“L’ultimo spartito di Rossini” (Piemme) è l’omaggio di Simona Baldelli a uno degli uomini più grandi della storia della musica, in occasione dell’anno rossiniano. L’autrice si sofferma sul lungo periodo di silenzio negli ultimi 30 anni della vita del compositore – Su ilLibraio.it un capitolo

Simona Baldelli lavora in numerose compagnie in Italia e all’estero, occupandosi anche di regia e drammaturgia. Non solo: nel corso della sua carriera è stata speaker e autrice di programmi radiofonici, oltre che curatrice eventi di cultura e spettacolo, festival teatrali e cinematografici.

Il suo primo romanzo, Evelina e le fate (Giunti, 2013), è stato finalista al Premio Italo Calvino e vincitore del Premio Letterario John Fante 2013. A questo sono seguiti Il tempo bambino e La vita a rovescio.

Il suo nuovo libro, L’ultimo spartito di Rossini (Piemme) è il suo omaggio a uno degli uomini più grandi della storia della musica, in occasione dell’anno rossiniano.

L'ultimo spartito di Rossini di Simona Baldelli

Spiega l’autrice: “Scrivere un romanzo ispirato alla biografia di Gioacchino Rossini, nell’anno del 150esimo dalla sua morte, significa complicarsi meravigliosamente la vita. Perché la prima domanda che ci si pone di fronte alla pagina bianca è: cosa si può scrivere di un personaggio di cui si è già detto tutto? Che appartiene all’immaginario collettivo, non solo dei melomani? È stato, probabilmente, l’artista più famoso e osannato di ogni tempo, e già nel corso della sua esistenza. Per lui venne coniato il termine Rossinimania, riferito al periodo in cui si esibì a Vienna. Ogni angolo risuonava della sua musica, le cartoline con la sua immagine andavano a ruba, gli uomini erano vestiti alla Rossini, le donne sospiravano al suo passaggio, i ristoranti avevano piatti a lui dedicati. Una simile smania pervase le altre città in cui visse e lavorò. Tutti volevano frequentare quel musicista gioviale, dalla scrittura facile, che compose il Barbiere di Siviglia in meno di due settimane, dalla la battuta pronta, amante della buona tavola. E così viene ricordato ancor oggi: un ilare opportunista, un bon vivant. Ma, di fatto, smise di scrivere opere a 37 anni, dopo il meraviglioso Guglielmo Tell, se si eccettuano alcuni componimenti di musica sacra e strumentale. Cosa portò il musicista più famoso del mondo al silenzio? Da qui partii per il mio viaggio all’interno di una figura assai complessa. In punta di piedi, per non disturbare il gigante che, da 150 anni, aveva trovato quiete. Scoprii aspetti sconosciuti e dolorosi, profondamente umani, che Rossini cercò di dissimulare per tutta la vita, e lo fece tanto bene da passare alla storia come un allegro buontempone. Il suo personaggio da opera buffa meglio costruito, potremmo dire, la maschera dietro cui si condannò vivere.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto

Gioachino era ubriaco di contentezza.

La madre aveva indicato il cartellone affisso all’ingresso del teatro. «Leggi qui» gli aveva detto.

Era il programma del concerto che si sarebbe tenuto di lì a qualche giorno. Fra i vari numeri elencati, c’era un duetto eseguito dalla cittadina Rossini e figlio. E, più giù: una cavatina cantata dal cittadino Gioachino Rossini che agirà in vestiario e azione di buffo.

La sera tanto attesa finalmente era arrivata. Il giorno prima non avevano mangiato quasi niente perché non c’era più una bottega che gli facesse credito. Aveva ragione Vivazza, la cosa più brutta per un uomo erano i debiti e la scarogna e loro avevano buffi con tutti e malasorte a stufo.

La mattina del concerto Anna uscì di casa col buio e rientrò poco prima del tocco, spettinata e con le guance rosse. Aveva un involto di stoffa fra le mani. «Guarda qui cosa c’è» sussurrò. Nella gluppa c’erano due uova, chiare e lucenti.

Il bambino le accarezzò, stupito dalla bellezza e dal tepore e gli salì un gorgoglio dalla pancia. La madre le bucò con un ago e gliene diede una. «Fai come me» suggerì. Si appoggiò l’uovo alle labbra, buttò la testa indietro e succhiò forte. Poi si carezzò la pancia. Gioachino ripeté le mosse della madre. L’uovo gli scivolò in bocca, morbido e fragrante. Una bontà. Pochi istanti dopo, un calore buono salì dallo stomaco alle guance. Quando si diressero in teatro, conservava ancora un po’ di tepore nelle ossa. Anna invece, dopo aver mangiato l’uovo, scoppiò a piangere e fece tutta la strada, da casa al Comunale, tirando su col naso. Entrarono dall’ingresso degli artisti e si recarono in un camerino già affollato da altre cantanti. Gioachino pensò di sognare. Le signore erano mezze nude, perlopiù in bustino e camiciola. (…) Alcune sedevano davanti a un grosso specchio e si coloravano la faccia. Rosse le labbra, nero il contorno degli occhi, e cerchi rosa sulle guance.

«Oooh, che carino!» strillò una, indicando il bambino. Le altre si voltarono e mandarono gridolini al cielo. Gioachino venne strappato dalle mani della madre. (…) «Guarda che visino» strillarono. «E che deliziosi ricciolini castani.» La signora grossa gli strizzò le labbra fra la punta delle dita. (…) Lui si lasciava trasportare beato. «Fatelo respirare» protestò Anna. «Me lo state rimbambendo.» Le donne scoppiarono in una cascata di risatine stridule.

«Ma no, ma no, che gli piace. Verrà su un donnaiolo, si vede subito!»

«Come ti chiami, bel bambino?»

«Gioachino.»

«Oooh! Gioachiiino!» Gli strilli si fecero ancora più acuti.

«E quanti anni hai?»

«Sette, signora.»

«Canterà in duetto con me» precisò la madre

«E poi una cavatina da solo.»

La donna grande gli pizzicò una guancia. «Abbiamo qui un artista!» tuonò.

«Dobbiamo trovargli un costume» propose un’altra. Venne trascinato dietro un paravento. Un frullio di mani lo toccò, lo spogliò, lo rigirò, gli palpò le braccia e i fianchi, provò la consistenza delle cosce.

«Un po’ magrolino,» commentò la donnona «non sarà facile trovare un vestito adatto.» Lui lasciava fare, le carezze delle signore seminude gli piacevano da matti. Gli misero un paio di pantaloni di velluto nero e li legarono in vita con una cordicella, perché non cadessero. Sopra gli infilarono una marsina porpora, lunga fino ai fianchi e con grandi paramaniche bordati d’oro. Quindi lo portarono davanti allo specchio.

«Che te ne pare?» domandò la signora grossa. Era bellissimo, la stoffa lucida rifletteva il brillio delle candele e lo faceva sembrare più grande. Un giovane nobile, altro che un poveraccio costretto a mangiare a pizzichi.

«Sei un giovanotto, ormai» commentò una donna bellissima che non aveva visto prima. Era un incanto, con grandi occhi castani e riccioli neri fino al petto. «Vieni qui, mamma ti mette un po’ di cipria» aggiunse. Non poteva crederci. La signora dal viso magnifico e la pelle candida era sua madre! Non aveva più le palpebre gonfie né il naso rosso. Anche le mani, di solito screpolate e bucate dagli aghi, si erano fatte morbide e rosa.

«Come siete bella» sussurrò. Anna rise a gola aperta. Non solo era splendida, sembrava anche felice. Tuffò un piumino in una scatoletta sollevando una nuvola di polvere bianca. «Chiudi gli occhi e la bocca» suggerì. Gli picchiettò la faccia con piccoli colpi leggeri.

«Ora guardati.» Il bambino fissò l’immagine nello specchio. Aveva la pelle liscia e compatta e gli occhi risaltavano come stelle.

«La magia del trucco» rise lei.

«La maschera allegra per nascondere la tristezza.»

(…)Lei lo prese per mano. «Andiamo in quinta, mio tesoro.» Sul palco c’era la donnona. Stava cantando un’aria con voce di contralto, potente, da far vibrare il pavimento. Gioachino osservò il sipario arrotolato, le corde e le carrucole che reggevano le scene e gli sembrò di stare nel più bello dei sogni. Anche l’odore stantio della polvere era un profumo magnifico. Anna ascoltava la collega con le palpebre abbassate e le labbra dischiuse in un sorriso, mormorando le parole del brano. «Mamma, siete contenta, vero?» le domandò. Lei si chinò su di lui e gli carezzò la fronte. «Il pubblico deve sempre vederci contenti,» mormorò «altrimenti si indispettisce e non ci vuole più bene.»

«E cosa succede se non ci vuole bene?»

La donna sospirò. «La fame, bimbo mio, la fame.»

La cantante grossa terminò il pezzo. Li raggiunse in quinta e si sventolò con la gonna.

«Oh, povera me» tuonò

«Ho sudato come un bue!» Eppure, pareva aver cantato senza fatica. Anna gli diede un colpetto sulla spalla. «Tocca a noi.» Entrò in scena leggera, correndo sulle punte. Si fermò al centro del palcoscenico e fece un piccolo inchino. Gioachino la guardava imbambolato, anche le movenze si erano fatte più aggraziate, da gentildonna. E si era persino ringiovanita! Sembrava proprio la Cenerentola della fiaba. Si voltò verso il figlio e gli fece cenno di avvicinarsi.

«Dai, vieni a salutare il pubblico.» Il bambino obbedì. Abbassò il capo come aveva visto fare a lei e aspettò l’attacco dell’orchestra. Si trattava di un duetto tratto da L’impresario burlato di Luigi Mosca. Un pezzo divertente, di quelli imparati da piccolo nelle rare serate in cui Anna smetteva di cucire e si univa alle lezioni di musica che Vivazza impartiva al figlio. Cantarono con trasporto e lui cercò di imitare le espressioni della madre; sollevò le sopracciglia il più possibile per mostrare stupore, allargò le braccia per esibire allegria, si portò una mano al cuore quando dovette esprimere la commozione. Alla fine, il pubblico si spellò le mani. Gli applausi lo coprirono di brividi. Chinò il capo per ringraziare e il battimani crebbe d’intensità. Allargò le braccia e rivolse agli spettatori un sorriso spropositato, a bocca aperta. La gente rispose con grida di giubilo. Lui azzardò un saltello di gioia e buttò baci alla platea e ai palchi. Le signore restituirono il gesto e gli uomini lanciarono in aria il cappello. Il bambino si portò le braccia al petto come avesse voluto stringere a sé l’intero uditorio. Qualcuno gridò evviva e bravo, bravissimo! Anna lo osservava annuendo, un sorriso radioso sulle labbra. Aveva ragione lei. Il pubblico voleva vedere gente allegra. Un po’ minchioni, magari, ma pronti al riso e alla battuta. Li avrebbe accontentati. Mai avrebbero saputo della carestia in casa, la tristezza della tavola vuota, del padre in galera e le mani della madre bucate dall’ago. Aveva fame e voleva vederla contenta, come in quel momento. Avrebbe sorriso, sempre. A costo di fare la scimmia ammaestrata, gli sghignazzi col cappello in mano, accanto all’organetto.

© 2018 Mondadori Libri SpA

Pubblicato in accordo con Walkabout Literary Agency

Per gentile concessione di Mondadori Libri Spa per il marchio PIEMME

(continua in libreria…)

 

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