“La mente è lo strumento di indagine per eccellenza e allo stesso tempo è la scena del crimine primaria. O quanto meno, lo è la mente di uno scrittore. Forse è per via di questa conflittualità che scrivere è senza dubbio… un delitto…”. Su ilLibraio.it l’intervento, conturbante, di Federico Inverni, pseudonimo dietro il quale si nasconde l’autore del thriller d’esordio “Il prigioniero della notte” (Corbaccio).

Lo strumento d’indagine più efficace non è la scienza forense. Non è il rilevamento delle impronte, o l’analisi di fibre, tracce ematiche, residui organici. Non è neppure un interrogatorio, o un’infiltrazione sotto copertura. Niente di tutto questo potrebbe sussistere se a monte non esistesse qualcosa di ancor più potente.

Lo strumento di indagine più efficace, infatti, è la mente.

Ma c’è un problema.

La mente è anche la scena del crimine.

Ogni crimine di una certa gravità ha un periodo di incubazione, una gestazione che assomiglia, spesso, a una messa in scena. Il crimine è oggetto di fantasia, ancor prima di essere agito nella realtà. E la mente è quello spazio di libertà infinita in cui tutto può avvenire, senza punizione, senza conseguenze, senza condanna sociale.

Senza che la realtà si metta di mezzo, facendo andare storte le cose.

Nella mente, nessun dettaglio è fuori posto, nessuno si comporta in maniera differente da come dovrebbe per la buona riuscita del crimine stesso, non ci sono coincidenze e men che meno esiste alcunché di simile al tanto odiato ‘caso’.

Per scrivere Il prigioniero della notte (thriller in libreria per Corbaccio, ndr), mi sono documentato a lungo sulle distorsioni della psiche che possono trasformare la mente di un soggetto in una scena del crimine. Si tratta di microscopiche alterazioni della percezione, sottilissimi difetti di comunicazione tra intelletto e sfera emotiva, schemi mentali in cui improvvisamente si apre un piccolissimo varco, sufficiente però a lasciar irrompere l’irrazionalità.

Ho scoperto così, per esempio, che si può essere del tutto razionali e consapevoli di sé in tutto e per tutto e allo stesso tempo mantenere la convinzione, del tutto razionale e consapevole, che familiari, parenti, amici siano stati uccisi e rimpiazzati da entità aliene. Impostori, cospiratori, falsificatori che hanno preso il posto dei miei amati, mimandone il comportamento. Ma dentro la mia mente, so, so, che non siete voi, che non siete veri. È il caso della sindrome di Capgras.

La sindrome del doppio è altrettanto affascinante, benché più sfumata a livello clinico. Consiste nella convinzione di essere il proprio doppio, e di vivere perciò una vita diversa da quella condotta dall’altro se stesso, della quale non si è responsabili. Affascinante, in un’ottica di crime fiction. Sconvolgente, nella realtà.

Ho scoperto anche che si può credere di essere una sola persona – lo crediamo tutti, no? – ed essere invece due, dieci, potenzialmente infinite persone. Magari una soltanto delle quali è un criminale. È il caso di Billy Milligan, la cui storia è raccontata nel meraviglioso Una stanza piena di gente di Daniel Keyes. Dentro Billy convivevano, emergendo in alternanza, più di venti personalità diverse, di età e perfino di sesso differenti, e soltanto l’identità che aveva il nome di «Ragen» era violenta.

Ma ho scoperto anche qualcosa d’altro. Qualcosa che mi ha inquietato molto più di tutto questo.

Qualche anno fa sono stati pubblicati, da un istituto di ricerca svedese, i risultati di una lunga e articolata indagine, uno studio che ha coinvolto circa un milione e duecentomila pazienti psichiatrici. L’obiettivo di questa così estesa indagine? Dimostrare o smentire l’esistenza di un rapporto tra arte e follia.

La risposta è… Sì. Sì, un collegamento c’è, eccome. C’è un legame fra creatività e malattia mentale, stando al Karolinska Institutet di Solna, ed è riscontrabile nella maggior predisposizione verso schizofrenia, depressione, bipolarismo e altre amenità.

Ma non basta.

Qual è la categoria artistica più esposta a questo tipo di rischi?

Indovinato. Gli scrittori.

La mente è lo strumento di indagine per eccellenza e allo stesso tempo è la scena del crimine primaria. O quanto meno, lo è la mente di uno scrittore. Forse è per via di questa conflittualità che scrivere è senza dubbio… Un delitto.

P.S. Nonostante tutto, continuo a credere che scrivere sia il delitto perfetto. E, soprattutto, che leggere non sia un delitto, ma che, al contrario, il vero delitto sia non leggere.

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