembrava di cuoio bollito». L’albero descritto mi fa venire in mente proprio lui. Né simbolico, né fonte di piacere o di lirismo, è pura esistenza. Il faccia a faccia di Roquentin con l’albero è solo una tappa nella presa di coscienza filosofica della contingenza e dell’assurdo. Il castagno rimane un’astrazione, un oggetto filosofico come «quel platano, con le sue macchie di tigna, quella quercia mezza fradicia» nei quali il filosofo Bachelard vedeva, nella Terra e il riposo, «la rimozione dell’immagine normale, dell’archetipo verticalizzante».

Nell’Infanzia di un capo, il castagno (stavolta sì!) sarà assegnato in modo ancora più radicale alla sua condizione ontologica di cosa, senza coscienza né possibilità di dialogo. «Disse – Castagno! – e aspettò. Ma non successe nulla. […] Ma quando si diceva “castagno” non succedeva proprio nulla. Egli borbottò tra i denti “brutto alberaccio” e non era del tutto tranquillo, ma siccome l’albero non si muoveva, ripeté più forte “Alberaccio, brutto castagno! adesso vedi, aspetta un po’!” e lo prese a calci. Ma l’albero se ne stette quieto quieto, come se fosse di legno. […] Le cose, che sugo c’è, non esistono per davvero».

La relazione di Sartre con la natura è quasi fobica. Così, nella Nausea, la vegetazione rigogliosa è considerata invasiva,«la verità il rapporto doveva essere piuttosto incerto.» Conclusione opposta a quella di Sartre bambino, per il quale la verità è nei libri. L’intuizione del carattere fittizio della letteratura nasce quindi precocemente, ma non impedirà a Simone de Beauvoir di servirsene, qualche volta, come accade nelle sue Memorie.

(continua in libreria)

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