Incontro con Gianluca Morozzi autore di Blackout ISBN:888246718X

Blackout è un thriller ad alta tensione che si legge tutto d’un fiato. Il giovane scrittore bolognese Gianluca Morozzi si serve con grande disinvoltura dei meccanismi della suspense e confeziona una storia da brivido, che cattura fin dalle prime pagine l’attenzione del lettore. In un’assolata giornata di ferragosto, l’ascensore di un palazzo alla periferia di Bologna si blocca improvvisamente. Tre persone rimangono imprigionate per ore fra l’undicesimo e il dodicesimo piano: Tomas, un sedicenne che medita di fuggire di casa; Claudia, una studentessa omosessuale che si paga l’università con lavori saltuari; Ferro, anima nera del romanzo, implacabile serial killer, che colleziona snuff movies in cui vengono ripresi uomini torturati a morte. La convivenza forzata esaspera le tre vittime, che inscenano uno psicodramma dai contorni surreali e dall’esito imprevedibile. Abbiamo rivolto all’autore alcune domande su Blackout.

D. La situazione in cui si trovano i tre protagonisti rimanda a una delle fobie più comuni: quella di rimanere bloccati al buio in un luogo chiuso senza vie di fuga. Il vecchio tema della sepoltura prematura, caro all’horror, si arricchisce però di un altro elemento: il passaggio di Ferro, Tomas e Claudia dallo stato civile allo stato ferino. In condizioni estreme i freni inibitori si allentano e le norme sociali non hanno più alcuna validità. È questa la chiave di lettura più corretta per leggere il suo libro? È la bestialità latente pronta a risvegliarsi il motivo di maggiore inquietudine?

R. Nell’ascensore si viene a creare un microcosmo del tutto isolato dal resto del mondo e dalle sue leggi morali. Non a caso il libro si apre con una citazione dalla riscrittura di Grant Morrison de Le centoventi giornate di Sodoma: il castello di Silling è a sua volta un microcosmo separato dal resto della Francia dalle montagne e da una foresta impraticabile, dove le leggi morali vengono riscritte dagli scellerati libertini di De Sade. Nell’ascensore, oltre all’isolamento, la deriva ferina viene alimentata dalle paure primordiali dell’essere umano: la sepoltura, la claustrofobia, la paura dell’altro, il buio. E dai fattori contingenti: il caldo, la mancanza d’aria, lo squillo del telefono.

D. I due giovani, Tomas e Claudia, sono vittime degli adulti sia nella vita quotidiana che nell’evento eccezionale del blackout. C’è una vena autobiografica in questa rappresentazione dei giovani d’oggi? Si pone forse come portavoce delle nuove generazioni, del loro desiderio di libertà, della ferrea determinazione a compiere le proprie scelte in piena autonomia?

R. Ci sono differenti situazioni nel libro. L’ignoranza ottusa del datore di lavoro di Claudia. La felicità finto alternativa e plastificata dei genitori di Tomas, assolutamente certi che il figlio diventerà come loro. La maschera del comico che nasconde un uomo meschino e violento – mi riferisco al padre di Francesca – e il potentissimo padre di Walter, da cui il figlio cerca di emanciparsi senza capire che sta precipitando proprio nelle sue spire. E naturalmente Ferro, che dietro le apparenze rispettabili e soltanto un po’ eccentriche, nasconde ben altro. “Portavoce delle nuove generazioni” forse è troppo. Riguardo all’autonomia delle scelte, temo che il problema per i giovani vada un po’ oltre il superamento del congenito conflitto generazionale: è più il superamento di un modello che viene imposto da ogni direzione, a partire dalla televisione.

D. Nel suo romanzo la realtà è spesso offuscata dalla dimensione onirica e da situazioni paradossali. Si alternano sogni profetici, incubi, allucinazioni, deliri indotti dallo stress. Anche in Dieci cose che ho fatto lei aveva ritratto situazioni ai limiti dell’assurdo. Da che cosa nasce questa predisposizione per la raffigurazione grottesca della realtà?

R. Le situazioni grottesche di Dieci cose che ho fatto sono stemperate dall’autoironia, che sicuramente è una componente che amo e che mi piace risalti nella mia scrittura. Nella mia raccolta di racconti – Luglio, agosto, settembre nero – di ironia sferzante e di grottesco ce n’era in grande quantità. In Blackout si è molto più vicini allo spazio del sogno come lo intendono gli aborigeni australiani. Il sogno del verme di Ferro nel primo capitolo è un sogno o una visione allegorica di quello che gli capiterà, di lì a poco? Mi interessava poi esplorare quel che può accadere a un cervello umano portato fino all’estremo da fattori esterni. Nell’antichità, il filo di cartilagine che collega i due emisferi del cervello era molto meno spesso di adesso, il collegamento tra l’emisfero sinistro (razionale) e quello destro (dell’inconscio) molto più sottile. L’idea era che il cervello dei personaggi, “tirato” fino allo stremo, se mi si passa il termine, ritorni a quell’antica condizione.

D. Ferro e Tomas sono accaniti fan di Elvis Presley e Bruce Spingsteen. Una canzone del Boss accompagna i progetti di fuga di Tomas, mentre la musica di Elvis è la colonna sonora dei crimini di Ferro. Lei ha scritto anche un libro – Accecati dalla luce – in cui si indaga attorno al mondo dei fan di Bruce Springsteen. Quanto è importante la musica per lei e quale influenza esercita sulla sua attività di romanziere?

R. Io suono in due gruppi e ho esordito con un romanzo che raccontava la storia di un immaginario gruppo rock. La musica ha un’importanza vitale, per me. Tecnicamente, mentre scrivo, non sempre ho una colonna sonora in sottofondo. Al massimo musica tranquilla di gruppi che amo moderatamente (se ascolto gli Who finisco per distrarmi) e mai italiana (in quel caso mi farei distrarre dai testi).

D. Bologna è ormai diventata a buon diritto la capitale del giallo italiano: moltissimi protagonisti della narrativa di genere (thriller, horror, noir) provengono dall’Emilia Romagna. È una semplice coincidenza o attribuisce un significato particolare a questo fenomeno?

R. Bologna è la città dei cantautori e dei movimenti culturali ma anche la città della Uno bianca o della strage alla stazione. E certi vicoletti del centro brulicano di studenti, sì, ma sembrano fatti apposta per occultare qualche orrendo delitto. Più che altro, il comico e il tragico sono due facce della classica medaglia. Chi sa vivere, chi sa ridere, chi sa divertirsi come noi di queste terre, sa anche piangere, far piangere, spaventare.

D. Sta già lavorando a un nuovo romanzo?

R. Il nuovo romanzo l’ho appena finito. Seguendo peraltro una curiosa consuetudine meteorologica, per cui tutti i miei romanzi sono stati consegnati in coincidenza con un’ondata di caldo o un’ondata di freddo. Per scaramanzia preferirei non dare anticipazioni, ma posso dire che si tratta di uno psicodramma dai toni meno crudi rispetto a Blackout. Poi ho tre romanzi solo abbozzati da riprendere in mano, e un quarto romanzo-fiume che sto scrivendo da due anni e su cui lavoro soltanto quando l’ispirazione viene a trovarmi. Ho deciso che sarà il mio capolavoro e quindi dovrà essere perfetto. Lo finirò tra tre o quattro anni alla millesima pagina, probabilmente. Mi piacerebbe anche raccogliere in volume i racconti che ho pubblicato sparsi per le riviste, le antologie e in giro per la rete, prima o poi.

Intervista a cura di Marco Marangon

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