“Nel ’54 o ’55 sentivo il bisogno di parlare in maniera originale delle nostre vite di femmine e di maschi di quegli anni”. Così inizia la carriera di scrittrice di racconti di Grace Paley, una delle maggiori autrici di short stories del Novecento. Nata nel 1922 nel Bronx da una coppia di ebrei russi, ha descritto la vita della sua città, ma soprattutto l’umanità che abita nei quartieri popolari. Quasi sempre dal punto di vista femminile. E con una lingua così vicina al parlato da far sentire il lettore parte della storia… – L’approfondimento

“Nel ’54 o ’55 sentivo il bisogno di parlare in maniera originale delle nostre vite di femmine e di maschi di quegli anni”. A scriverlo Grace Paley, una delle maggiori autrici di racconti del Novecento, in Due orecchi e tre fortune, scritto che apre la raccolta Tutti i racconti (Sur, traduzione di Isabella Zani). 

Grace Paley

La scrittrice americana è nata nel 1922 nel Bronx, a New York, da una coppia di ebrei russi immigrati negli Stati Uniti nel 1905, all’inasprirsi dei pogrom sovietici, e dagli anni Cinquanta fino alla sua morte, avvenuta nel 2007 a causa del cancro al seno, ha descritto nei suoi racconti la vita della sua città, ma soprattutto l’umanità che abita nei quartieri popolari. Quasi sempre dal punto di vista femminile.

Nei suoi racconti, fatti confluire da Sur in un unico volume, ma già in passato pubblicati in tre raccolte – Piccoli contrattempi del vivere nel 1959, Enormi cambiamenti all’ultimo minuto nel 1974 e Quello stesso giorno nel 1985 -,  le protagoniste sono donne in ogni stagione della vita, che si confrontano con la loro identità, la società che le circonda, gli uomini – di frequente vacui, inaffidabili, egoisti.

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Alla narrazione dell’amore romantico Grace Paley preferisce quella del sesso. Nelle sue storie le relazioni non durano per sempre: le protagoniste hanno un ex marito, sono state madri single, spesso hanno un nuovo compagno, a cui nascondono il loro passato. Come la signora Raftery che compare in un paio di racconti: ora è una madre apprensiva e un po’ bigotta, ma un tempo “apprezzava la giovinezza”. O ancora Faith, che accompagna la scrittrice attraverso le sue raccolte, tanto da diventare una presenza famigliare per il lettore.

“C’è un posto dove il montacarichi rimbomba, le porte sbattono, i piatti si spaccano; ogni finestra è una bocca di madre che ordina alla strada di fare silenzio, andare a pattinare da un’altra parte, venire a casa”, così Grace Paley descrive il suo mondo nell’incipit di La voce più alta. Un ambiente urbano, fatto di palazzi e di famiglie.

E di una lingua che è così vicina al parlato, da far sentire il lettore davvero parte della storia, come se si trovasse a origliare una conversazione tra i personaggi. Nella lingua originale, infatti, Grace Paley si è impegnata a imprimere sulla carta il modo di parlare di chi la circonda: un ibrido tra yiddish, polacco, russo e inglese, caratteristico degli immigrati ebrei di New York.

Proprio quello che si parlava nella sua casa paterna, che in una delle ultime interviste rilasciate, uscita su Poets&Writers e firmata da Ilya Kaminsky e Katherine Towler, descrive così: “A cena, se eravamo al completo, c’erano mio padre e mia madre, che erano socialisti democratici e molto arrabbiati con l’Unione Sovietica; poi c’era mia zia, comunista, e l’altra zia che era sionista. Le differenze di opinioni erano forti. Non la smettevano mai di parlare, e intanto la vita procedeva per conto suo, fregandosene”.

Grace Paley non prende spunto solo dalla sua famiglia di origine, ma anche da quella che ha costruito con il marito e, proprio quando i suoi figli sono piccoli, inizia a scrivere in prosa. Negli anni precedenti, e per il resto della sua vita, infatti, l’autrice si dedica anche alla poesia. E così, confessa, sempre nell’intervista citata sopra, “all’improvviso mi ritrovavo con un enorme materiale che riguardava la vita delle donne. Questo perché avevo trascorso gran parte delle mie giornate con donne e bambini”.

E intanto legge “la narrativa del momento, la narrativa degli anni Cinquanta, una narrativa mascolina”. E trovando “interessante la scrittura maschile”, crede “che per la maggior parte della gente le storie di donne avessero un’attrattiva molto limitata”. Tra i suoi riferimenti cita W.H. Auden, i romanzi di Twain, Dickens. E Bellow, che “ha liberato la voce ebraica”, ma i cui libri “parlavano solo di uomini”. Un problema, quello della rappresentazione delle donne in letteratura, a cui Grace Paley risponde con i suoi quadretti di disagio e alienazione casalinga.

Intanto, proprio negli anni in cui Grace Paley inizia a essere pubblicata, la società sta vivendo un cambiamento:Ero una donna che scriveva nel primissimo momento in cui goccioline d’astio inquieto e nobile furore iniziavano, lentamente e di nascosto, a formare la seconda ondata del movimento femminista”.

Una battaglia di cui Grace Paley si fa portavoce per tutta la vita e che si aggiunge all’attivismo contro le guerre e le disuguaglianze. Fino alla fine la scrittrice si è dedicata con ardore al pacifismo: dalla guerra in Vietnam – ha partecipato a un viaggio ad Hanoi nel 1969 per contrattare il rilascio di alcuni prigionieri di guerra – fino all’opposizione agli armamenti nucleari. Nel 1978 è stata perfino arrestata, colpevole di aver affisso uno striscione contro le armi nucleari all’interno della proprietà della Casa Bianca. Nel 2007, ormai stremata dalla malattia, si è battuta contro la guerra in Iraq e il governo Bush.

“Credo che il mondo sia peggiore ma la gente sia migliore. Penso abbia a che fare con le rivoluzioni degli anni Sessanta e Settanta e con il lavoro che abbiamo fatto in quel periodo”, ha spiegato a Kaminsky e Towler.

Come Lucia Berlin, che con i suoi racconti ha dato valore letterario a donne che vivono nella desolazione del deserto degli stati di confine con il Messico, così Grace Paley ha validato le voci femminili del Bronx. Le similitudini tra le opere delle due scrittrici – tutti racconti, né Paley né Berlin hanno mai scritto un romanzo – non si fermano qui: le protagoniste di entrambe sono spesso madri single, escono ed entrano da relazioni disfunzionali, vivono sotto la soglia della povertà…

Una prova della necessità delle scrittrici americane della seconda metà del Novecento di scrivere storie vicine al loro vissuto, che le vedessero finalmente protagoniste e non solo spettatrici. Nonché una prova, per noi lettori di oggi, del potere dei racconti d’autore come mezzo capace di fissare un istante di vita vissuta e renderlo immune al trascorrere dei decenni.

 

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