Su IlLibraio.it una storia inedita di Lorenzo Marone, l’autore del romanzo “La tentazione di essere felici” (in libreria l’8 gennaio)

Un consiglio sotto l’albero

 

di Lorenzo Marone*

Le lucine degli alberi di Natale piacciono a tutti. Come gli addobbi per strada, i festoni, le palle colorate, o i Babbo Natale che ballano e cantano. Oddio, sul fascino di questi ultimi potremmo discutere per ore. Ma non è questo il punto. Il punto è che quest’anno c’è un Babbo Natale a grandezza d’uomo anche nella nostra famiglia, comprato dal sottoscritto per sostituire mio cognato Osvaldo, il marito di mia sorella Rosaria, che fa il rappresentante di cosmetici e quando lo vedi, pensi: questo è il tipo che il ventiquattro dicembre si traveste da Babbo Natale per il divertimento dei più piccini, in primis se stesso. E poco ci manca che si presenti anche con una mandria di renne prese in prestito da chissà chi.

Il problema è che Osvaldo quest’anno è caduto dal motorino e si è rotto la gamba. Quando Rosaria mi ha chiamato, sono corso in ospedale e l’ho trovato disteso su una barella, che sorrideva. È una sua prerogativa non perdere mai l’allegria, il suo lato migliore, come dice mia madre. A me, per la verità, l’ostentato buonumore di Osvaldo mi irrita e agita, poiché mi vedo costretto ogni volta ad andargli dietro con una battuta, una risata, o solo fingendo interesse per qualunque fesseria detta intorno alla tavola.

Solo che, come dicevo, il mio antagonista quest’anno è convalescente. «Che peccato» ha affermato una volta in auto, con le stampelle e il gesso, «non potrò travestirmi da Babbo Natale». Mi sono girato e l’ho trovato che sorrideva. E come lui pure mia sorella, seduta dietro ma con il busto proteso in avanti, proprio come faceva da bambina, che si piazzava lì e mi estrometteva, con la benedizione dei nostri genitori che fingevano di non vedere. A ogni modo lei ha subito ribattuto: «Semmai travestiamo Mario. Eh, che ne dici?» e si è girata a guardarmi per cercare il mio consenso.

«Sono troppo magro» ho risposto serio, senza volgere lo sguardo dalla strada.

«E che fa? Ti mettiamo un cuscino!»

«Sì, anch’io uso sempre un cuscino» le è andato dietro Osvaldo.

«Va be’, che c’entra, tu sei grasso davvero, sei un Babbo Natale verosimile» ho ribattuto, riuscendo, infine, a spegnergli il sorriso dalla faccia. Lui, infatti, ha chinato il capo per scrutarsi la pancia e non ha replicato. È stata Rosaria a porre fine alla discussione. «Comunque tu e Osvaldo siete gli unici a poterlo fare. E siccome lui non può, ci penserai tu!» ed è rimasta ad alitarmi sul collo, con la testa inclinata e gli occhi da fuori, tipo Igor di Frankenstein Junior.

Mia sorella non è una bella donna, bisogna essere onesti; non credo sia un problema, però, e immagino che Rosaria sia comunque soddisfatta della sua vita e contenta di avere accanto un marito meticoloso come Osvaldo: non è un bell’uomo, e neppure tanto intelligente, a mio modesto parere, ma spero riesca lo stesso a renderla in qualche modo felice, per quel pizzico che ognuno di noi può rendere felice un altro.

La cosa stupefacente è che l’incontro fra le loro disarmonie ha dato vita a una bellezza eterea: mia nipote Dora, sedici anni, fisico da vamp, capelli lunghi al sedere, occhi da cerbiatta, e carattere ribelle.

«Che c’è, vuoi deludere i tuoi nipoti?» ha incalzato Rosaria.

I miei nipoti sono i due gemelli nati sette anni dopo Dora. Entrambi grassottelli e col naso a patata, assomigliano per filo e per segno al padre. La natura può distrarsi una volta, ma la seconda fa il suo dovere.

«No, è che proprio non mi sento capace…»

«Mario, poche storie, il ruolo di Babbo Natale è tuo!»

Detto, fatto. Io, però, non sono tipo da arrendermi senza nemmeno combattere. Perciò stasera mi sono presentato in famiglia col pupazzo gigante di Babbo Natale, nella speranza che fosse lui a sottrarmi al gravoso compito. Solo che non avevo fatto i conti con i miei terribili nipoti, che hanno impiegato un nanosecondo a detronizzare il povero Babbo Natale, catalogandolo come «finto». Ho fatto notare che anche l’albero è finto, ma nessuno mi ha ascoltato, cosicché, alla fine, sono stato costretto a travestirmi, mentre il pupazzo è rimasto nell’ingresso a cantare e ballare senza platea, come un deficiente.

Eppure penso di essermela comunque cavata, i gemelli sembravano contenti, hanno riso, scartocciato i regali, e anche baciato la mia lunga barba bianca. Infine si sono addormentati con il sorriso sulle labbra, lo stesso col quale mi ha accolto il resto della famiglia in salotto, soprattutto mia sorella, la quale mi ha tirato il cappello e ha detto: «Sei stato perfetto, peccato solo per la risata.»

«No» ho risposto, «ti avevo detto che la risata grassa di Babbo Natale non l’avrei fatta nemmeno se i gemelli piangevano da stasera fino all’epifania!»

Così adesso siamo tutti riuniti intorno all’albero, io, mia madre, mio padre, Rosaria, Osvaldo e Dora, che, in realtà, del Natale se ne frega e scrive messaggi al telefonino. Siamo lì, a parlare del più e del meno, in attesa che qualcuno si preoccupi di dare il via alle consuete manovre di scambio regali. Il problema è che quest’anno l’operazione è più complessa del solito, poiché nostra madre ci ha chiamato a inizio mese per comunicarci che in questo tempo di crisi le sembrava uno spreco comprare cianfrusaglie che non avrebbero fatto felice nessuno e che, al contrario, aveva avuto un’idea molto più proficua. «Ho pensato che potremmo regalarci un consiglio sotto l’albero. Eh, che ne dici? Non ti sembra un’ottima idea?»

«Un consiglio?» ho chiesto incuriosito.

«Eh, un consiglio. Ognuno di noi può dare un consiglio all’altro, un solo consiglio. È un modo per parlare un po’, per scambiarci qualcosa che non siano stupidi oggetti. Che ne pensi?»

Era così entusiasta che non me la sono sentita di dirle che un consiglio è molto più impegnativo da donare di un paio di calzini, e quindi ho ribattuto che l’idea mi sembrava accattivante. «E papà che ha detto?» ho chiesto subito dopo.

«Nulla, ha fatto una smorfia e ha risposto: ’Almeno quest’anno non farò incetta di calzini e dopobarba!’».

Ho salutato mia madre e sono corso sotto l’albero a sfilare un pacchetto con dentro un bel paio di calzini a rombi appena acquistati per papà.

«Allora» esordisce nostra madre, e batte le mani per richiamare l’attenzione, «come sapete, ho preteso che non ci facessimo regali inutili. All’inizio volevo semplicemente dirvi di non comprare nulla, poi, invece, ho pensato che avremmo potuto utilizzare questo tempo a disposizione per stare insieme in modo diverso…»

«Peccato, suocera» interviene Osvaldo, «ti è andata male, quest’anno avevo pensato di regalarti una bella vestaglia!»

«Gliel’abbiamo comprata l’anno scorso» fa mia sorella.

«Appunto» ribatte velocissimo Osvaldo, che, evidentemente, attendeva proprio la spalla della moglie per portare a termine la sua folgorante battuta, e scoppia in una risata fragorosa. Per fortuna nostra madre riprende subito il controllo delle operazioni: «Ecco, non volevo che farci un regalo diventasse anche stavolta un obbligo e uno spreco. Così ho pensato di donarci preziosi consigli.»

Mio padre, seduto sulla poltrona, sbuffa mentre pulisce gli occhiali.

«Un consiglio è sempre ben accetto e può fare solo bene. E poi ci aiuta a parlare un po’ di noi, di voi. Non parliamo mai, sempre presi da mille cose inutili…»

«Ma che le è preso?» domando sottovoce a papà al mio fianco.

«Non lo so, tua madre è in una fase esplorativa della vita. Pensa che ora fa yoga e segue un corso di abbraccioterapia.»

«Abbraccioterapia?»

Lui mi fissa un istante sforzandosi di restare serio, ma alla fine capitombola e inizia a scuotere il corpo in preda a una risata convulsa.

«Renato, e figurati se non iniziavi a fare lo stupido!» interviene mamma, il tono della voce squillante, lo sguardo fisso sul colpevole, il busto dritto e le mani conserte. L’attimo seguente indossa di nuovo il suo sorriso conciliante e torna a noi. «Insomma, chi vuole iniziare?»

Rosaria guarda Osvaldo, il quale guarda me, che mi giro verso mio padre. Quest’ultimo, invece, punta Dora, la quale sta ancora rispondendo a un messaggio e se ne frega del nuovo gioco.

«Va bene, comincio io» dice allora nostra madre, e fa un lungo sospiro.

«Il consiglio per mia nipote» e si rivolge a Dora, «è di vivere nel presente. Qui e ora. Lo so, adesso sei proiettata ai tuoi amici, all’amore, alle uscite, però cerca di goderti ogni momento, anche questi in famiglia.»

Rosaria solleva il busto dal divano e applaude entusiasta. Dora, invece, continua a digitare come una furia sul telefono.

«Dora, hai sentito nonna che ha detto?» domanda la madre indispettita.

«Come no» risponde mia nipote, «qui e ora, qualcosa del genere.»

«Sei sempre la solita!» esclama Rosaria, e si accascia sul divano.

Osvaldo pensa bene di intromettersi: «Lasciala stare, è una ragazza.»

«Osvà, con questa storia del lasciarla stare andrà a finire che tua figlia non avrà più regole fra un po’!»

«Va be’, non litigate» interviene mia madre, «è un gioco. Passiamo oltre. A Osvaldo consiglio di stare un po’ più attento alla dieta, la sua è un’età particolare. A mia figlia, invece, consiglio… ecco, forse… di… ascoltare un po’ di più gli altri, le persone che la amano e vogliono il suo bene.»

A queste ultime parole, il silenzio si impossessa della scena. Mia madre si è spinta un po’ troppo oltre, penso, e cerco di nascondere il viso per non farmi scoprire a ridere. Rosaria fissa la madre e Osvaldo la sua pancia.

«Che vuoi dire?» domanda infine mia sorella.

«Nulla, amore, solo che ogni tanto ti farebbe bene ascoltare chi ti è attorno. Ti aiuterebbe anche a non vedertela sempre da sola.»

«Non è sola, ci sono io» interviene Osvaldo, ma nessuno se ne accorge.

«Perché, non ascolto gli altri?» domanda Rosaria, e si gira a guardare il marito, il quale, poverino, messo alle strette, si affretta a ribattere: «Ma no…»

«Non ascolto gli altri?» domanda di nuovo lei, e stavolta guarda me.

Alzo le spalle e tento di rispondere con un sorriso conciliante: «Be’, diciamo che ti piace più parlare che ascoltare.»

Rosaria si porta le braccia al petto e ribatte offesa: «Non mi sembra proprio, ma andiamo avanti.»

«A te, Mario, consiglio di imparare a lasciarti andare un po’ di più alla vita. Sei troppo sulle tue, un po’ burbero forse. Dovresti liberarti e non cercare di controllare sempre tutto. Anche dal punto di vista fisico, ti farebbe bene abbracciare un po’ di più, cercare di entrare maggiormente in contatto con le persone. E poi non posso non consigliarti di trovare finalmente una donna con la quale mettere su famiglia.»

Attendo che mia madre abbia finito e mi guardo intorno. Dora scrive ancora al telefonino, gli altri, invece, mi fissano. Allora mi produco in una smorfia e commento: «Be’, a parte il fatto che non vale perché mi hai dato più di un consiglio, non credo di tenere a distanza le persone. E poi non è che la vita ti dia tutte queste possibilità di abbracciare gli altri.»

«E tu le devi trovare le occasioni, anche quando non ci sono.»

«Questo è un altro consiglio» ribatto.

«Dalle ragione, altrimenti lo strazio non finisce più» bisbiglia mio padre.

«A me non mi hai mai abbracciata» interviene mia sorella, ancora stizzita per lo scambio di poco fa.

«Non è vero» replico subito, «semifinale dei mondiali 2006, Italia Germania. Gol di Grosso. Ti ho abbracciato a lungo in quell’occasione.»

Lei strabuzza gli occhi e ribatte: «Ma và» e tira uno schiaffo nell’aria, «e io che perdo pure tempo a parlarti!»

Sorrido divertito e accavallo le gambe.

«A chi tocca?» chiede poi mia sorella.

«Aspè, devo ancora dare il consiglio a tuo padre.»

«Ah, è vero.»

«A te» prosegue mamma, e guarda dritto in faccia il marito, «do un solo consiglio: smetterla di pensare di essere l’illuminato, l’unica persona sulla terra ad aver capito come va la vita.»

Lui sorride e risponde: «Ti sbagli, cara, io non ho capito proprio nulla. Altrimenti non ti avrei sposato.»

Mamma sgrana gli occhi, che si fanno piccoli e lucidi, quindi si guarda intorno smarrita, si alza con uno «scusatemi» e si rifugia in bagno.

«Pà, ma che dici?» interviene mia sorella, sempre più nera.

«Stavo scherzando» cerca di difendersi lui.

«Queste cose non si dicono nemmeno per scherzo!» ribatte Rosaria, e si alza per andare dietro alla madre.

Papà si gira verso di me: «Stavo scherzando…» ripete con un filo di voce.

«Be’, forse hai un tantino esagerato» rispondo.

«Le donne se la prendono assai per queste cose» dice Osvaldo.

«Nonno, certe volte sai essere proprio stronzo» è, invece, il primo commento della serata da parte di Dora.

Occorre un quarto d’ora per rimettere le cose a posto. Quando nostra madre torna a sedersi, ha il trucco sciolto sotto gli occhi, ma sorride, come nulla fosse. Io, invece, ho impiegato il tempo per osservare un po’ meglio la casa dei miei e mi sono accorto che vi sono gingilli natalizi in ogni angolo, sulla credenza, appesi ai quadri, sulla televisione. C’è persino dell’ovatta che penzola dal lampadario, e nella testa di mamma la scena dovrebbe simulare la neve aggrappata a un ramo di quercia. E poi c’è lui, il re del Natale, il maestoso albero spruzzato di vernice bianca che lampeggia a intermittenza i suoi colori violacei e mostra impettito sul pennacchio il grosso fiocco fucsia dal quale sgorga, come una nenia, la solita musichetta natalizia. Tutto sarebbe perfetto, insomma, se non fosse che il presepe, invece, è alquanto raffazzonato, per usare un eufemismo. In realtà ci sono quattro pastori (Giuseppe, Maria, il bue e l’asinello) appoggiati sull’angolo della credenza, senza nemmeno una stella cadente sulla testa, un re magio o una pecorella. È che il presepe è sempre stato affidato alle cure di papà, che quando ero piccolo iniziava i preparativi con mesi di anticipo. Il tempo, però, deve avergli rubato l’entusiasmo e anche la voglia di prendersi cura degli altri, perché adesso nostro padre si limita a poggiare i pastori sul mobile e buonanotte. E, a pensarci, la storia del presepe nella nostra famiglia è la storia della vita di papà e, forse, di ogni uomo: sempre più piccolo e sempre più spoglio, fino ad arrivare a questa specie di parodia.

«A te, mamma» prende la parola Rosaria, euforica per l’arrivo del suo turno, «avrei consigliato altro, ma ora credo sia opportuno suggerirti di non dare troppo peso a quello che dice papà, e gli uomini in generale. Sono essere inferiori» e sorride.

Nostra madre sembra divertirsi, mentre Osvaldo, invece, se la prende davvero: «Ehi, aspetta un momento…»

Rosaria, però, lo zittisce con un gesto e passa alla figlia. «Al mio amore consiglio di non perdere la sua ingenuità e di pensare sempre con la sua testa. A te, invece» e guarda il marito, «di scendere un po’ di peso e arrabbiarti di meno quando il Napoli perde.»

«Uffa» sbraita Osvaldo, «possibile che tutti mi diciate di dimagrire?»

«Pà, se hai la pancia, non è colpa nostra» commenta Dora.

«Per Mario, invece, ho un bel consiglio: smettere una buona volta di fumare e di stare a rimpiangere quello che non è stato. E per te, papà…»

«Ehi, aspetta» intervengo, «che vuoi dire con la frase sul rimpiangere?»

Ma lei prosegue come nemmeno avessi parlato. «Per te, papà, un suggerimento ancora migliore: portare una volta mamma a cena fuori, in un bel ristorante di lusso semmai.»

«Sì, fantastico consiglio!» esclama Dora, e incrocia le gambe sotto il sedere.

«Come se non l’avessi mai fatto…»

«Scusate, volevo sapere perché…»

«Quando è stata l’ultima volta?» incalza Rosaria.

«Già, quando è stata l’ultima volta?» si intromette mamma e resta a fissare il marito in segno di sfida.

Lui guarda ognuno di noi e ribatte: «E che ne so, scusate, mica tengo il conto. Ma poi, che è questo, un plotone di esecuzione?»

«Volevo un attimo parlare…» dico io e alzo la mano.

«Nessun plotone, pà, è che non puoi pensare che mamma non debba più andare a un cinema o a un ristorante perché tu non ne hai voglia.»

«Ha le amiche» ribatte lui.

«Non è la stessa cosa» prosegue Rosaria.

«Lascia stare…» dice mamma.

Mia sorella, però, non sembra aver finito. «Io davvero non capisco perché hai deciso di aspettare la morte su quella dannata poltrona» dichiara, rivolta al padre, «e tu» e si gira verso mamma, «perché hai deciso di metterti in attesa al suo fianco! Non sei ancora vedova, lo vuoi capire?»

Nessuno parla più; Osvaldo gioca con i batuffoli di lana del maglione e io strofino nervosamente la mano contro il bracciolo del divano. Potrei approfittare per chiedere adesso spiegazioni per la frase sui rimpianti, ma non mi sembra più il caso. L’unica che, invece, non sembra in imbarazzo è Dora, la quale sbuffa annoiata e, con gli occhi rivolti al soffitto, afferma: «Mamma mia che palle ’sto Natale!»

A questo punto Rosaria dà in escandescenza. «Dora» ribatte con voce stridula, «stiamo parlando di una cosa importante, non è che adesso non si può fare più una discussione altrimenti ti agiti!»

«Tu fai sempre discussioni! Tu vivi per le discussioni!» sbraita Dora e si rifugia in cucina.

Rosaria allora punta gli occhi sul marito, che indietreggia contro lo schienale del divano e si fa piccolo piccolo, e dice: «Hai visto? Sei contento?»

«Io? Contento? Che c’entro io, scusami?»

«C’entri, tu c’entri sempre. Quante volte ti ho detto che la stai viziando troppo? Crede di comandare lei ormai.»

Poi, l’attimo seguente, Rosaria torna a fissare il padre. «Allora, non dici niente?»

«Che devo dire?»

«E figurati. E tu invece?» rivolta a mia madre.

Quest’ultima china il capo e ribatte con un sussurro: «Mi dispiace…»

«Mi dispiace di che? Di cosa? La vuoi smettere di chiedere scusa a tutti? Anche per colpe non tue? Una vita passata a chiedere scusa… non è possibile!» e si allontana anche lei dal salotto.

Passa qualche secondo prima che papà si accosti al mio orecchio per chiedere: «Che dici, il gioco è finito? Possiamo alzarci?»

«Scusami, Rosaria» dico entrando in cucina, «mi spiegheresti per cortesia cosa intendevi con la frase sui rimpianti?»

«Mario, per favore, non ti ci mettere pure tu stasera» risponde lei, alle prese col muso lungo di Dora.

«Lascia stare» s’intromette mia madre, e mi dedica un sorriso dolce mentre prepara una camomilla.

«Non ho capito, qui tutti possono dire la loro, gettare accuse sugli altri, e io non posso neanche fare una domanda?»

«Bravo zio, finalmente ci sei arrivato» commenta Dora, il viso sostenuto dal braccio poggiato sulla tavola, «tu non conti niente, come ogni uomo di questa famiglia del resto. Come papà, e il nonno.»

Resto a guardarla sbigottito, allora lei aggiunge: «Io non c’entro, la colpa è loro» e indica madre e nonna in piedi davanti a me.

«Dora, stasera stai superando ogni limite!» esclama Rosaria.

«Lasciala stare» ribatte mia madre, come non sapesse dire altro.

«Mà, non dirmi come educare mia figlia, che già ho un marito che sta crescendo una ’stronzetta’!»

Nostra madre rimane di sasso e si porta le mani alla bocca, Dora, al contrario, sbuffa, per nulla turbata dall’offesa ricevuta, si alza e, senza dire una parola, torna sul divano. Io, invece, mi rifugio sul balcone e mi accendo una sigaretta, alla ricerca di un po’ di pace. Mentre fumo, lo sguardo mi cade sul palazzo di fronte, dove c’è una piccola stanza illuminata con l’albero in primo piano davanti alla finestra, e sullo sfondo una tavolata piena di gente contenta che sistema i fagioli sulle cartelle. Il più anziano ride e ogni tanto estrae un numero della tombola dal paniere. Sembra di guardare una favola, e quasi mi sembra di sentire l’odore del marzapane nella stanza e l’albero che canta le strofe di Jingle Bells. A soli dieci metri da questo miscuglio di rancori tenuto insieme con un filo di cotone che è la nostra famiglia, ce n’è un’altra che fa quello che dovrebbero fare tutte le famiglie a Natale: giocare a tombola e sperare che la serata passi il più in fretta possibile.

«Mi offri una sigaretta?» chiede mia sorella appena giunta al mio fianco.

Le passo il pacchetto e resto a guardarla. Lei accende, fa un paio di tiri nervosi, e dice: «Intendevo che… non lo so, mi sembri una di quelle persone che stanno sempre a rinvangare il passato, a cercare nell’infanzia la risoluzione di tutti i problemi. D’altronde, fai terapia da quanto? Sei troppo cervellotico, senti a me, dovresti pensare meno e agire di più.»

Sorrido e attendo che lei faccia altrettanto, cosa che non avviene. Non sono tipo da alimentare i conflitti, soprattutto in famiglia. Soprattutto a Natale. Però una cosa la devo dire. «Sì, forse è vero, però tu fai l’esatto opposto, organizzi mille cose per non fermarti a pensare mai, eppure non mi sembra che a te vada tutto alla perfezione, anzi mi sa che la più incazzata fra noi, sei proprio tu.»

Rosaria spegne il mozzicone a metà e ribatte: «È che quei due vecchi di là mi fanno impazzire, con la loro relazione piatta e le vite sempre uguali da cinquant’anni. Li guardo e ho paura di diventare come loro, che si scambiano i ruoli di vittima e carnefice di continuo.»

«Rosà» ribatto e spengo anch’io la cicca, «mi dici che penso troppo e poi sei capace di cadere nel più classico dei trabocchetti: il Natale. Perché non fai come me? Qualche stupido sorriso, un commentino ogni tanto, una sbirciata all’orologio e via, alla tua vita, alla tua casa, che, ti ricordo, non è più questa. La vita intendo. E anche la casa.»

Lei ride. «Ma come fai a farti scivolare le cose di dosso? Anche da piccolo, eri capace di non arrabbiarti mai, nonostante le loro mille discussioni.»

«In realtà non me le faccio scivolare di dosso, le ingoio. Perciò pago un terapeuta, che ha il difficile compito di insegnarmi a rimettere.»

Rosaria fa una smorfia di disgusto e mi abbraccia. «Sei pazzo» commenta poi.

«Segnati questa data sulla rubrica» replico subito, «così non mi dirai più che non ti abbraccio.»

«Che c’entra, ti ho abbracciato io.»

«Vale uguale. E non voglio sentire ragioni.»

Rosaria sorride di nuovo, quindi si stacca un po’ da me, mi punta gli occhi e dice: «Credevo fosse una bella idea quella di mamma. In fondo è vero che non parliamo mai. Invece…»

«Invece è un’idea del cacchio, solo che a lei non l’ho potuto dire. Siamo andati avanti per quarant’anni in famiglia a non parlare, perché cambiare le buone abitudini? Perché rompere un equilibrio raggiunto con tanti sacrifici?»

«Scemo…» fa lei e mi tira uno schiaffetto.

«Ragazzi, venite» si affaccia mamma, «che non abbiamo ancora finito. È il turno di vostro padre.»

«Ma come fa a fingere che vada sempre tutto bene?» domanda Rosaria quando lei è già in salotto.

«Non lo so, ma credo sia la sua salvezza.»

«Allora… insomma, che devo dire?»

Mamma sbuffa, seguita a ruota da Rosaria.

«Che devi dire, pà, secondo te? Che cosa abbiamo fatto finora?»

«Va be’, dai, se non ne è capace, passiamo al prossimo» commenta mamma.

«No» ribatte subito Rosaria, «tutti stiamo facendo questo giochino, e lo fa pure lui. Può essere che una volta tanto avremo l’onore di ascoltare cosa gli passa per la testa!»

Osvaldo afferra il braccio della moglie nel tentativo di rabbonirla, ma il gesto ha l’effetto contrario; Rosaria si divincola e dice: «Osvà, mi devi fare il piacere, ti devi fare i fatti tuoi. Che, io intervengo quando siamo da tua madre? Eppure potrei farlo, visto che quella vipera non apre bocca se non per colpire il prossimo!»

«Rosaria, non ricominciare con mamma!» alza la voce Osvaldo, che per la prima volta da che lo conosco mi sembra davvero incazzato.

«Nonno, per cortesia, dacci questi consigli, se no ’sti due ricominciano» interviene Dora, mentre scrive al telefonino.

«Dai, papà, levati ’sto dente» sussurro.

Lui fa uno sbuffo, socchiude gli occhi, accavalla le gambe, e inizia: «Vabbuò, e parliamo! Rosà, tu sei la mia vita, lo sai, sei sempre stata la più…» poi si blocca, si gira verso di me e sorride. Io alzo le spalle e allora lui prosegue: «Insomma, la figlia femmina è quella più coccolata. Questo è risaputo. Però, ecco, insomma… non so come dirtelo, ma… adesso… hai un po’ rotto le palle!»

Rosaria dedica al padre uno sguardo smarrito, come mia madre del resto. E come me, che, però, sotto i baffi me la rido pure. «E che diamine, stai sempre arrabbiata figlia mia, e che è? Dovresti calmarti un po’. Perché non ti iscrivi con tua madre a yoga?»

Rosaria si strofina le mani sui pantaloni prima di ribattere con voce glaciale: «Come se avessi il tempo di fare yoga.»

«Amore» interviene Osvaldo, e alza le mani per discolparsi, «se è per la cena, io te l’ho detto, aspetto, non c’è problema. Se è solo una volta a settimana, ovvio.»

Rosaria prosegue come se il marito non avesse parlato. «E, comunque, se sto sempre tesa è anche per colpa vostra.»

«Di chi?» chiede papà.

«Tua e di mamma.»

«Sì, va be’, la solita solfa dei genitori carenti. Rosà, tieni quarantacinque anni, potresti anche iniziare ad assumerti qualche responsabilità per le mancanze della tua vita!»

Nella stanza cala un silenzio strano; non è solo imbarazzo, è più che altro stupore per aver ascoltato un pensiero dal risvolto psicologico da parte di papà, che da quindici anni in famiglia parla solo di cibo, sport, e qualche volta politica. Perciò è tale l’incredulità che anche Rosaria rimane a fissare il padre senza dire una parola, mentre il viso le si contorce in una smorfia trattenuta di pianto che mi porta alla mente la Rosaria piccola, che di fronte ai rimbrotti di lui faceva lo stesso, tentava di arrestare le lacrime per non dargliela vinta. Allora decido di intervenire, anche se mi ero ripromesso di sorridere sornione per l’intera serata, in attesa di sgusciare via allo scoccare della mezzanotte. «Sentite, capisco l’entusiasmo per il nuovo gioco e per l’idea di volerci confrontare, ma perché non torniamo al vecchio Natale, quello di sempre?»

«E non abbiamo i regali però» commenta Osvaldo.

«Zio, guarda che ormai non si può tornare indietro» afferma Dora, che a quindici anni ha già capito meglio di me un comandamento essenziale della vita: indietro non si torna. Per fortuna o purtroppo.

«Chi ti ha detto che io abbia delle mancanze? E, soprattutto, chi ti dà il diritto di dare giudizi?» riesce, infine, a reagire Rosaria. Dopo un primo istante di assestamento, è partita alla carica.

«In realtà è proprio il gioco che prevede di dare giudizi…» intervengo con una risatina che mi muore sul viso appena mia sorella si gira e mi dedica uno sguardo truce, molto simile a quello che mi fulminò quando le versai l’intera tazza di latte bollente sull’album delle figurine di Candy Candy.

«Non do giudizi, amore, partecipo al gioco, come tua madre mi ha chiesto di fare…»

«Sì, tesoro» interviene quest’ultima, «è solo un gioco.»

«E allora non voglio più giocare» ribatte Rosaria e si riversa di nuovo nel corridoio.

«Sei contenta adesso?» domanda papà, e fissa la moglie con le braccia conserte al petto. Questa china il capo e sussurra: «Non è colpa mia se non riusciamo a scambiarci un pensiero senza litigare.»

«Mà, non si possono dare consigli in famiglia senza litigare» rispondo io, «dovresti averlo capito alla tua età. Se c’è una cosa di insanabile nella vita, sono proprio le ferite familiari.»

Lei si zittisce, così decido di prendere in mano la situazione. «A ogni modo, adesso dico i miei consigli e poi ce ne andiamo a dormire.»

«Non è il caso» replica mia madre.

«Sì, invece è il caso. Siccome sono qui da un’ora a sorbirmi questa tortura, adesso dico anche io la mia. Allora, a te, mamma, consiglio di cercare quello che ti manca al di fuori di queste quattro mura. Se papà ha deciso di attendere la morte, fatti un’amante e lascialo qui a marcire!»

Lei cerca di stopparmi, ma ormai sono un fiume in piena. «A te, invece» e guardo lui, «consiglio di tornare a cucirti la bocca o, semmai, a conversare di sport e politica, che i rapporti umani non sono proprio il tuo forte. A te, Osvà, invece, non consiglio proprio un bel niente, anzi, no, consiglio di restare quel che sei, che se per caso dovessi cambiare, forse non saresti più in grado di passare la vita accanto a mia sorella.»

«Mario…» tenta di dire ancora mia madre, ma io proseguo. «A mia sorella, che è di là e non può sentirmi, consiglio semplicemente di amarsi un po’ di più, e a te invece» e mi giro a fissare Dora, «do il primo consiglio sentito e sensato della serata. Perché credo che tu sia l’unica che ne abbia davvero bisogno. O, forse, l’unica alla quale non servono consigli. In ogni caso ti dico di prendere la vita a morsi, tu che ancora puoi, cioè di sfruttare al meglio la sola occasione che ti è stata data su questa terra, e quindi di vivere a mille all’ora, di riempirti di bellezza e di non pensare troppo, ma di muoverti sempre, di amare il più possibile, di ridere a crepapelle ogni giorno, di fare sempre qualcosa di nuovo, e di non perdere tempo a soffrire inutilmente. Che tempo ne abbiamo poco.»

Quando smetto di vomitare le tante parole ingoiate negli ultimi anni, mi rendo conto che tutti si sono zittiti e nella casa sembra essere tornata la calma. Persino mia sorella si è rifatta viva e ora mi guarda commossa, appoggiata allo stipite della porta con le braccia al petto, mentre tenta di nascondere le lacrime all’interno degli occhi. Dora, invece, si alza e mi bacia sulla guancia. Poi va dalla madre e la abbraccia, anche se il gesto appare abbastanza forzato. Solo che è sufficiente per far commuovere la nonna, mentre il nonno inizia il solito balletto per sistemarsi meglio sulla poltrona, come fa sempre quando è in imbarazzo. Osvaldo sorride, e io con lui. Non so come, ma stavolta sono riuscito a combinare qualcosa di buono. Perciò mi alzo soddisfatto, soprattutto perché ho posto fine al giochino pericoloso, e mi avvio a prendere il giubbino dall’attaccapanni. È Dora a fermarmi. «No, se permettete, tocca a me concludere il giro.»

Sgrano gli occhi e mi risiedo, mentre con la coda dell’occhio noto papà che si guarda attorno terrorizzato; anche lui credeva che la serata fosse finita. Nessuno, infatti, ha mai pensato davvero che gli altri sentissero la necessità di ascoltare i consigli di Osvaldo.

Dora attacca a parlare. «Ai nonni dico: avete passato una vita insieme, e per me questa è una cosa enorme, non so come sia possibile stare cinquant’anni con la stessa persona accanto. Eppure voi l’avete fatto. Dovreste essere fieri e smetterla di litigare. Ecco, questo penso. A te, zio, consiglio, invece, di fare le stesse cose che hai consigliato a me. In fondo sei ancora abbastanza giovane per poter prendere a morsi la vita. E a voi due» e fissa con aria dura i genitori, «dico l’esatto contrario: di pensare un po’ di più alla vita dei vostri figli, e intendo i gemelli, che tanto io sono grande ormai.»

Quando Dora finisce, Rosaria sta ormai piangendo. Osvaldo, invece, si guarda di nuovo la pancia, e i nonni fissano i pavimenti. Perfetto, il regalo migliore ancora doveva essere scartocciato. Benedetto Natale!

«Cosa ti ho fatto mai mancare?» domanda allora mia sorella con un filo di voce, mentre una lacrima le scivola via sulla guancia.

«Vuoi che ti faccia un elenco?»

«Rosà, mo basta» dice Osvaldo, e si alza nel tentativo di zittire la moglie.

«Non ti permetto di dirmi cosa fare» urla lei, «se tu te ne freghi di quello che dice tua figlia, io no, io voglio sapere perché ci odia!»

Dora sbuffa di nuovo e se ne va, forse per nascondere il pianto. È nostra madre a intervenire. «Rosaria» dice, «non fare così, è una fase dell’adolescenza, Dora ora deve ribellarsi a voi, ma presto capirà. Anche tu lo hai fatto…»

«E no» ribatte Rosaria, «io non l’ho mai fatto, non mi sono mai permessa di dire che con i vostri continui litigi mi avete rovinato l’infanzia. È stato Mario a farlo, io, invece, ero troppo «perfettina» per mandarvi a quel paese. A me non era permesso. E allora sapete che c’è? Che ve lo dico adesso: mi avete rovinato l’infanzia. Ecco, l’ho detto!» e si lascia andare a un agognato sospiro.

«Rosaria, e dai, smettila!» interviene Osvaldo, che ha smarrito anche l’ultimo residuo di allegria dal volto.

«Osvà, fatti i fatti tuoi e pensa a tua figlia!»

«Rosaria…» ribatte di nuovo mamma, ormai sull’orlo del pianto e in preda allo sconforto.

Solo che a questo punto è nostro padre a prendere in mano la situazione; si alza a fatica dalla poltrona, si schiarisce la voce, e urla: «Basta!»

Tutti si zittiscono e si girano all’unisono verso di lui, e nel silenzio improvviso la canzoncina natalizia che sgorga dal pennacchio dell’albero prende il sopravvento per qualche secondo.

«E mo ci avete rotto i coglioni! Tutti quanti! Non voglio più ascoltare una sola parola. Un solo fottuto consiglio. Anzi, sapete che vi dico? Che ora vado a fare pipì, così non vi sento più nelle orecchie». Quindi infila il corridoio strascicando le pantofole e si chiude nel gabinetto.

Allora decido di approfittare del momento di stasi, mi alzo e afferro il giubbino, do un bacio sulla fronte a mamma, che non parla più, carezzo la guancia di Rosaria, che fissa il pavimento, do una pacca sulla spalla a Osvaldo, e strizzo l’occhio a mia nipote, che se ne sta appoggiata al lavello della cucina con le mani in tasca. Quindi mi avvio all’ingresso, dove ad attendermi c’è ancora il Babbo Natale che mi scruta con i suoi occhietti furbi nascosti dietro la folta barba bianca. Gli lancio un’occhiata e premo il pulsante di accensione, e subito lui riprende a ballare goffamente. Poi apro la porta e resto ad attendere l’arrivo dell’ascensore. Dopo un po’ arriva papà, che mi guarda e commenta: «È stata un’idea stupida.»

«Già.»

«Ma vedrai che domani sarà già tutto dimenticato. Le famiglie sono così…»

«Già.»

«Tu che fai, ci sei a pranzo?»

«Sì, certo.»

«Bene. A domani allora.»

«Notte, pà.»

Arriva l’ascensore e apro le porte. Lui, però, mi blocca e mi fissa un istante prima di domandare: «L’anno prossimo me lo fai un favore?»

Attendo in silenzio che prosegua.

«Mi regali un bel paio di calzini pesanti? Semmai quelli con i rombi, come piacciono a me.» Quindi mi dà un buffetto sulla guancia e scoppia a ridere.

Sorrido anch’io e premo il pulsante sulla tastiera. Un bel paio di calzini con i rombi. Sì, proprio quello che gli avevo comprato quest’anno. Il regalo perfetto. Se ci fossero stati loro sotto l’albero, adesso staremmo giocando a tombola, proprio come la famiglia allegra nel palazzo di fronte. Se ci fossero stati loro, non ci sarebbero stati i consigli, non ci saremmo stati noi. I veri noi. Che sono quelli che rovinano le feste.

Per fortuna bastano dei semplici calzini per comprarsi la pace.

È questo che rende magico il Natale.

 

 

SULL’AUTORE* – L’8 gennaio uscirà per Longanesi La tentazione di essere felici, il romanzo Lorenzo Marone. L’anziano protagonista del libro è un uomo in cui convivono il più feroce cinismo e la più profonda umanità…

Longanesi

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