Claudio Marchisio è sempre stato un calciatore non comune, un campione dentro e fuori dal campo. Nel libro “Il mio terzo tempo – Nel calcio e nella vita valgono le stesse regole” (di cui ilLibraio.it propone un capitolo in cui si parla di omosessualità e omofobia nello sport), trovano spazio temi come il razzismo, il bullismo, la competizione, la voglia di riscatto e il rapporto con chi è diverso da noi

“Il calcio ha un potere magico: quello di superare ogni barriera e far convivere sotto lo stesso tetto identità radicalmente differenti o addirittura incompatibili”. Parola di Claudio Marchisio, che il calcio giocato lo ha lasciato da poco, e che arriva in libreria per Chiarelettere (nella nuova collana Ricreazioni), con Il mio terzo tempo – Nel calcio e nella vita valgono le stesse regole.

Marchisio è sempre stato un calciatore non comune, un campione (del mondo) dentro e fuori dal campo, e nel suo secondo libro (dopo Nero su bianco, Mondadori, 2016), non a caso, trovano spazio impegno sociale, antirazzimo e valore del rispetto.

Classe ’86, l’ex centrocampista della Juventus, club con cui ha vinto sette campionati di serie A consecutivi (dal 2011-12 al 2017-18), uno di serie B (2006-07), tre Supercoppe italiane (2012, 2013 e 2015), quattro Coppe Italia consecutive (dal 2014-15 al 2017-18) e della Nazionale, nel corso della sua carriera si è schierato con forza contro episodi di razzismo e ingiustizia sociale. Il suo impegno civile ha suscitato molti apprezzamenti e anche reazioni critiche.

Come scrive ne Il mio terzo tempo, senza collaborazione e condivisione non si ottiene nulla. Claudio Marchisio ne è fermamente convinto. Il calcio, sostiene, ha l’incredibile potere di rendere la solidarietà, la collaborazione e l’aiuto reciproco elementi imprescindibili, che si respirano come aria.

Claudio Marchisio il terzo tempo

Nel libro la testimonianza di Marchisio va ben al di là del racconto di episodi spesso inediti che hanno segnato la sua vita e la sua carriera: punta piuttosto ad affrontare, dalla prospettiva privilegiata di chi li ha vissuti sulla propria pelle, grandi temi di interesse generale e fonte di continua e non facile discussione: il razzismo, il bullismo, la competizione e la rivalità, la voglia di riscatto, il rapporto con chi è diverso da noi.

Lontano dalla retorica dei racconti dei campioni, quello dell’ex calciatore torinese è un libro per tutte le età ma che spera di parlare soprattutto ai giovani, cui spetta il compito di costruire il futuro. Perché nel calcio come nella vita valgono le stesse regole e la lezione più importante (che parte dallo spogliatoio e arriva fino ai banchi di scuola nella speranza che da lì dilaghi ovunque) è che l’avversario non è un nemico da odiare, ma un rivale con cui confrontarsi e da rispettare. Sempre.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un capitolo, in cui si parla di omosessualità e omofobia nel mondo del calcio

Nella mia storia sportiva posso dire di non avere quasi nessun rimpianto, difendo le scelte che ho fatto nella mia carriera e ritengo che quasi tutte siano state azzeccate, almeno dal mio punto di vista e per la mia scala di valori. Se di qualcosa mi posso rammaricare, casomai, è proprio il fatto di non essere arrivato prima a comprendere quante situazioni ho dato per scontate senza considerare che potessero in qualche modo fare male a qualcuno. Il tema dell’orientamento sessuale e quello della marginalizzazione dell’omosessualità sono certamente due di queste questioni, e me ne rendo conto appieno solo adesso che ho smesso di giocare. Non so se ho mai avuto dei compagni di squadra omosessuali. Se ci sono stati, non si sono mai sentiti liberi di dirlo pubblicamente, né a me (cosa che conta poco) né al mondo. Ho però ben presente la disinvoltura con cui, specialmente da ragazzini, si usavano parole come «frocio» o «finocchio» per riderne, per sfotterci a vicenda, per scherzare. Forse non pensavamo al significato di quello che dicevamo, o forse ci rassicurava il fatto di poterci sentire parte di un gruppo di uguali, ci aiutava usare categorie maschiliste perché ci metteva al riparo dalle nostre fragilità che, qualunque origine avessero, restavano per l’appunto nascoste dietro questo teatrino. Eravamo ragazzini e come tutti gli adolescenti ci portavamo dietro i modelli che introiettavamo dai nostri miti, a partire dagli sportivi e passando per musicisti e attori. E lì il modello era uno e uno soltanto: l’uomo che non deve chiedere mai, come recitava anche una pubblicità (oggi fortunatamente ridicola) di quegli anni. Ora so che qualcuno di quei compagni può aver sofferto, può essersi sentito sbagliato, magari ha interrotto il suo percorso sportivo proprio per smettere di sentirsi isolato e sotto assedio. Per chiunque, l’adolescenza è un periodo turbolento e agitato, si scopre poco a poco chi si è e chi si vorrebbe essere. In molti casi la confusione regna sovrana, ci si sente come una banderuola nel vento di una società che è sempre piena di pretese e di paletti, di aspettative e di modelli impossibili. Si fa una fatica estrema a cercare di mantenere l’equilibrio tra i propri sbalzi di umore, il proprio corpo che cambia, i desideri che nascono, crescono e si modificano. È complicatissimo, per tutti. E allora immagino l’improbo sforzo di un adolescente che inizi ad acquisire consapevolezza del proprio orientamento sessuale, che ci faccia i conti poco a poco, che cerchi degli appigli intorno a sé per avere la sicurezza di non essere solo, di non essere l’unico ma di potersi rispecchiare in tante altre storie simili. E invece trova un branco di ragazzini sboccati e grezzi che, ancora una volta senza intenzione, rendono questo processo più titanico di quanto non sia. Se poi prova a rivolgersi timidamente al mondo adulto, allora lì la negazione è pressoché completa. Non esiste il tema, non se ne parla, non lo si considera, non lo si cita per paura di toccare un nervo scoperto che non si sa gestire. Non mi sarei mai sognato di condividere con il mio allenatore delle giovanili i miei dubbi adolescenziali, così come non lo avrei fatto con i miei maestri e professori di scuola, con gli animatori del centro estivo che frequentavo o con il prete della parrocchia dietro casa. E la distanza era ricambiata, perché nessuna di queste figure adulte ha mai provato ad aprire quella porta, a mostrare che ci si poteva confrontare liberamente e che nessuno era sbagliato. Ciascuno sperava che a parlare delle questioni «imbarazzanti» fosse qualcun altro, problema risolto. Gli unici che forse ogni tanto ci provano (ancorché spesso un po’ goffamente, e parlo per esperienza personale  quelli che nessun adolescente vorrebbe interpellare per le questioni più spinose. Abbiamo estremo bisogno di una rivoluzione dei costumi. Bisogna che l’inconsapevolezza di fondo sparisca, è necessario che il linguaggio comune si liberi una volta per tutte da qualunque ammiccamento machista, da ogni ironia sottintesa quando si parla di orientamenti sessuali. Sono convinto che debba arrivare il giorno in cui i discorsi sulla sessualità, qualunque orientamento questa abbia, perderanno l’aura di malizia che ancora oggi li ammanta.

(continua in libreria…)

 

 

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