Su ilLibraio.it un estratto da “Papà, mamma e gender”, libro in cui la filosofa spiega la genesi e le implicazioni dell’idea di gender e, senza rinnegare le sue radici cattoliche, decostruisce le letture che ne danno oggi molti

Le discriminazioni e la violenza contro le donne e le persone omosessuali e transessuali sono oggi, almeno a parole, unanimemente condannati in Italia. Una frattura profonda divide invece il Paese quando si discute dei mezzi per combattere questi mali. Al centro del durissimo dibattito c’è la cosiddetta “teoria del gender”.
Da un lato, i sostenitori sentono tutta l’ingiustizia di una società in cui una persona può ancora essere considerata inferiore a causa del proprio diverso orientamento sessuale, del proprio sesso, della propria identità di genere. Dall’altro, gli oppositori vedono nella teoria una pericolosa deriva morale, il tentativo di scardinare i valori fondamentali del vivere umano. È una questione sulla quale esiste, come diceva il cardinale Martini, un “conflitto di interpretazioni” perché ha a che fare con “le caverne oscure, i labirinti impenetrabili” che ci sono dentro ognuno di noi.

Sulla questione, Michela Marzano, filosofa, attualmente deputato del Parlamento italiano, nel suo nuovo libro, Papà, mamma e gender (Utet), spiega la genesi e le implicazioni dell’idea di gender e, senza rinnegare le sue radici cattoliche, decostruisce le letture che ne danno oggi molti.   Il libro è pensato per fare ordine in tutta la confusione, gli stereotipi e gli errori che si insinuano nei discorsi sul gender, e vuole essere uno strumento rivolto  in particolare ai genitori, agli insegnanti e agli studenti.

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Su ilLibraio.it un estratto
(per gentile concessione di  © Utet)

Principesse e calciatori

Tra le iniziative incriminate perché volte a mostrare che ogni ruolo maschile o femminile può essere deco­struito c’è il progetto “Non sono una principessa” ap­provato dal Collegio dei docenti della Scuola Primaria Federico Tozzi di Siena e rivolto agli alunni e alle alun­ne della quinta elementare. Ma anche il progetto “Pic­cole donne e piccoli uomini crescono”, promosso dal Comune di Venezia e rivolto alle classi delle elementa­ri dell’Istituto Comprensivo Gramsci, finalizzato a evi­tare che nelle bambine e nei bambini “si cristallizzino stereotipi legati alle identità e ai ruoli di genere”.

Dov’è esattamente il problema? Non lo sappiamo bene ormai da tempo che esistono ruoli che vengo­no attribuiti alla donne e ruoli che vengono attribuiti agli uomini solo perché si è fatto sempre così? È nor­male che la mamma metta il grembiule per cucinare e che il papà indossi giacca e cravatta per andare al lavoro? È naturale che una bimba sogni di diventare una ballerina e un bambino sogni invece di fare il calciatore? Non è ormai chiaro che tutti questi ruoli sono stereotipati e che gli stereotipi imprigionano?

Esistono ruoli familiari e ruoli coniugali, ruoli da “donnina di casa” e ruoli da “maschietto ribelle”. La donna fatta solo per sposarsi e, magari, essere sotto­messa al marito.16 L’uomo per fare carriera e parteci­pare alla vita pubblica. Ruoli e stereotipi, certo, sem­pre meno presenti rispetto al passato. Ma che persi­stono. Eccome se persistono. E allora, nonostante il ruolo professionale che hanno cominciato a occupa­re, ancora oggi alle donne capita di incontrare uomi­ni che pensano che, siccome sono donne, possono essere interrotte o prese in giro. Oppure uomini che pensano che, da quando sono stati rimessi in discus­sione i ruoli di genere, niente vada più bene: le donne non si occupano più dei figli e gli uomini si sentono impotenti. Allora tanto vale smetterla di lamentarsi se poi c’è qualcuno che si ribella e diventa violento: è una conseguenza inevitabile finché non si ristabili­scano ruoli, comportamenti e funzioni.

Il problema strutturale che pongono le violenze di genere è antropologico: per cultura e per tradizio­ne, alcuni uomini pensano di incarnare la “norma” e di poter essere “padroni”; in parte destabilizza­ti dall’autonomia femminile, non sopportano che questi “oggetti di possesso” possano diventare au­tonomi; in parte insicuri e incapaci di sapere “chi sono”, accusano le donne di mettere in discussione la propria superiorità. Sono troppi coloro che, insi­curi e forse bisognosi di affetto, considerano come un proprio diritto impossessarsi dell’altro e farne un oggetto di predazione. Sono troppi coloro che, respinti e allontanati, vivono il rigetto con ranco­re e risentimento, come se il semplice “no” di una donna li svuotasse di senso. Un problema identita­rio quindi. Che si traduce in un problema relazio­nale. Gli uomini violenti appartengono a qualun­que classe sociale e ceto. Non conta né il rango sociale, né la situazione economica, né la cultura, né la professione. Conta l’incapacità di sopportare la perdita, come se il semplice fatto di perdere la propria donna significasse una perdita d’identità. Ecco perché dietro la questione della prevenzione, c’è soprattutto la necessità di riscrivere la gramma­tica delle relazioni non solo tra gli uomini e le don­ne, ma anche tra gli uomini e gli uomini, le donne e le donne. Certo, la violenza non la si può eliminare del tutto. La pulsione dell’aggressività fa parte della condizio­ne umana e sarebbe illusorio pensare di debellarla. Come ogni pulsione però – ce lo insegna la psicana­lisi – anche l’aggressività può e deve essere conte­nuta. E per farlo, la chiave è e sarà sempre l’educa­zione. Per far capire a tutti e tutte, fin da piccoli, che il proprio valore è intrinseco e non strumentale; che ogni persona, a differenza delle cose che hanno un prezzo, non ha mai un prezzo ma una dignità; e che la dignità non dipende da quello che gli altri pensa­no di noi, da quello che gli altri ci dicono o meno, da quello che gli altri ci fanno. Non si può combattere la violenza se non si educano le donne alla consa­pevolezza del proprio valore e della propria libertà. Esattamente come non si può combattere la violen­za se non si educano gli uomini alla consapevolezza del valore e della libertà altrui.

Perché allora non smetterla una volta per tutte con quei disegni in cui la mamma è in cucina a preparare la cena e il papà alla scrivania, la donna è indaffarata con i panni da lavare e l’uomo è in poltrona con il giornale? – ma c’è in casa la mia mamma, e la casa è sempre bella, e c’è pronto sempre tutto: c’è la mamma che fa tutto, come recita la filastrocca. Per non parla­re delle favole, sempre le stesse, in cui la principessa vestita di rosa aspetta il principe vestito di azzurro. Non c’è dunque da sorprendersi se, quando si chiede ai bambini e alle bambine di attribuire delle tipologie professionali alle donne, hanno tendenza a sceglie­re “maestra”, “maga”, “principessa” e “casalinga”, mentre agli uomini tocca “re”, “cavaliere”, “scritto­re” e “dottore”. E quando è la volta degli aggettivi ri­feriti esclusivamente al genere maschile, i più piccoli non esitano a elencare “sicuro”, “coraggioso”, “se­rio”, “onesto”, “pensieroso”, “concentrato”, “fiero”, “saggio”, “audace”, “impudente”, “egoista”. Men­tre nel caso delle bambine arrivano di solito “bella”, “carina”, “buona”, “antipatica”, “pettegola”, “invi­diosa”, “smorfiosa”, “civetta”, “apprensiva”, “debo­le”, “paurosa”, “paziente”, “docile”, “ipersensibile”.

I bambini giocano a carte, a calcio, col computer. Oppure disegnano, guardano la TV e leggono libri di avventura o fumetti. Le bambine, invece, giocano con le bambole e con le Barbie e fanno pattinaggio. Oppure catalogano cartoline e fanno grandi feste. I maschi sono attivi, indipendenti, sicuri di sé. Le fem­mine sono emotive, paurose, servizievoli.

E tutti quei bambini timidi e insicuri, perché ci sono anche loro, e non sono “sbagliati” in quanto tali? E le bambine disubbidienti e fantasiose? C’è un errore di fabbrica, oppure gli stereotipi imprigiona­no veramente?

L’APPUNTAMENTO – In occasione di Bookcity Milano, Michela Marzano parlerà del suo libro il 24 ottobre, alle ore 17, presso il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo Da Vinci).

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