“Rimettere mano a un romanzo più di un decennio dopo la sua prima apparizione in libreria comporta inevitabilmente una certa dose di sconcerto…”. Torna in libreria con Adelphi in una nuova edizione “Uomini e cani” (inizialmente pubblicato da Isbn), il libro che ha fatto scoprire a lettori e critici Omar Di Monopoli. Lo scrittore pugliese su ilLibraio.it racconta: “La vera sfida è stata quella di sventrare interamente il romanzo senza toccarne le fondamenta, abbellire soffiando via la polvere senza indugi ma facendo attenzione a non intaccare la struttura…”

Rimettere mano a un romanzo più di un decennio dopo la sua prima apparizione in libreria comporta inevitabilmente una certa dose di sconcerto, per un autore. Soprattutto se per quest’ultimo il romanzo in questione non è semplicemente un libro, ma rappresenta, in virtù di quella irrazionale aura di venerabilità con cui certi scrittori sono soliti rivestire i propri esordi, il punto zero dell’intera sua produzione a venire.

Uomini e cani, a dispetto dello sbadato disincanto con cui nel tempo ho imparato a tegumentare i miei sentimenti sulla faccenda, per il sottoscritto è sempre stato «il» libro, quello cioè con il quale, dopo anni di marchiani tentativi giustamente puniti coll’indifferenza dagli editori, sono riuscito a scrollarmi dei rimuginii ombelicali tipici degli aspiranti imbrattacarte per rivolgermi finalmente a un pubblico non più composto dalla consueta serqua insofferente di parenti e fidanzate.

Saccheggiando in maniera più o meno plateale dai modelli di riferimento, con Uomini e cani fui in grado quasi all’impensata di mettere a fuoco quella che (piaccia o meno) è diventata oggi la mia cifra, una sorta d’impalcatura letteraria per la costruzione della quale ho fatto miei una geografia, uno sguardo e una voce che hanno saputo consegnare nuove coordinate al mio lavoro, spalancandomi un mondo: ho cominciato a rielaborare la mia terra, la Puglia, immaginandola come un posto non troppo dissimile dall’America dei grandi romanzi southern-gothic su cui mi ero formato e, grazie all’ausilio di alcuni accorgimenti stilistici (il ricorso al dialetto e alla iperaggettivazione, ma anche all’uso in chiave espressionista di un certo lirismo), sono riuscito a convogliare in un personale afflato narrativo alcune istanze che mi stavano a cuore: il sud come campo di battaglia omerico, i lacerti di un crimine organizzato duro a sconfiggere, la disfunzionalità di certi rapporti umani, la violenza e l’incanto di una terra indomita.

DI MONOPOLI UOMINI E CANI (002)

Pertanto, a fronte di una ripubblicazione del romanzo da parte di un editore prestigioso come Adelphi, l’idea di rituffarmi tra le pagine di un testo che non sfogliavo da anni e che a naso ricordavo «perfetto» (non perfetto in senso assoluto, perfetto nella sua consistenza di opera-collettore verso ciò che sarebbe venuto dipoi) sulle prime mi ha gasato ma anche un po’ turbato, perché sentivo che rivelazioni inattese potevano aggallare dal mio passato.

Innegabile infatti è stato lo stupore nel registrare dapprima quella che in fondo era una constatazione prevedibile, ovvero che la lingua con cui avevo cominciato il mio viaggio nella scrittura cogli anni è cambiata, e che quell’ubertoso, colorito mischione di metafore e vernacolo, che pure aveva conquistato dei premi, mandato in sollucchero buona parte della critica e fatto gongolare il mio ego, era invecchiato male e cominciava qua e là a mostrare la corda. Inoltre, la pur sempre solida trama del romanzo mi è parso necessitasse in certi punti di qualche nuovo ed esplicativo puntello. Così ho preso il coraggio a quattro mani e, con il prezioso sostegno degli editor di via San Giovanni sul Muro, mi sono gettato a capofitto nella delicata operazione di restyling di quello che, erroneamente, avevo sino allora ritenuto un libro intoccabile. Quale travolgente soddisfazione, allora, mi ha regalato lo scoprire che potevo rimodulare e ripulire una cosa di cui andavo già molto fiero, rivedendo tutti quegli errori figli della foga e dell’entusiasmo giovanile: davvero avevo usato un logoratissimo ossimoro di stampo giornalistico come “silenzio assordante”? E sul serio avevo abusato di tutte quelle figure retoriche disseminando il testo di anafore e litote come se non ci fosse un domani? Similitudini che all’epoca mi erano parse originali ed esplosive ora mi si mostravano in tutta la loro disarmante ingenuità. Era fantastico potervi porre rimedio.

Pure, poiché in fondo la forza di un oggetto narrativo compiuto risiede anche nella sua immediatezza, nella rozza e funambolica urgenza con cui cioè è stato scritto (a maggior ragione se parliamo di un’opera prima), il vero impegno è stato quindi quello di riuscire a conservare la genuinità del libro allineandone semmai lo stile alle mie creazioni più recenti: e così via alla sostituzione degli avverbi ingombranti e alla messa a registro del dialetto (restituito a più corretta confezione anche per mezzo di consulenze accademiche) nonché al livellamento di certi vezzi di forma (il pronome atono “ci” davanti al verbo avere che si univerba dando luogo a quei bei “ciànno”, “ciabbiamo”, “ciavete” di gaddiana memoria).

Alfine, la vera sfida è stata quella di sventrare interamente il romanzo senza toccarne le fondamenta, abbellire soffiando via la polvere senza indugi ma facendo attenzione a non intaccare la struttura portante. E il risultato è che il nuovo Uomini e cani conserva intatta la medesima potenza del vecchio, la stessa freschezza barocca, la stessa tumultuosa imperfezione, ma, magicamente, è in qualche maniera un libro diverso, del tutto nuovo. Un figlio perduto e ritrovato, che non si è mai smesso di portare nel cuore.

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