In “Noi tre” Mario Fortunato racconta il suo rapporto con Pier Vittorio Tondelli e Filippo Betto, durante gli anni Ottanta: la musica, i libri, le droghe, il sesso, l’amore, l’amicizia, la malattia, gli addii – Su ilLibraio.it un capitolo

“Avevano pochi mezzi, viaggiavano molto, se non altro con la fantasia, e consideravano la letteratura il proprio mondo, oltre che la principale ragion d’essere. E poiché avevano questo e quasi tutto in comune, si amarono come ci si ama da ragazzi, senza remore morali né pietà.”

A venticinque anni dalla morte di Pier Vittorio Tondelli, e a sette da quella di Filippo Betto, l’amico e compagno di strada Mario Fortunato racconta nel libro Noi tre (Bompiani) la storia della loro amicizia, il loro legame fatto allo stesso tempo di felicità e infelicità. Mario, Filippo e Pier, tre ragazzi di provincia e i loro anni Ottanta. Una piccola “età del jazz” tra Roma e Milano.

Gli anni Ottanta: la musica, i libri, le droghe, il sesso, l’amore, l’amicizia, la malattia, gli addii. Fino a che di quei “tre” non ne è rimasto uno solo, a poter raccontare la storia di tutti: “Compresi allora una cosa molto semplice e dolorosa: di tutti e tre, ero rimasto solo io, per compiere quel famoso passo verso il territorio sconosciuto del nostro passato. Pier e Filippo non c’erano più, dovevo accettarlo.”

Tondelli, nato nel 1955 a Correggio, in provincia di Reggio Emilia e venuto a mancare a soli 36 anni, autore simbolo della sua generazione. Betto, nato nel 1966 in provincia di Gorizia, è stato autore di racconti, in cui Anna Maria Ortese riconosceva uno “sguardo personale, freddo di un giovane sulla nostra realtà: un malato che si avvia all’estremo congedo”. Aveva debuttato dopo la scomparsa di Tondelli, pubblicando la racconta di racconti  Certi giorni sono peggio di altri (Marcos Y Marcos). E anche lui è morto giovane, a soli 43 anni.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione di Bompiani, l’incipit del libro

A farla breve, questa è la storia di tre ragazzi che, provenendo dalla provincia, la abbandonarono non appena possibile per essere liberi di odiarla, e cioè per non abbandonarla mai. Scelsero Roma e Milano, le uniche città italiane che aspirassero allo status di metropoli, e lì andarono a vivere. Avevano pochi mezzi, viaggiavano molto, se non altro con la fantasia, e consideravano la letteratura il proprio mondo segreto, oltre che la principale ragion d’essere. E poiché avevano questo e quasi tutto in comune, si amarono come ci si ama da ragazzi, senza remore morali né pietà.

C’è da precisare che durante la loro infanzia, nei famosi anni sessanta del secolo XX – quando in Italia si beveva gazzosa – la provincia era ovunque la stessa, al Nord come al Sud: grandi cieli stellati, famiglie numerose, segreti.

La povertà non era una categoria economica e, casomai, ambiva al rango di condizione antropologica. Del resto, la guerra non era così lontana. Dal Meridione perlopiù si emigrava con le caratteristiche valigie tenute insieme dallo spago e nel Settentrione si lavorava al ritmo delle sigarette nazionali. Tutti fumavano, a eccezione delle donne, e intorno a quelle che se lo permettevano spirava un’aria di opulenza e mistero o, in alternativa, di malaffare. Oltre che una necessità, il risparmio rappresentava una visione del mondo, la risposta autoctona alla demografia: in seguito, si sarebbe parlato di boom economico.

Noi tre eravamo bambini. O meglio, io e Pier eravamo bambini, perché Filippo apparteneva ancora al regno ipotetico dei neonati. A ogni modo, eravamo un facile bersaglio per la psicologia. Tuttavia, all’epoca, della psicologia nessuno teneva conto e, benché il dottor Spock e i suoi libri sull’infanzia fossero già un successo editoriale in gran parte dell’Occidente, i nostri genitori, pur distribuiti a diverse latitudini sociali della Penisola, non lesinavano regole e divieti, invitandoci in altri termini a trasgredire prima possibile.

Credo che, fra i tre, fui io quello con minori problemi in fatto di autorità paterna. Non che mio padre fosse incline agli ultimi dettami della pedagogia né che il suo vocabolario contemplasse la parola inconscio (quando, molti anni dopo, gli confessai di incontrare con regolarità uno psicoanalista, si limitò ad aggrottare le sopracciglia), ma si trattava pur sempre di un meridionale, e si sa che al Sud il permissivismo, essendo una vocazione e non una scelta, può avere i suoi lati positivi. Pier e Filippo devono aver sofferto qualche divieto in più.

Semplificando, si potrebbe dire che le nostre famiglie appartenevano al ceto medio, con varie sfumature. Oggi parlare di ceto medio ha il sapore ruvido e seducente della cosiddetta archeologia industriale, ma in quegli anni, invece che una classe, sembrava una vasta distesa verdeggiante, piena di promesse più o meno ragionevoli. In sintesi, i nostri genitori erano gente normale, con quel tanto di assurdo che l’aggettivo comporta. Dei genitori di Pier e di quelli di

Filippo non sono in grado di aggiungere altro: quando la nostra amicizia cominciò, per uno di quegli accidenti che possono rendere memorabile un’intera esistenza, eravamo in un’età della vita in cui, come fonte di ricchezza privata, si confida più nel futuro che non nel passato. In altre parole, eravamo giovani. Inoltre amavamo la letteratura, perciò consideravamo gli scrittori e i loro libri la nostra vera famiglia.

In un certo senso – e benché naturalmente mi addolori non aver potuto colmare la lacuna –, che io sappia poco o nulla dell’ambiente di provenienza dei miei due amici lo considero una salvezza: in fondo, mi mette al riparo dalle tentazioni della sociologia. Mi protegge insomma dal rischio di dimenticare che coloro i quali affidano alla scrittura il senso della propria esperienza sono creature fragili e complicate non tanto a causa della realtà che li circonda, quanto per quella a cui loro stessi danno luogo attraverso la lingua.

Ecco. L’ho detto: fin dall’infanzia, noi tre volevamo essere scrittori – una pretesa assurda, indubbiamente, specie se messa a confronto con le penose ricadute mondane che una tale pretesa comporta e specie se i soggetti in questione sono ancora in età scolare. Ma nessuno, a parte gli innamorati, è più irragionevole di un bambino e così le nostre memorie prepuberi – a quanto posso mettere insieme riandando a certe chiacchiere alcoliche, di solito a tarda notte – si concentravano quasi esclusivamente su vecchi quaderni scarabocchiati con poesiole molto dolorose e criptiche, custoditi con gelosia sotto il cuscino. Dei miei quaderni, ricordo che ne rilegai due o tre insieme, formando un volumetto con la copertina bianca, suppongo in omaggio alla precoce passione per i libri Einaudi. Ho dimenticato il titolo scelto, ma doveva trattarsi di un’opera omnia.

A quel punto eravamo già adolescenti, cioè individui in balia del disgusto verso se stessi: a pensarci bene, un’ottima posizione per uno scrittore. Era insomma il momento di capire che quegli scarabocchi servivano a dare sfogo ai nostri desideri altrimenti inconfessabili. In proposito, io e

Pier non avevamo dubbi: gli scarabocchi erano rivolti unicamente a ragazzi del nostro sesso. Lui prediligeva i polpacci poderosi, i grandi femorali, i bei ginocchi; io mi sdilinquivo per i capelli a spazzola, specie se colore del miele. Filippo invece aveva un suo vezzo di confondere il maschile e il femminile, rivendicava una natura anfibia, o bifronte, forse per via della sua militanza nel segno dei Gemelli; perciò lo prendevamo in giro.

L’università fu il primo passo verso se stessi. Per volgari ragioni anagrafiche, a Pier toccò il ruolo di apripista (ruolo che non avrebbe mai scelto, essendo un timido) e, poiché era in zona e l’ambiente sembrava particolarmente vivace, si iscrisse al Dams di Bologna. Filippo, che arrivava dal Friuli, lo avrebbe seguito una decina di anni dopo. Io sbarcai a Roma dalla Calabria, per studiare Filosofia. Gli studi furono comunque appassionati e felici come possono esserlo a quell’età, e cioè con potenti dosi di accidia. Ed eccoci precipitati nella vita adulta. Ancora non ci siamo incontrati, ancora non sappiamo niente l’uno degli altri. Ma per poco perché, almeno di Pier, io e Filippo avremmo presto ricevuto notizie.

(continua in libreria…)

 

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