Arriva in libreria il nuovo numero della rivista Nuovi Argomenti, dedicato ad Amelia Rosselli: sul ilLibraio.it il saggio di Roberto Deidier

Arriva in libreria il numero 74 della rivista Nuovi Argomenti, dedicato alla poetessa Amelia Rosselli (l’immagine in alto della poetessa è di Dino Ignaniwww.dinoignani.net). La sezione monografica, a cura di Maria Borio, ospita contributi di Nanni Balestrini, Antonella Anedda, Roberto Deidier, Stefano Giovannuzzi, Alberto Casadei, Caterina Venturini, Alessandro Baldacci, Gian Maria Annovi, Gandolfo Cascio, Laura Barile, Daniela Attanasio, Gabriella Sica, Jennifer Scapettone, Jean-Charles Vegliante, Daniela Matronola, Laura Pugno, Ulderico Pesce.

NuoviArgomenti

“Con maestà e con furore”

di Roberto Deidier

C’è sempre un punto, o un momento, oltre il quale la malizia cessa di far sorridere e diventa inquietante. Una bambina apprende all’improvviso che suo padre e suo zio sono per sempre scomparsi alla sua vista, ai suoi abbracci, alle sue legittime richieste di gesti e di attenzioni. La bambina cresce come un’apolide, tra più paesi, lingue, culture. La sua identità è multipla, multiple sono le sue parole, e lo saranno quelle della sua poesia. La sua formazione è vasta, comprende la letteratura, l’arte e la musica, quest’ultima esercitata con il rigore necessario a chi non ha bisogno di comprendere che il mantenimento di ogni territorio espressivo è sempre una forma di allenamento duro e costante. Lei lo sa fin da subito, glielo ha insegnato la vita. La sua mente è un arco teso oltre ogni forza e quella corda è destinata a spezzarsi. Si potrà aggiustare, ma non sarà più la stessa. Ogni incontro della sua esistenza, ogni battaglia per la poesia mette a dura prova quella tensione. Al principio è un giovane poeta del sud, che la lascia sola davanti al sipario impietoso di una morte precoce: è la scoperta, tragica, che non solo la vita, non solo gli altri possono sottrarsi a noi, ma che pure il corpo, il nostro corpo, può tradirci in qualsiasi istante. Poi è la volta di un altro giovane poeta, omosessuale, e di una curiosa convivenza, fatta di letture, di scambi, di reciproca crescita nella lingua che diventerà per sempre scrittura, e scrittura che si farà definitivamente, senza possibilità di ritorno o di abiura, poesia. Ma il prezzo da pagare, per entrambi, è la fine della loro amicizia e con essa l’ingresso in una solitudine speciale, quella di una città dove si è sempre in compagnia di qualcuno che sa guardare solo dentro se stesso. D’ora in avanti gli incontri si faranno più difficili: sotto il cielo di Roma, dove sogni e progetti svaniscono all’alba, ogni presentazione è solo la superficie di una conoscenza impossibile, del fatuo stringersi intorno a una passione comune quanto astratta.

Nei luoghi della cultura, tra cene e terrazze, non era così scontato incontrare Amelia Rosselli. Non era tanto una questione di pudore o di riservatezza, e neppure di gusto, di quell’abitudine alla sobrietà che pure era un suo tratto tipico; la sua assenza, se i discorsi si orientavano verso la poesia contemporanea, poteva tramutarsi in una straordinaria presenza, in una continua evocazione. Se c’era, era quasi sempre in disparte, seduta, in attesa di ricevere qualcosa, di essere servita; non per un senso di superiorità o di autorevolezza, ma per una sua innata incapacità a procurarsi ciò che le sarebbe occorso, anche solo per la sopravvivenza quotidiana. Accadeva proprio questo, che non ci si accorgeva subito della sua presenza, mentre la sua assenza costruiva la sua figura nelle parole degli ospiti, e lei si faceva più centrale senza saperlo. La sua dimensione era sicuramente più privata che pubblica, eppure partecipava ai dibattiti, alle presentazioni, viaggiava spesso, senza mai dimenticare a casa i suoi fantasmi. Nel tempo la sua voce, cresciuta nella sofferenza, ma anche nell’insofferenza, aveva raggiunto una profondità tonale da sembrare già l’eco di un mito: la sua esattezza era una freccia. Così Amelia, lasciata per sempre l’Inghilterra e scelta la Roma di Parione, tra piazza Navona e via del Governo vecchio, divenne per tutti una voce divinatrice, l’oscura Sibilla di via del Corallo. Quelle facciate, quei tetti antichi, sarebbero stati gli ultimi colori dei suoi versi, ma con pochissimo spazio. Come un derviscio, Amelia ruotava incessantemente su se stessa e sulla sua molteplicità, e il suo ultimo libro avrebbe rappresentato una fulminea capriola nel tempo e nella lingua. L’inglese riaffiorava da regioni remotissime e mai abbandonate del tutto. Era, per lei, la lingua della madre, e dunque avrebbe costituito, per la sua vocazione alla poesia, un polo di tensione difficile da sostenere. Perché è sempre la madre che dà la lingua ai poeti, ma quella – per un caso assurdo – era pure la lingua dei suoi fantasmi.

Ancora una volta la vita si era fatta beffe di una creatura non amata da subito, forse non facile da amare, e raramente compresa. La sua vicenda, così declinata, ha tutto l’aspetto di un cortocircuito, e come un cortocircuito si è conclusa nel febbraio del 1996, ricalcando l’orma di un mito precedente, quello di Sylvia Plath. Una coincidenza, niente più di questo, anche se sui versi di Lady Lazarus Amelia aveva lavorato moltissimo, lasciandoci delle preziose traduzioni. Le circostanze erano affatto diverse, e piuttosto lontane le loro esistenze e non so quanto conciliabili i loro temperamenti. Le inquietudini di Sylvia avevano un’origine domestica, assolutamente classica, nel senso che agitavano paure e insoddisfazioni che la vita coniugale risvegliava dal rimosso. In Amelia Rosselli l’origine del trauma è storica, più precisamente politica. La polis l’ha ferita per sempre, facendo di lei un’orfana, per di più di un padre che nel tempo avrebbe saputo amarla. La perdita è stata dunque doppia e anche in lei, come in molti altri suoi compagni di strada del secolo, la nostalgia si sarebbe declinata nel tempo a venire. Perdere non chi ci ha amato, ma chi ci avrebbe ancora potuto amare è più terribile, perché ci sottrae a un territorio affettivo pressoché infinito, sconosciuto, affascinante. Ci lascia mutili non del nostro passato, ma del nostro futuro. Così ho imparato a riconoscere, nei brevi anni in cui ho potuto frequentarla, le assenze del suo sguardo, il suo non sapere dove dirigere gli occhi, il suo misurarsi con un vuoto che nulla sosteneva se non la sua vita stessa, e che nessuno più colmava, se non nei limiti dell’amicizia. Questa, certamente, era la dimensione in cui ancora provarsi con la tenerezza, e non sono in pochi a conservare di lei quest’immagine.

La tenerezza, in Amelia, non si accompagnava all’umiltà, piuttosto rimandava a quel tanto di riservatezza entro cui si vorrebbero stabilire i confini della propria domesticità, e proteggerla. In Amelia tutto era misura, e senza ciò non si potrebbe nemmeno comprendere in pieno la poetica degli «spazi metrici». Nel suo paesaggio più intimo, la geografia del dolore era stata soppiantata dalla geometria del verso, senza alcun raffreddamento, senza alcuna vuota programmaticità; senza, cioè, i proclami di un’avanguardia che le stava davvero sulle spalle e tentava di assorbirla, senza successo. Perché, in fondo, Amelia Rosselli resta un poeta lirico, di rara forza lirica. Il tema frequente dell’amore ci aiuta a comprendere, al di là delle sue declinazioni, quanto in lei agisse una spinta alla conquista di una normalità, di una medietà; ciò senza mai indulgere a pratiche o atteggiamenti borghesi, ma solo per raggiungere quel punto di equilibrio intorno al quale la sua mente allestiva delle straordinarie tempeste. L’amore come punto di fuga, e la poesia come traduzione musicale di quella fuga. Ecco perché, in fin dei conti, le presenze reali della sua storia sentimentale contano poco, per quel tanto di ferita che possono averle inflitto; in realtà la modulazione dell’amore, come in ogni grande poeta lirico, rimanda sempre alla dialettica tra finito e infinito. Nella finitudine della sua vita, nella ristrettezza della storia che le è toccato vivere, Amelia Rosselli non ha mai smesso di cercare quel punto di fuga, fino a trovarlo nella finestra che dalla sua mansarda guardava sul cortile interno. Da lì, finalmente, l’infinito le è venuto incontro, oltre la poesia.

Nella sua densissima lingua, questo poeta ha trasformato un tema in un preciso, talvolta crudele codice espressivo, con cui cercare di raccontare non solo il dramma o il sogno della propria intimità, ma un’intera storia della quale faticava a sentirsi parte. I suoi titoli parlano già di questa incessante oscillazione tra privato e pubblico: Variazioni belliche, Serie ospedaliera, Documento. «Innanzi a te la stesura d’un compito che abbracciando la totalità non neghi la formosa individualità», scriveva negli appunti del Diario ottuso. Nei confronti di quella storia restava sempre in ascolto, come una preda. Le incursioni dei suoi fantasmi la costringevano infatti alla prudenza, a un ascolto diffidente: la sua disponibilità all’incontro con l’altro era pressoché inesauribile, proprio quanto Amelia sapeva rendersi, se voleva, inafferrabile. Poteva risultare scostante, ma se lo era, il suo moto di difesa era sempre plausibile. Aveva imparato a sue spese a riconoscere la sincerità. La sua svagatezza, pur posando su un terreno concreto, era anche apparenza, ed era soprattutto un modo per dissimulare il suo istinto più profondo, la sua capacità di intuizione. Con lei non si poteva barare, ma ci si doveva esporre per intero: sia che si discutesse di politica o di letteratura, sia che si scendesse in territori più personali. Era comunque evidente che, per lei, non faceva alcuna differenza. Su tutto scendeva il «grigio pudore» non tanto di un mancato adattamento, di un’incapacità relazionale, quanto, piuttosto, di un preciso esercizio della misura, che coincideva con la totalità della poesia, con la scrittura. L’intelligenza come un continuo dosaggio delle forze, come un forzato adempimento verso se stessi.

Amelia Rosselli ha trascorso la sua vita «con maestà e con furore», e nello stesso modo l’ha scritta. Non c’è stato per lei alcun paradiso che non contemplasse, al suo interno, proprio il furore delle sue tempeste mentali. Lì si poteva aprire un varco pericolosissimo, perché la storia aveva provveduto, fin dall’infanzia, a fare di lei non un albatro possente in grado di attraversare gli uragani, ma una creatura che costantemente doveva richiamare a sé le scarse energie rimaste, e rigenerarle mettendosi a dura prova. C’è sempre un punto oltre il quale la malizia, la nostra e quella di chi ci osserva, non fa più sorridere. Quel punto, quel male irrimediabile del mondo, l’ha accompagnata fino a farsi un «pozzo maligno».

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