“Sotto il falò” è la raccolta di racconti di Nickolas Butler, scrittore statunitense che guida il lettore alla scoperta di un’America lontana dalle luci della ribalta e partecipe di un’umanità autentica, nascosta e dimenticata nel cuore lontano delle praterie… – Su ilLibraio.it un estratto

Poetica fin dal titolo, evocativo di lunghe notti estive trascorse a guardare il cielo e interminabili silenzi intervallati dallo scoppiettio del fuoco, la racconta di racconti Sotto il falò (Marsilio, traduzione di Claudia Durastanti) è il nuovo libro dello scrittore americano Nickolas Butler, autore di Shotgun Lovesongs e Il cuore degli uomini (entrambi Marsilio).

Nato in Pennsylvania e cresciuto nel Wisconsin, dove abita con la moglie e i due figli, in queste pagine Butler dà voce a un’America dimenticata e nascosta, tra praterie, fitti boschi e laghi ghiacciati: i personaggi delle dieci storie sono troppo umani per essere perfetti, bambini commoventi e anziani burberi, donne coraggiose e nonni poetici, uomini sbagliati e papà titubanti, tutti estremamente realistici nella semplicità dei loro desideri.

Nickolas Butler Sotto il falò marsilio copertina

Immersi in paesaggi sterminati e struggenti, i racconti di Butler evocano praterie a perdita d’occhio e boschi fitti come quelli delle fiabe, laghi ghiacciati e tramonti dai colori infuocati, palcoscenico di storie semplici e autentiche, di passioni forti e umanità fragili, tanto lontane dai riflettori quanto vicine al cuore del lettore.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it un estratto dal libro:

Acqua piovana

Il vecchio e suo nipote erano seduti sul dondolo sotto il portico a guardare la pioggia. Si muovevano al ritmo imposto dal vecchio; i piedi del ragazzo ciondolavano, con i lacci sciolti delle scarpe a qualche centimetro di distanza dal portico. L’acqua si raccoglieva nei canali di scolo del vialetto d’ingresso a due corsie fatto di terra ed erba, e attorno al fienile le galline picchiettavano la testa e chiocciavano piano, alzando le zampe mentre pescavano vermi dal terreno nero e zuppo. Una bandiera pendeva pesante da un’asta inclinata e
arrugginita.

«Dov’è la mamma?» chiese il ragazzino. Non sembrava infelice. Si asciugò il naso e fissò il vecchio che si limitava a guardare altrove, battendo lentamente gli occhi celesti. «Nonno?»

L’uomo si fece più vicino al nipote, strofinandogli la testolina bionda con la sua grossa mano da vecchio. Lei era in ritardo, in ritardo di un giorno, e nessun numero che l’uomo chiamava dava risposta. Non poteva certo dire che fosse in pericolo: era una testa calda, lo era sempre stata. Gli mollava il ragazzino ogni venerdì pomeriggio come un pacco. Lo lasciava senza cibo o giocattoli, a volte senza neanche un ricambio di vestiti. Che ne sapeva il vecchio di come ci si prendeva cura di un bambino?

E così il venerdì sera lui e il nipote raggiungevano il paese, cenavano in una tavola calda vicino ai binari della ferrovia, guardavano passare i treni, dividevano una coppa di gelato. Andavano in un grande magazzino e compravano camioncini e trattori giocattolo, biancheria da bambino, salopette, calzettoni, magliette e felpe. Il ragazzino si addormentava sul sedile del pick-up del vecchio mentre percorrevano la strada della contea fino alla fattoria, dove il vecchio parcheggiava e restava ad ammirare il nipote prima di tirarlo fuori e prenderlo in braccio per metterlo a letto. Lì gli rimboccava le lenzuola e la coperta grigia fino a coprirgli le spalle, gli baciava la fronte e gli accarezzava le orecchie, poi si sedeva ad ascoltare il ticchettio della sveglia, aspettando il rumore della macchina di sua figlia nel vialetto. Alla fine andava in cucina a versarsi una tazza di caffè ormai freddo e si torceva le mani chiedendosi dove avesse sbagliato con lei.

«Aspetta un minuto» disse il vecchio. «Stai fermo un minuto. Torno subito.»

«Nonno» fece incerto il ragazzino, e il vecchio riconobbe nella sua voce una punta di paura al pensiero di venire abbandonato, anche solo per un secondo. Il bambino lo guardò minaccioso.

Il vecchio indicò la porta con la zanzariera che portava dentro casa. Si schiarì la voce. «Devo fare pipì» disse.

Il ragazzino annuì dubbioso e il vecchio entrò, attento a non sbattere la porta. Attraversò il soggiorno con la vecchia tv datata e l’orologio a pendolo e i dipinti con le anatre e i richiami per le anatre impolverati e le teste di cervo appese al muro e i mobili logori. Andò in bagno chiudendo con delicatezza la porta e si asciugò la fronte imperlata di sudore. Forse non tornerà a casa questa volta, pensò. L’urina uscì a scatti. Dopo si mise di fronte allo specchio e si lavò le mani guardandosi in faccia: i capelli bianchi, i capillari rotti attorno al naso e sulle guance, la pelle rilassata sotto il mento come quella di un tacchino, le basette che andavano spuntate un paio di giorni fa. Devo occuparmi di più di lui, pensò. Devo essere forte.

Dal portico arrivava una voce flebile: «Nonno, nonno, nonno…»

Prese una tazza di latta in cucina, poi tornò con passo felpato verso il ragazzino, che gli sorrideva dal dondolo.

«Tieni» gli disse porgendogli la tazza.

Il ragazzino la guardò. «È vuota.»

«Hai mai bevuto la pioggia?»

«No, la mamma non mi fa uscire con la pioggia.»

«Ecco, io ti sto dando il permesso.»

«Non fa niente, non ho molta sete.»

«Va bene, allora vai a prenderne un po’ per me.»

Il ragazzino scivolò giù dal dondolo e si avvicinò al bordo del portico, dove le scale scendevano verso l’erba incolta e i denti di leone. Allungò la tazza. La pioggia scendeva dalla grondaia in gocce lente, grosse e cadenzate. Il vecchio si spostò verso il dondolo e si mise a fissare il nipote con le braccia conserte. Ricordò che fare il genitore consisteva nell’inventare sempre nuove cose da fare, lavoretti, giochi.

«No, vai fuori» gli disse. «Vai sotto la pioggia. Prendimi della pioggia fresca, non voglio bere gli scarichi del tetto. Vai, non ti preoccupare se ti bagni.»

Il ragazzino fece qualche passo nella pioggia e le gocce trasformarono il blu della sua maglietta di cotone in un colore più simile al nero. La pioggia iniziò a lisciargli i capelli all’indietro; il ragazzino rise. «È calda.»

Il vecchio sorrise coprendosi con una mano. «Vai avanti. Prendimi un po’ di pioggia fresca.»

Il ragazzino si allontanò ancora di più dal portico, uno strato spesso di nuvole grigie pendeva basso su di lui. Spinse la tazza in fuori, allontanandola dal busto, poi se la mise sopra la testa.

«Nonno, che sapore ha la pioggia?» domandò il ragazzino.

«Di nuvole, immagino. La pioggia sa di nuvole.»

(Continua in libreria…)

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