Pietro Spirito, nel suo libro “Il suo nome quel giorno”, riapre le storie dei profughi istriani, abbandonati dalla Storia e dalla memoria, nella doppia ricerca del sé: una donna cerca la madre, un uomo cerca se stesso…

Pietro Spirito, nel suo libro Il suo nome quel giorno (Marsilio), riapre le storie dei profughi istriani, abbandonati dalla Storia e dalla memoria, nella doppia ricerca del sé: una donna cerca la madre, un uomo cerca se stesso. L’autore, casertano di nascita ma trasferito a Trieste (è giornalista de Il Piccolo e collaboratore della Rai per programmi radiofonici e televisivi), intraprende uno studio profondo delle realtà del territorio in cui vive.

Giulia è cresciuta in una famiglia benestante, che risiede in Sudafrica, con quelli che crede i suoi genitori. Alla loro morte, viene a sapere di essere figlia di una donna italiana, dalmata d’origine, che l’ha concepita in un campo profughi e, per disperazione e miseria, l’ha venduta. E internet diventa un alleato prezioso, per Giulia, che è decisa a cercare tutte le informazioni possibili sulla sua stessa storia. Cerca archivisti, organizzazioni dalmatiche, persone che conoscano la cultura dalmata a Trieste e dintorni. Un impiegato della Cassa pensionistica marittima le risponde e decide di aiutarla. E il viaggio, a tratti commovente e a tratti penoso, può cominciare.

Pietro Spirito ha pubblicato per Guanda Le indemoniate di Verzegnis, Speravamo di più, Un corpo sul fondo, L’antenato sotto il mare. Fra i reportage, segnaliamo Squali! Viaggio nel regno del più grande predatore di tutti i mari, diario di una spedizione in Sudafrica (Greco&Greco) e Nel fiume della notte, viaggio dalle sorgenti alla foce del Timavo, tra Italia e Croazia (Ediciclo).

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto:

Ottobre 2008

È arrivato un altro messaggio. Chiede come sto, e com’è il tempo qui. Dove vive lei, dall’altro capo del mondo, è la stagione opposta, e questa idea di una condizione atmosferica speculare, condivisa in una comunicazione contemporanea visto che abitiamo lo stesso fuso orario, ci è sempre piaciuta molto. Un tempo diverso nello stesso tempo. Scherziamo sempre su questo.

L’anno scorso a Natale mi sono presentato via Skype per i tradizionali auguri con la sciarpa e un colbacco finto sovietico comprato durante una vacanza a Berlino, tanto per farle vedere che gran freddo c’era qui. Lei invece è apparsa sullo schermo in maglietta di cotone rossa a maniche corte, abbronzata e con un cappellino da Santa Claus in testa. Abbiamo riso impacciati, due quarantenni in vena di sciocchezze.

Stavolta si è firmata Giuliana. Dipende da come si mettono le cose nella sua vita. Se è un buon periodo firma con tutti e due i nomi, separati da una barra: Giulia/ Giuliana. Se tutto è più o meno come sempre e non ci sono grandi novità, allora si firma solo Giuliana. Invece nei giorni difficili, contrastati, usa il nome di Giulia. Avere una doppia identità, e due nomi tanto simili, ha i suoi vantaggi. Anche se all’inizio non era così. Ma sono passati otto anni, il tempo scorre e ci cambia, accelera, incide sul modo di osservare ciò che abbiamo intorno, sui nostri rapporti.

Nella sua email arrivata oggi mi chiede come sto, com’è il tempo quassù, e come me la passo. Dice che da lei piove, e che Renata ha appena compiuto tredici anni. Hanno organizzato una bella festa, con i suoi amici e compagni di scuola. Ora Renata ha un fidanzatino, cresce in fretta, Giulia dice che la vede cambiare un giorno dopo l’altro.

Il tenore dei nostri messaggi è questo. La cauta condivisione di piccoli racconti quotidiani, la cronaca minuta delle nostre cose. Mai un cenno a ciò che è successo, quello che c’è stato fra noi. Ma dietro ogni parola vibra un suono speciale, lo sentiamo entrambi, un diapason che annulla le distanze, e mantiene teso il filo di una relazione che nessuno dei due vuole spezzare. Da quest’angolo d’Europa fin laggiù, a Cape Town, la punta estrema di un altro continente, passa la trama di una storia – questa storia – che non è iniziata otto anni fa, ma molto, molto tempo prima.

Perché noi? Perché io? Il caso, forse, o il destino. Ma non è importante. Alla fine conta ciò che siamo stati, l’impronta che lasciamo, per quanto possa essere labile.

A Giulia risponderò domani. Però non resisto all’impulso di sentirla vicina, e come ho fatto tante altre volte digito su Google Maps il suo indirizzo. Con il cursore arrivo subito alla sua abitazione, dall’alto, come in caduta libera, e mi fermo a pochi metri da quei tetti verdi. Resto lì, sospeso, su un’immagine ferma che non è in tempo reale eppure indica un esatto punto geografico, con una sua consistenza, un momento preciso. In questo stesso istante Giulia forse sarà in cucina, o in giardino. Che ore sono? Le sette del pomeriggio, qui sull’altopiano come laggiù, all’estremità del continente africano. Forse Giulia è andata a prendere Renata in palestra. O forse sono già a casa. Ma Renata adesso ha tredici anni, e un fidanzatino, sarà per i fatti suoi.

Osservo sullo schermo del computer l’immagine ferma della casa di Giulia. Manovro il cursore e mi sposto un po’ a destra, poi a sinistra, quindi allargo la visuale fino a comprendere tutto il quartiere. Sono un drone in caccia, vorrei essere davvero lì. Vorrei individuare Giulia nel mirino mentre arriva in auto, parcheggia davanti al vialetto, scende ed entra in casa. L’occhio satellitare plana a livello del suolo, se ci fossero telecamere nascoste nella casa potrei vedere Giulia da vicino: stringo l’inquadratura sul suo volto, lei ignara di essere spiata dall’altro estremo del pianeta continua a tirare fuori la spesa dalle borse. È ancora così bella. Muovo lo zoom focalizzando l’immagine intorno ai suoi occhi, e anche se lo sguardo è concentrato sui lavori domestici rivedo quell’espressione assorta, ferma, il segno di un’anima accesa, la luce scura di un mare profondo che mi colpì con una fitta al cuore la prima volta che la vidi, otto anni fa e sembra ieri.

Ecco, adesso Giulia ha messo via la spesa e si sposta nella stanza da letto. Attivo con la fantasia le telecamere gsm nascoste e la guardo mentre comincia a spogliarsi. Potrei continuare, certo, ma l’incursione per oggi è finita.

Esco da Google Maps, dalle sue visioni fantasmatiche in grafica raster, e mi ricolloco nel presente senza pixel del piccolo salotto-studio quassù tra i boschi.

La sera autunnale è scesa in fretta, gli ippocastani dorati e il rosso fuoco del sommacco sfumano i colori lasciando il posto alle tonalità scure della notte. Da qualche parte, in lontananza, arriva il rauco abbaiare di un capriolo. Un velo di nebbia copre i campi scuri e brulli, l’aria profuma di ciocchi bruciati nelle stufe. Perché proprio io?

(Continua in libreria…)

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