“Forse ‘La più amata’ è un libro sui morti per liberarsene, per lasciarli finalmente andare. E dedicarsi a chi c’è. Per me c’è una bambina di sei anni, mia figlia…”. In occasione dell’uscita del suo nuovo libro, il più personale, Teresa Ciabatti si racconta con ilLibraio.it: “Scrivere questo romanzo più che colmare vuoti, ha significato il contrario: tornare indietro, cercare colpe, non trovarne, e da lì ripartire”. E parla, tra le altre cose, anche di com’è cambiato lo stile dalla prima stesura e della (probabile) candidatura al premio Strega

La più amata di Teresa Ciabatti (Mondadori) affronta il tema della famiglia da un punto di vista privilegiato: quello di una figlia, che cresce in una famiglia piena di segreti (sullo sfondo, la massoneria) e che torna sui passi della memoria per saperne di più sui propri genitori e soprattutto per scoprire sé stessa. Autofiction e autoanalisi si intrecciano indissolubilmente, in un romanzo che ha tratti decisamente originali e che non risparmia uno sguardo critico su nessuno, specialmente su di sé.
Per scoprire i retroscena che hanno portato alla scrittura de La più amata, ilLibraio.it ha intervistato l’autrice.

teresa ciabatti la più amata

“Non sono abituata a valutare ciò che provo per i viventi”, si legge a pagina 64. Si può invece dedicare amore scrivendo di chi se ne è andato? E in che modo?
“È molto più facile amare i morti. Pensare che se ne siano andati quelli che più ci volevano bene, come faremo senza di loro? Idealizzare i morti è meno faticoso di prendersi cura dei vivi. Narcisismo: la morte degli unici che ci capivano davvero, da ora in poi siamo destinati a rimanere incompresi! Narcisismo che diventa alibi per non occuparsi degli altri. Forse La più amata è un libro sui morti per liberarsene, per lasciarli finalmente andare. E dedicarsi a chi c’è. Per me c’è una bambina di sei anni, mia figlia. Una bambina che nei due anni di asilo non ho mai accompagnato a scuola. Durante la scrittura del libro ho iniziato ad accompagnarla, non dico tutti i giorni. Oggi le maestre mi conoscono, e anche le altre mamme. Prima no. Per due anni sono stata un fantasma. Un fantasma apparso solo per la recita di Natale, con la maestra che mi ha accolto: finalmente conosciamo la mamma di Agata. La bambina ci ha detto che scrive poesie, ma le pubblica?”.

Una figura conturbante e anche molto controversa, quella di Suo padre, che Lei riesce a descrivere spesso come uomo, medico, figura pubblica, marito, e non solo come genitore: quali aggettivi gli dedicherebbe per presentarlo?
“Familiare e sconosciuto”.

Forti presenze, privilegi e regali, ma anche numerose assenze affettive da parte di entrambi i genitori: la scrittura aiuta a colmare o, perlomeno, a fare i conti con queste mancanze?
“Non sento di aver avuto mancanze. Ho il ricordo di due genitori presenti, mia madre sicuramente. Mio padre non so, forse sì, forse no. Ci forma ciò che abbiamo sentito, non quello che realmente è accaduto, cosa che ho capito scrivendo.
Scrivere questo romanzo più che colmare vuoti, ha significato il contrario: tornare indietro, cercare colpe, non trovarne, e da lì ripartire. Forse diventare adulti è non attribuire colpe ad altri. Io sono diventa adulta a 44 anni, molto tardi, sì.  Prima di iniziare il romanzo ero ossessionata dalla verità: chi era davvero mio padre? Cosa nascondeva? Cosa mi ha fatto? Lui, loro, i miei genitori, pensavo, devono avermi fatto qualcosa di male se oggi sono questa donna incompiuta. Mi ero convinta che dalle risposte dipendesse la mia identità. Il romanzo è la storia di me che mi libero dall’ossessione. Non ho scoperto chi fosse realmente mio padre, né oggi m’interessa scoprirlo più. Rimangono i ricordi. Rimane lui che passando nel salone della casa al mare vede qualcosa che non torna: tra la collezione di uccelli ce n’è uno nuovo. Lo afferra e lo volta per controllare la percentuale di argento. Quando lo riposa quello prende il volo. Cosa significa? Primo che mio padre aveva una presa fermissima, stare nella sua mano doveva far paura, l’uccellino non si è mosso. Secondo: mio padre voleva che tutto fosse argento. Lo sono stata anch’io?”.

In La più amata, titolo che si rivelerà quasi paradossale, la verità scardina e lascia progressivamente sgomento l’ideale, ovvero contraddice l’idea che ogni personaggio si è fatto degli altri. Pensa che crescere significhi disilludersi?
“Crescere per me significa disilludersi, e illudersi. E ancora disilludersi. E ancora illudersi. Sarebbe tremendo essere sempre disillusi o sempre illusi”.

Durante l’infanzia e l’adolescenza, Teresa non si risparmia frasi di questo tipo: “Venga il tuo regno, papà. Venga il tuo regno, dove io sarò principessa”. Com’è lo sguardo di Teresa scrittrice sul suo personaggio?
“Provo divertimento per la bambina megalomane, tenerezza per la ragazzotta di paese in abito da sera. Rabbia per la donna che non riesce a prendersi cura di nessuno, neanche della figlia. E infine, molto alla fine, comprensione. Per tutte”.

D’altra parte, non risparmia uno sguardo impietoso anche sulle persone a Lei più vicine: il padre, la madre, il fratello. È stato necessario un forte lavoro di riscrittura e/o revisione, è riuscita a mantenere una forma di distacco critico fin dal principio, o…?
“La prima stesura era cronachistica e distaccata, anche quando parlavo di me stessa. Comparivo in terza persona: Teresa Ciabatti ha detto, Teresa Ciabatti ha fatto, Teresa Ciabatti si guarda allo specchio, vede qualcosa di orribile, e abbassa lo sguardo. Serviva una riscrittura più sentimentale, e la casa editrice è stata fondamentale in questa fase.  Carlo Carabba, Marilena Rossi, Edoardo Brugnatelli e Beppe Cottafavi. Poi grazie all’intervento di due editor, prima Raffaella Lops, e poi Margherita Trotta, sono arrivata alla riscrittura definitiva. Soprattutto con Raffaella ci siamo scontrate molto. È stata paziente, e bravissima. Un giorno mi ha detto: ‘Questa voce non può essere quella di una donna, troppo infantile’. Con rabbia – ‘ora ti faccio vedere io…’ – mi sono buttata a riscrivere per dimostrarle che sì, poteva esserci questa voce a metà, adulta e infantile, disperata e immatura”.

“Mi dispiace, Professore, tua figlia fa quello che vuole lei, non quello che dici tu. L’unica al mondo a non fare quello che dici tu”: si è mai chiesta che cosa avrebbe pensato la sua famiglia di questo libro?
“Ho tradito mio padre e mia madre. Se c’è un aldilà spero che possano perdonarmi”.

 “Scrivo di mio padre e mia madre, ricostruisco la storia di famiglia per arrivare a me. Scrivo, ricordo, invento”. Molti puntano il dito proprio contro l’ingrediente finzionale dell’autofiction e ritengono che “inventare” possa permettere di nascondersi dietro numerose auto-apologie. Lei che cosa ne pensa?
“La domanda reale del libro non è chi fosse Lorenzo Ciabatti, mio padre, ma: chi è Teresa Ciabatti? Dopo duecento pagine la risposta: nessuno”.

A proposito di autofiction: ritiene che sia un genere in linea con il nostro tempo? Perché?
“Posso dire quello che è stato per me, e come ci sono arrivata. Se rifletto, ammetto di aver scritto sempre lo stesso romanzo. Libro dopo libro mi avvicinavo a me, alla storia che m’interessava, che era quella della mia famiglia. Può essere che questo sia il mio ultimo romanzo, non so se ho altro da raccontare”.

Per concludere, le piacerebbe che il suo libro venisse candidato al premio Strega?
“Sì”.

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