I romanzi di Omar Di Monopoli hanno fatto parlare di western salentino, di verismo immaginifico, di neorealismo in versione splatter, di noir mediterraneo… – Su ilLibraio.it un capitolo da “Nella perfida terra di Dio”, il suo primo libro pubblicato da Adelphi

Al nome di Omar Di Monopoli ne sono stati accostati alcuni altri di un certo peso: da Sam Peckinpah a Quentin Tarantino, da William Faulkner a Flannery O’Connor. Per le sue storie sono state create inedite categorie critiche: si è parlato di western pugliese, di verismo immaginifico, di neorealismo in versione splatter. Nonché, com’è ovvio, di noir mediterraneo.

Omar Di Monopoli

Nella perfida terra di Dio (Adelphi), il suo nuovo romanzo dopo quelli pubblicati da Isbn edizioni (Uomini e cani, Ferro e fuoco, Aspettati l’inferno, La legge di Fonzi), conferma il talento dello scrittore salentino, che racconta una vicenda gremita di eventi e personaggi (un vecchio pescatore riciclatosi in profeta, santone e taumaturgo dopo una visione apocalittica, un malavitoso in cerca di vendetta, due ragazzini, i suoi figli, che odiano il padre perché convinti che sia stato lui a uccidere la madre, una badessa rapace votata soprattutto ad affari loschi, alcuni boss dediti al traffico di stupefacenti e di rifiuti tossici, due donne segnate da un destino tragico, e sullo sfondo un coro di paesani, di scagnozzi, di monache), e riesce a congegnare sequenze forti, grottesche e truculente in un impasto di dialetto e italiano letterario, facendo diventare la lingua una protagonista del libro.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto dal quarto capitolo:

Prima

Il più vecchio dei Della Cucchiara, Antimo, arrivò al circolo Amici del Tavolo Verde per primo, a bordo di un’Alfasud priva del tettuccio e cogli sportelli ancora da verniciare. Gli altri due fratelli, Tore e Gaetano, lo seguirono per un’incollatura varcando in sella a un grosso quad truccato l’antica porta medievale che delimitava l’accesso alla piazza di Rocca Bardata.

Nel bar, mentre l’ultima luce del giorno spirava in un’agonia senz’appello, un paio di tangheri aggrappati a una Nastro Azzurro si affacciarono oltre i pendagli della tenda e sostando sulla soglia rivolsero a quella troika in avvicinamento un saluto insipido con la testa. Dai recessi del locale si propagava intanto lo schioccare sonoro di una palla centrata dalla biglia bianca del biliardo.

Uhé, li tre moschettieri annu rrivatu, ironizzò una delle spugne indicando i Della Cucchiara con la mano occupata. Il compare al suo fianco condivise quell’umorismo da quattro soldi scompisciandosi in una specie di nitrito che non intaccò di un millesimo la sbalorditiva rigidità del suo ciuffo alla Elvis.

Germano sta dentro? chiese Antimo, soppesandoli con occhi lustri e perforanti prima di piegarsi di lato a ciccare uno sputo. Con i muscoli tendinosi stretti in una maglietta col logo di una rivendita-carni stampigliato sul davanti, sembrava un ammasso di fil di ferro forgiato a somiglianza umana.

Come no? E addove vuoi che sta lu Ngannamuerti? Quello, di uscire da sta tomba non se la fida più tant’è grosso, gli rispose pronto quello col bananone ingellato senza riuscire a cavarsi dalla faccia l’espressione istupidita. Poi, recuperando una parvenza di lucidità, puntò il dito nella direzione della custodia porta-stecche che Antimo aveva a tracolla e dall’angolo della bocca domandò: a’ vinutu cu lu sfidi a carambola?

Il maggiore dei Della Cucchiara aveva già smesso di prestargli attenzione. Fece cenno ai suoi fratelli di seguirlo e con quei due ceffi alle calcagna sgambò risoluto verso l’ingresso separando la coppia di sbevazzoni con una spallata.

Una volta nella bettola i tre si trovarono di fronte solo il nuovo garzone, Carminicchio, un sedicenne malpelo dalla pelle scrofolosa. Appiattito alla fila di bottiglie di anisetta e Stock 84 che ne incorniciava il profilo, il ragazzo se ne stava dietro un lungo bancone di mogano a lucidare bicchieri con una pezza unta. Alle sue spalle un ventilatore a stelo ruotava lento e inesorabile nella sua gabbia traforata ricacciando squadriglie di enormi mosche dal dorso verdone verso i neon friggizanzare appesi al soffitto.

Abbasciu stanno, li avvisò non interrogato, indicando col pollice l’accesso alla tavernetta.

Chi c’è? s’informò Tore, che gli era coetaneo .

Il ragazzo alzò le spalle.

La solita cricca, precisò senza manfrine, poi ammarò lo sguardo ritornando al suo metodico daffare coi bicchieri. Sapeva bene chi erano i Della Cucchiara: in paese le loro mattane erano da mesi sulla bocca di tutti. Alla morte del padre, il vecchio Mesciu Murrino, un picciotto affiliato alla Nuova Camorra Organizzata, i tre fratelli avevano rilevato lo sfasciacarrozze di famiglia e si erano messi a smerciare in proprio macchine rubate. Forti del rispetto che la mala tributava alla memoria del padre buonanima, dapprima avevano imposto senza suscitare troppi malumori quote indecenti alle commissioni sui veicoli sottratti, poi si erano inseriti di prepotenza – facendo saltare qualche dentiera e guappesando a destra e a manca – nel giro dei combattimenti clandestini tra cani che proprio nelle sperdute campagne di Rocca Bardata aveva trovato il suo epicentro generando una rimarchevole quantità di denaro. La cosa li aveva messi irrimediabilmente in conflitto con Germano Ngannamuerti, titolare del circolo del biliardo nonché sgarrista referente per la zona degli interessi dell’onorata società pugliese.

Ne erano scaturiti tafferugli di una certa rilevanza, in città, e un paio di pistolettate in pieno centro ritenute fin troppo rumorose per gli affari dell’organizzazione, al punto che i caporioni della cosca dominante, quella dei Modeo di Taranto, si erano decisi a intervenire: incaricato un medaglione del rione Tamburi di fare da paciere, avevano convinto le parti in causa a incontrarsi in territorio neutro e a risolvere la cosa da uomini d’onore.

Tra scambi di minacce più o meno velate e fumose rivendicazioni territoriali, le ambizioni dei Della Cucchiara erano uscite da quel vertice assai ridimensionate: costretto ad abbozzare, il trio di aspiranti mammasantissima si era ritirato con la coda tra le gambe nel suo minuscolo e insignificante feudo, giocandosi in un battibaleno anche il consenso che riscuoteva nell’accozzaglia dei molti cani sciolti del distretto. Nessuno si aspettava che i tre fratelli realmente domi, ma sull’ascesa criminale dei Della Cucchiara in pochi ci avrebbero più scommesso una lira, poiché era evidente ormai a chiunque quanto gli convenisse stare ai patti e abbassare la cresta, se non volevano pagarla cara.

Ecco perché suscitò più di qualche scompiglio, nella composita fauna di clienti del circolo, vederli defluire dalle scale e accedere con scioltezza nel quadrilatero dei locali sotterranei.

Per un attimo il respiro degli astanti s’interruppe in un unico istantaneo silenzio, disinnescato ben presto dalla musichetta caraibica che le casse di una filodiffusione difettosa diramavano falsata; una scia grigiastra di fumo spessa come nebbia intasava l’aria satura di afrori stantii e colonia scadente; una decina di tavoli di ardesia erano disposti all’interno di conche di luce opaca dove uno o più giocatori smanettava con la propria stecca sfregandone col gessetto l’estremità oppure lavorando di cesello sul filotto. Dietro di loro, nella fredda tenebra retrostante, una massa di facce inebetite si agitava flemmatica senza apparente motivo, fumando e mugugnando frasi smozzicate come creature deformi che non avessero superato un qualche test evolutivo. In fondo alla sala, affossato in un divanetto di similpelle, la maglia setosa solcata da due mezzelune di sudore sotto le ascelle e un paio di ampi pantaloni avorio indosso, Germano Ngannamuerti presidiava quello smorto pollaio senza alcuna gioia, scrutando il niente con una letargica fissità negli occhi bovini. Teneva in mano un bicchiere di qualche intruglio liquoroso, ed era grasso da far schifo, il ventre rotondo che strabordava lucido dalla cintola come un cocomero pericolosamente vicino alla soglia di spaccatura. Addobbato di gingilli d’oro di varia fattura – catene e braccialetti coordinati, grossi anelli che luccicavano come piccoli astri nello sciapo riverbero dei neon –, quasi non si mosse quando si accorse dei nuovi arrivati: sollevò di poco il calice in segno di saluto e fece cenno all’energumeno che gli stava eretto alle spalle di rabboccare il beverone.

Salutiamo, compà, esclamò Antimo transitando fra i tavoli da gioco fino a giungere, nello sgomento generale, davanti a quello prospiciente la posizione dello sgarrista. Tore e Gaetano, disposti ai lati del fratello e ma arretrati rispetto a lui di qualche passo, lo scortavano torvi e accigliati, rivolgendo bruschi abbozzi di saluto alla feccia che si distribuiva quatta attorno al loro arrivo.

Salutiamo, rispose lo Ngannamuerti portandosi straccamente una mano cicciuta sulla pelata e lisciandosene la curvatura come se tutte le preoccupazioni del mondo lo sfinissero.

Tu e li fratelli tuoi ospiti miei siete. Per me un onore ète, avervi a quai aggiunse rimanendosene seduto e riguadagnando dalle mani del suo uomo il bicchiere pieno gli ordinò di allungare al terzetto qualche birra.

Nel frattempo Antimo si era liberato della custodia a tracolla. La posò con fare smargiasso sul panno verde ancora zeppo di palle non giocate. Aveva solo trent’anni ma portava scritto in faccia storie di risse che si perdevano nella notte dei tempi: una cicatrice a segargli in due lembi difformi il labbro superiore, l’orecchio destro massacrato che si aggrappava con nodosità rettiliforme al lato della testa rasata di fresco.

Anni èrunu, che non venivo qua sotto: v’iti organizzati proprio a puntino, disse sfoderando un sorriso mentre le birre arrivavano. Ormai i presenti si erano tutti ritirati nelle retroguardie e non c’era praticamente più nessuno a separarlo dal boss, solo l’ingombro rettangolare del tavolo e la coppia di gradini della pedana sulla quale, circonfuso dal chiaroscuro, signoreggiava il divanetto dello Ngannamuerti.

Questi annuì, rifilandogli un risolino nella cui ansa slavata un occhio attento avrebbe saputo cogliere innumerevoli sfumature d’irritazione. Vi l’agghia dittu già all’incontro del mese scorso, bofonchiò con voce nasale senza smettere di ispezionare un punto indefinito davanti sé, qua pregiudizi verso i Della Cucchiara non ce ne stanno. Mesciu Murrino vostro padre era di casa, lo sapete meglio di me, e io prima di farmi battezzare sempre ddò iddu a chiederci consiglio andavo. Come a nu secondo padre lo tenevo, mano sul cuore. Non vedo perché tra di noialtri devono esserci tutti sti cazzi di problemi.

La bionda testa leonina di Gaetano Della Cucchiara si riscosse dalla tenebra in cui s’era appartata per protendersi di scatto oltre quella del fratello più grande. Li problemi stannu pircé a vui no vi basta la carrettata di soldi ca vi pigghjati cu l’eroina e lu pizzo, gracchiò d’impeto il giovane con voce scordata, vi vulì futtiti puru quiddi delle scommesse coi cani…

A quelle parole il gigante che bordeggiava il padrone di casa indurì il volto come una mazza da guerra, ma lo Ngannamuerti, senza scomporsi, ne sedò gli istinti bellicosi alzando due dita al suo indirizzo.

Uhè, Gaetanuccio, disse poi. Ci stai pure tu? Quant’anni tieni mò? Venti? Ventidue?

Ventiquattro, rispose il ragazzo impettendosi.

Ventiquattro, ripeté lagnoso il boss imprimendo un lento moto rotatorio al suo bicchiere. Eppoi in un sospiro aggiunse: e all’età tua ancora non ti sei mparato che i cacanidi devono starsene zitti quando parlano gli adulti?

I tratti del viso di Gaetano si ulcerarono. S’irrigidì schiumando, pronto a scattare, ma Antimo gli impose di rientrare nei ranghi con un’occhiataccia.

Basta farla lunga, Germà, tagliò corto, a’ mà vinuti per dirti che noi al giro delle scommesse non ci rinunciamo. Per te poca cosa è, e se ce la concedi senza troppi casini noialtri come una forma di rispetto alla memoria di papà la prendiamo…

Il boss inarcò bigio un sopracciglio.

Ancora cu sta storia? fremette, sempre più insofferente. Uagnù, forse non ci siamo capiti: acqua alla pompa per i vostri sogni di camurria da ste parti non ne troverete mai, manco per un cazzo! L’avete sentito con le orecchie vostre dal medaglione dei Tamburi ca qua l’unico che può avanzare pretese uno solo ète, e sta qua di fronte a voi. E anzi è ora ca vi lu mettiti ncapu, perché comincio davvero a perdere la pazienza, e voi allo Ngannamuerti incazzato ancora non l’avete visto…

Un crepitio elettrico sembrò scuotere la tensione che flottava instabile nella sala.

Antimo allungò le mani sulle fibbie della custodia e con estrema, misurata lentezza liberò dal contenitore un fucile a doppia canna sovrapposta. Quando il riflesso della cromatura dell’arma sfavillò nell’imbuto di luce dei neon sulla sua testa, un concerto di esclamazioni soffocate si levò nell’aria diradandosi nel calpestio delle pedate dei più vigliacchi che s’involavano su per le scale e guadagnavano l’uscita a rotta di collo.

Ora il boss e il maggiore dei Della Cucchiara erano frontali, perfettamente allineati. Il primo ancora prono sul salottino e l’altro all’impiedi, l’arma stesa tra le mani al pari di una reliquia. Rimasero a fissarsi in silenzio come un unico animale che avesse smesso di respirare. Poi, mentre il bestione al fianco di Germano esalava un grugnito e il pubblico rimasto a guardare si ritraeva ulteriormente verso il fondo della sala, Antimo arcuò il pollice e l’indice della mano sinistra sino a creare un ponte, vi ci adagiò sopra la canna del fucile a mo’ di stecca e s’acchinò sulla giocata davanti a sé bersagliando il pallino con una potente stoccata.

Thud.

Mio padre pure ti voleva bene, Germà, disse mentre l’eco del colpo smoriva assottigliandosi. Non faceva che ripeterlo: a quel ragazzo bisogna starci dietro perché pò rrivari luntanu. Cià le amicizie giuste, e la voglia di comandare…

Per la prima volta il boss parve turbato. Si staccò dallo schienale con inaspettata agilità mentre una vena si metteva a pulsargli come una valvola sulle tempie. Antimo, in sprezzo a ogni cautela, si era spostato sul lato opposto del tavolo dandogli le spalle e ora si apprestava a bocciare di nuovo le biglie con la punta del suo fucile.

Thud.

Peccato che è nu pocu lento coi pensieri, aggiungeva sempre papà schiattandosi dalle risate: quiddu vagnoni tiene i numeri ma ci manca la furbizia. Finisce che se non si sveglia nu pochettino qualcuno che ci fa il culo Germano sulla sua strada lo incontra presto. È nell’ordine delle cose, la gente come lupi stanno…

Thud.

Il boss avvolpò il muso, succhiandosi le gengive.

E accussì, sospirò deluso, voi tre figli di puttana vi siete guardati ntra li uecchi e un bel giorno avete deciso che quei lupi aviti a dda essiri propria vui, nevvero?

Il giovane Tore, fino a quel momento silente e travisato dalla penombra, si protese in avanti e con una calma raggelante blaterò ferale: hai capito bravo, Germà…

Dopodiché fu come se all’improvviso qualcuno avesse scardinato i cancelli dell’inferno: la prima detonazione partì dall’arma di Antimo come l’ouverture di una sonata. La vampa arancione del suo sparo radiografò per un istante immiscibile lo spazio in cui si agitava il triangolo dei tre fratelli mentre una raffica di pallini di piombo saettava rabbiosa nell’aria andando a conficcarsi tra le cabale di muffa del muro, appena una spanna più in alto del capoccione glabro del boss. Nel frattempo, risucchiato dalla nuvola calcinata prodotta dall’impatto, l’energumeno al fianco di Germano estrasse un grosso revolver nichelato dalla cintola e si mise a esplodere colpi alla cazzo di cane.

(continua in libreria…)

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