Dal romanzo “Carrie” di Stephen King (portato al cinema da Brian De Palma) a “Il secondo sesso” di Simone De Beauvoir, passando per saggi pubblicati di recente come “Questo è il mio sangue” e “Il libro della vagina”, senza dimenticare superstizioni, religioni, e ovviamente, i ricordi personali, la scrittrice Ilaria Gaspari ripercorre su ilLibraio.it la storia del tabù delle mestruazioni

Dopo l’ora di ginnastica, nello spogliatoio le ragazze fanno la doccia; sono allegre, nel vapore dell’acqua bollente si somigliano, un po’ ninfe un po’ bambine, fra risate e schiamazzi, nella stupidera piena di grazia, insensata e clamorosa dell’adolescenza. Ce n’è una, però, che in quell’esibizionismo sfrontato e sereno cerca di nascondersi, rimane ultima sotto il getto della doccia, si lava con lentezza. E all’improvviso, fra le cosce, l’acqua limpida si tinge di rosso. C’è qualcosa di allarmante, di violento, qualcosa di truce come un presagio, in quel sangue che cola improvviso; c’è qualcosa di antico e inspiegabile, e di perturbante, perché siamo in una storia dell’orrore e anche se non lo sapessimo ancora ce ne rendiamo conto con evidenza improvvisa.

È una storia raccontata da un uomo, sia nel libro che nel 1974 rivelò il talento di Stephen King, maturo come un frutto già perfetto nel momento in cui lo si coglie dall’albero, sia nel film altrettanto perfetto che ne trasse Brian De Palma due anni più tardi.

Le ragazze schiamazzanti nello spogliatoio, vedendo lo spavento di quella che sotto la doccia, nuda come una Eva fiamminga, non capisce cosa succeda al suo corpo, ebbre di una specie di allucinazione da baccanti improvvisano una scherzosa, ma non per questo meno inquietante, lapidazione; bersagliano la ragazza terrorizzata di tamponi, assorbenti interni ed esterni immacolati, e sotto la gragnola stupida e misteriosa di quei colpi il tempo si sospende come davanti a un sacrilegio indecifrabile. È una storia dell’orrore, perché la ragazza spaventata si vendicherà, si vendicherà eccome, raccogliendo il potere che quel menarca tardivo, incomprensibilmente inaspettato, risveglia in lei come un’arcaica forza dormiente. Ed è, per l’appunto, una storia scritta e poi girata da uomini, oltre quarant’anni fa, per di più (c’è anche un remake recente del film, del 2013, la cui regista, Kimberly Pierce, è una donna: molto più patinato e meno teso della versione di De Palma, anche in questa scena, perché semplicemente è un film meno riuscito). Ma proprio in questo straniamento, in questo sguardo implicitamente escluso, in questo presagio del compiersi di un mistero, si percepisce ancora oggi, leggendo o guardando Carrie, un aspetto che in qualche modo perdura e sopravvive: il residuo ambivalente di un tabù arcaico, che difatti riesce a dispiegare il suo potere nell’imbastire, a partire da quel sangue simbolico sparso fra le cosce, un’intera trama horror.

Quel sangue è il marchio di una differenza, fa della ragazza nella doccia un’intoccabile – ed esattamente questo fanno i tabù, attraversando trasversalmente culture e società; il sangue le restituisce anche un potere imprevisto e tremendo, e questo perché siamo in un libro e poi in un film horror, ma anche perché è anche questo che fanno i tabù. E non è strano, allora, che siamo nel bel mezzo di una trama in cui i prodigi telecinetici della protagonista si ritrovano a prosperare di fronte alle violenze che subisce da parte dei bulli della scuola e della madre fanatica religiosa. Il bullismo e il fanatismo fanno di Carrie un’emarginata, una diversa, un’intoccabile: un tabù, appunto, per usare una parola che riguarda tutte le culture, una parola polinesiana adottata dagli etnologi parecchio tempo fa, a partire da una trascrizione che ne fece nel 1778 l’esploratore James Cook.

In genere, l’arrivo delle prime mestruazioni, nella vita vera di una ragazzina, non è così violento né così traumatico; non lo è, almeno, oggi, nella società in cui viviamo. È però, questo sì, una piccola cesura: difficilmente, se glielo chiedeste, una donna – che siano passati due mesi o quarant’anni da quel giorno – non sarà in grado di ricordare un dettaglio in qualche modo legato all’evento: un dettaglio magari anche insignificante, anche minimo, anche solo volto a sottolinearne l’estrema ovvietà. Già il bisogno di metterne in risalto la “normalità”, però, serve a rendere quel fatto qualcosa di isolato ed eccezionale.

In qualche caso è stato forse uno spavento; qualcuna si è vergognata della macchia sul cotone delle mutandine, qualcuna non ha capito immediatamente che fosse sangue. Qualcuna (io, ad esempio), magari ipocondriaca all’ultimo stadio, si è convinta di essere malatissima per via degli inspiegabili, improvvisi crampi alla pancia – perché in genere, all’età del menarca, tutto quello che l’anatomia umana frappone fra petto e cosce va sotto il nome generico, tenero, infantile, di pancia, senza tante distinzioni. Qualcuna ricorda l’imbarazzo, violento come può esserlo l’imbarazzo per un adolescente, nel sentirsi rivolgere dagli adulti frasi come “abbiamo una nuova signorina”, o la meno démodée “ormai sei una donna”.

Siamo in presenza insomma di un rito di passaggio e lo capiamo benissimo anche senza bisogno della lapidazione simbolica di Carrie, o dello schiaffo che una tradizione slava vuole che la madre della ragazza che ha appena avuto le sue prime mestruazioni rifili alla figlia per colorirle le guance nascondendo il pallore che si suppone seguire alla perdita di sangue, ma anche per rendere indimenticabile un momento che non è comunque per niente facile dimenticare. Usanza lievemente violenta che, insieme a mille altre (qualcuna involontariamente esilarante), scopro in un libro divertente, scritto con intelligenza sfrontata e coraggiosa sull’argomento dalla giornalista francese Elise Thiébaut e pubblicato qualche mese fa da Einaudi nella traduzione di Margherita Botto, con una copertina rosso sangue su cui spicca il bianco di un tampone, un titolo provocatorio (Questo è il mio sangue) e un sottotitolo che lascia pochi dubbi sulle intenzioni dell’autrice (Manifesto contro il tabù delle mestruazioni).

Siamo in presenza di un rito di passaggio che, come nota giustamente Thiébaut – e mi stupisco, leggendo il suo libro, di non averci mai pensato, nonostante si tratti di una considerazione abbastanza ovvia – non ha alcun corrispettivo nella vita di un ragazzo. Non c’è, per un maschio adolescente alla prima polluzione, una celebrazione paragonabile del fatto che “ormai sei un uomo”; e questo nonostante, dal punto di vista della fertilità, i due eventi abbiano lo stesso significato.

D’altra parte, questa cosa che sanguina cinque giorni e non muore rappresenta anche dal punto di vista evolutivo in qualche modo una strategia bizzarra che le donne condividono con qualche scimmia antropomorfa e pochi altri animali (fra cui un certo tipo di pipistrello), come spiegano con chiarezza disarmante Nina Brochmann ed Ellen Støkken Dahl, scienziate norvegesi autrici di un altro libro uscito da poco in Italia per Sonzogno (traduzione di Cristina Falcinella), che rompe a sua volta la segretezza da cui è spesso ancora avvolto il discorso sugli organi sessuali femminili, e che si chiama allegramente Il libro della vagina.

Certo, percorrendo la storia affascinante del tabù delle mestruazioni ci si sente ben lontani da quella concezione di impurità quasi blasfema che al ciclo mestruale hanno attribuito per esempio le tre grandi religioni monoteistiche, e anche dai grappoli di credenze superstiziose, evidentemente molto antiche oltre che involontariamente esilaranti, che hanno attecchito per secoli e secoli, e che, lette oggi, mi colpiscono per la loro affinità (che non mi pare affatto casuale) con molte credenze sui vampiri: specchi che si fanno opachi, maionese che non monta, vino che inacidisce.

Ma poi mi fermo a pensarci, e non sono così sicura di questa distanza, nonostante nessuno per fortuna abbracci più la mirabolante girandola di superstizioni sciorinata da Plinio Il Vecchio. Io stessa, me ne rendo conto ora, ogni volta che le nomino ho quasi la sensazione di dire qualcosa di provocatorio, che non sta bene nominare in pubblico, ad alta voce, e men che meno per iscritto; e mi rendo conto ora che il motivo per cui ogni volta che le ho dovute designare ho sempre usato questa parola e non un’altra, era solo il senso di ridicolo che istintivamente collegavo agli eufemismi, da quelli decisamente incomprensibili (“è arrivato il marchese” “che marchese?” “quello che viene una volta al mese”: un dialogo che mi ha lasciata a bocca aperta fino a un’età vergognosamente tarda, quando finalmente ne compresi il senso; oppure “non posso fare il bagno perché vengono a trovarmi le zie”, e poi non si manifestava nessuna zia) fino ai più innocui: “ho le mie cose”, o il beneducato, mansueto “ciclo”.

Mi fermo a pensare agli uomini che si imbarazzano sentendo la parola mestruazioni; e a quelli che commentano il comportamento di una donna nervosa con sguardi cospiratori e paternalistico compatimento, “avrà le sue cose”: un atteggiamento che manda in bestia qualsiasi donna vi assista, confermando spesso i malcapitati nel pregiudizio della loro diagnosi. Penso alle pubblicità di assorbenti, ai loro eufemismi su “quei giorni”, e all’insistenza esasperata sull’importanza della freschezza – quando i pannolini dei bambini invece vengono lodati non certo per la freschezza, ma per il loro alto potere assorbente, e mi chiedo: non è proprio ad assorbire, anziché a rinfrescare, che dovrebbe servire un assorbente?

E per associazione ripenso a quando leggevo Il secondo sesso di Simone De Beauvoir, e trovavo una specie di nostalgia impossibile per un corpo neutro, meno “legato alla carne”, nelle frasi in cui veniva descritta la repulsione per il sangue mestruale il cui odore – mi colpisce ritrovare ora la frase citata proprio nel libro di Thiébaut – era paragonato a quello di “violette appassite”. E per quanto lo trovi un paragone poetico, devo riconoscere che sì, in effetti, è evidente che siamo ancora in presenza di un tabù. Ma il bello dei tabù è che li si può sempre usare per scandalizzare qualcuno – magari leggendo su un treno un libro con una copertina rossa su cui spicca un tampone bianco.

 

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, classe ’86, si è diplomata in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa e ha debuttato nel romanzo con Etica dell’Acquario (Voland).
Qui i suoi articoli per ilLibraio.it.

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