Un percorso che da Milano attraversa l’Albania e la Serbia, per arrivare fino in Bosnia. In libreria “Il clima ideale”

Bosnia orientale, 1992. Sono tutti morti, tranne una ragazza di sedici anni. Ha visto uccidere i suoi genitori ed è prigioniera di Dragan, capo di una formazione paramilitare.
Milano, vent’anni dopo. Michele fa il lobbista, o il “creatore del clima ideale per i clienti”, come dice. È abituato ad avere il controllo in ogni situazione. Ma tutto cambia quando nonno Folco lo incarica di scoprire chi sia davvero Nina, cameriera serba che lavora a Tirana. Qualcosa va storto. Troppa gente si fa male. Qualcuno segue Michele. Perché il nonno vuole informazioni su Nina? Perché tutti quelli che entrano in contatto con lei rischiano la vita? Le risposte si nascondo in un intreccio di indagini private, truppe mercenarie, ambizioni politiche e viaggi notturni fra Milano, l’Albania, la Serbia e la Bosnia.

Il clima ideale

 

Il clima ideale (Laurana) segna l’esordio letterario di Franco Vanni, classe ’82, cronista di giudiziaria per l’edizione milanese di Repubblica. E accompagna il lettore lungo un percorso di sangue, che porta fino al cuore nero dell’Europa…

L’APPUNTAMENTO A MILANO – Mercoledì 16 settembre, alle ore 21, presso lo Spazio Melampo di via Tenca 7, l’autore presenta il romanzo con Lillo Garlisi, Fabrizio Ravelli, Gabriele Dadati e Paolo Roversi.

Su ilLibraio.it l’incipit del romanzo
(per gentile concessione di Laurana)

Bosnia orientale 1992

Mancavano quattro o cinque case al massimo da pulire: una minuscola frazione aggrappata a una scarpata, difesa con disperazione e fucili da caccia dagli ultimi abitanti di quella che era stata una delle più antiche comunità musulmane di Bosnia. Cinque secoli di dominazione turca spazzati via in sei giorni di lavoro.

“Ok”.

Dragan guardò il libro posato sulla sacca chiusa. Poesia epica popolare, di Vuk Karadžić. Lo sapeva quasi a memoria. Lo aveva recitato a scuola, studiato all’università, amato in guerra. Pensò che anche quella sera avrebbe riletto alcune pagine nel tentativo di prendere sonno. Tolse la camicia e si stese sul letto. Era stanco ma sapeva che non sarebbe riuscito a dormire.

Con orrore si accorse di cosa stava succedendo. L’odore cominciò a risalire su per le narici. Prima solo accennato, poi leggero e nitido, infine aspro e pungente. Era il puzzo del suo stesso corpo, e questa consapevolezza lo gettò nel panico. Erano anni che non succedeva e sperava potesse non accadere più. Si sciacquò con calma, prima le mani poi la faccia. Ma l’odore acido crebbe fino a impregnare ogni cosa. La federa del cuscino, l’asciugamano, il libro di poesie. Anche la penna e il taccuino. Dragan sapeva che almeno la penna di bachelite, che nulla assorbe, non poteva puzzare davvero. Eppure puzzava.

Con quell’odore non aveva mai imparato a convivere. Era un fatto di carne, gli aveva detto sua madre. “La tua carne è marcia come quella del cavallo lasciata al sole”, gli diceva. All’inizio non riusciva a sentirlo, il puzzo che lui stesso emanava. Poi, intorno ai dieci anni, ne fu sopraffatto. Il suo odore cominciò a tormentarlo.

“È una cosa psicologica”, dicevano le maestre a scuola.

“È un disturbo psicologico, non c’è nessun odore”, ribadiva il medico.

Eppure lui lo sentiva, e anche mamma.

Dragan prese il coltello dall’astuccio in cui lo aveva chiuso poco prima. Ripassò un’ultima volta la lama con il panno di daino, poi aprì il libro di poesie e ne lesse alcune. A quel punto spense la luce.

Si girò e rigirò nel letto, cercando di non pensare. Lo faceva da bambino e lo fece anche quella notte, nella stanza fredda del casolare isolato che un tempo era stata una pensione per i viaggiatori diretti a Sarajevo, e che lui aveva trasformato in bivacco per sé e la sua truppa.

Al polso destro Dragan aveva un Rolex Daytona, al sinistro un orologio d’oro piatto dall’aspetto più delicato. Anche quelli erano doni dei suoi uomini, raccolti col lavoro chissà dove in terra bosniaca. Per la prima volta, nel buio, ne sentì il ticchettio. Era come se i due orologi si sfidassero in un concerto. Li chiuse nella sacca dell’equipaggiamento, ma il rumore aumentò. Gli sembrava di distinguere, oltre allo scoccare dei secondi dei due orologi fuori sincrono fra loro, anche un’infinità di altri rumori meccanici: lo scorrere delle ghiere l’una sull’altra, il tintinnare di ogni singolo ingranaggio, la corsa rallentata della lancetta delle ore. Rumori lenti che si facevano veloci, poi di nuovo lenti. Accennati e poi assordanti. E su tutto sentiva il proprio puzzo, che neanche diverse golate di rakija erano riuscite a mandare via. Morse più forte che poteva l’orlo della coperta, come faceva da bambino, quando bagnava il letto e sapeva che la madre di lì a poco lo avrebbe picchiato, dopo averlo costretto ad annusare la pozza calda in mezzo al materasso

Disteso immobile sul materasso, sudato nonostante il freddo, immaginò di scendere le scale e ordinare a qualcuno dei suoi uomini di fare cambio di stanza con lui. Era una possibile scorciatoia per uscire da quell’incubo. Forse era solo una questione di camera. Cambiata stanza, l’odore sarebbe svanito e gli orologi si sarebbero fatti silenziosi. L’imbarazzo lo frenò. Non voleva fare sapere alla truppa di essere ancora sveglio.

E se poi anche gli altri avessero sentito la puzza?

Avrebbero riso di lui. Lo avrebbero offeso. “Dragan che puzza come carne di cavallo marcita al sole”.

Finita la breve campagna di pulizia nei dintorni di Višegrad, quegli uomini prezzolati sarebbero passati a un’altra delle tante bande paramilitari che insanguinavano l’ex Jugoslavia. Tutto l’esercito serbo – anzi, quanto rimaneva dell’esercito che un tempo era stato di Tito – avrebbe saputo che il capitano Dragan puzza come una carogna.

Rimase steso sul letto, morse la coperta.

Dopo un tempo infinito, passato nel frastuono degli orologi e nel tanfo di se stesso, Dragan capì che non avrebbe dormito fino al mattino. Decise di reagire. Infilò i pantaloni della mimetica, uscì in corridoio, si portò fino alla ringhiera.

“Portatemi la ragazza in camera”, urlò nell’androne, e tornò in stanza.

Giunta di fronte alla porta nera, la ragazza desiderò essere già morta.

Si maledisse per non essere stata bruciata assieme alla sua casa e a tutto ciò che per lei aveva un senso. Sentì da dentro la stanza l’uomo che la chiamava, con voce calma, e le scese un’ultima lacrima. Poi, come aveva fatto due giorni prima mentre suo padre veniva sgozzato e sua madre violentata e fucilata, si limitò a deglutire e contare fino a trenta. Glielo aveva insegnato sua nonna: conta fino a trenta e i demoni svaniscono.

“Tanti auguri turca”, disse Dragan, aprendo la porta.

Che fosse il compleanno della ragazza, lo aveva letto sul passaporto che le aveva sequestrato e che ora teneva in mano. Quel giorno compiva 16 anni.

(continua in libreria…)

Libri consigliati