Il nuovo romanzo di Paolo Zardi è dedicato all’introspezione dell’animo umano, con tutte le sue imperfezioni: dalla debolezza al desiderio, dal senso di colpa alla passione – Su ilLibraio.it un capitolo dal libro

Rancore, fragilità e senso di colpa, le movenze dell’animo umano sono il motore dell’azione nel nuovo romanzo di Paolo Zardi La passione secondo Matteo, Neo Edizioni.

Il protagonista, Matteo, è in vacanza con la sua famiglia quando viene svegliato da una telefonata inaspettata: la voce del padre, distante nel tempo e nello spazio, gli chiede di incontrare la sorellastra e di raggiungerlo, insieme, in una lontana cittadina dell’Ucraina. È un padre che Matteo ha incontrato tre volte nella sua vita e la sorellastra la conosce appena, ne conserva una memoria distante, legata a una sessualità acerba.

Non può sapere, Matteo, quanto quel viaggio lo porterà lontano, come non può sapere se troverà la forza di soddisfare l’ultima volontà di un padre la cui assenza ha scolpito i tratti determinanti del suo carattere, segnandone la vita in modo indelebile.

Paolo Zardi, classe 1970, già tra i finalisti del premio Strega 2015 con  XXI Secolo (Neo edizioni), affronta la difficile introspezione dell’animo umano, con tutte le sue debolezze, i suoi rancori, i suoi desideri e le sue passioni. L’essere umano, reale e terreno, imperfetto e scrutato da vicino è il vero soggetto di queste pagine, una storia intensa che si immerge a fondo nell’introspezione dell’animo, fino al punto in cui l’uomo trova dentro di sé il proprio contrario, fino agli abissi in cui le scelte acquistano l’amara sensazione della colpa.

animo umano padre e figlio zardi

Per gentile concessione dell’editore su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto (pagg. 69-72):

La stazione di Kiev sembrava una porta verso Oriente, un presagio del continente che si estendeva a est: la sua architettura, il viavai incessante di persone, la luce che piombava nell’oscurità dell’atrio principale come in un tempio, gli odori speziati, le valigie sulla testa, non appartenevano più all’Europa, e non erano ancora Asia.

Quando mancavano dieci minuti alla partenza, individuarono il treno. La capotreno – una donna corpulenta e dai modi tirannici – intimò loro di salire nell’ultimo vagone. Una volta dentro si guardarono stupiti. Non avevano mai visto una simile disposizione dei posti: sulla sinistra c’era una serie di scompartimenti aperti, dove due larghi sedili erano piazzati uno davanti all’altro; sopra ciascuno di questi c’era un letto che nella maggior parte dei casi era occupato. Lungo il lato destro, invece, paralleli rispetto alla direzione di marcia, erano disposti altri sedili, che potevano essere trasformati in un letto; sopra, ancora letti, uno in fila all’altro. Quel vagone, quindi, comprendeva sia posti a sedere sia posti per dormire; il passaggio da uno all’altro era privo di vincoli: chiunque, dopo essersi tolto le scarpe, poteva salire e distendersi, o scendere e sedersi. A Matteo, l’odore di quella carrozza ricordava quello della cuccetta del treno per la Sicilia. Giulia, invece, diceva che quel vagone faceva schifo, che le faceva pensare ai treni che i nazisti usavano per deportare gli ebrei e che in Ucraina la gente veniva trattata peggio delle bestie. I passeggeri li guardavano incuriositi, ma non parevano vergognarsi delle condizioni nelle quali erano costretti a viaggiare.

D’altra parte, pensò Matteo, quel treno non era così diverso da ciò che aveva visto a Kiev: all’eleganza patinata dell’Occidente si era preferita una certa solidità pre-moderna – ghisa, saldature a vista, coperte di lana, strutture in legno, capo-treni di incredibile vigore. Quei vagoni erano stati pensati per la generazione che li aveva preceduti, gente appena uscita dalla guerra, disposta a tutto pur di spostarsi. Ma più il treno si infilava nel cuore dell’Ucraina, sfilando attraverso pianure sconfinate ricoperte di grano e girasoli, più Matteo sentiva che in tutto quello c’era qualcosa che sapeva di verità. La funzionalità offerta da quel treno, cioè il servizio che consentiva alla gente di spostarsi da una parte all’altra della nazione, era stata resa con uno sforzo generoso e completamente privo dell’astuzia occidentale: nessuno stava cercando di vendere nulla a nessuno. Ogni cosa era ciò che era realmente. Aboliti i secondi fini.

Anche il cesso era un cesso: un tubo di ferro piazzato nel centro di uno stanzino di mezzo metro quadro, incastrato tra qualcosa che poteva essere una caldaia e l’abitacolo per le capotreno, dove due signore in divisa (una era quella che li aveva fatti salire) chiacchieravano ad alta voce. A loro Matteo chiese due bottiglie di coca-cola. La più grossa le tirò fuori da una scatola piena di ghiaccio e in cambio chiese l’equivalente di cinquanta centesimi. Dopo essere usciti dalla periferia di Kiev, che li aveva accompagnati per quasi mezz’ora, era iniziata la pianura ucraina.

Giulia e Matteo si erano sistemati sui letti sopra i sedili: avevano le teste vicine e i piedi puntati in direzioni opposte. Entrambi guardavano fuori dal finestrino. Parlarono per tutto il tempo, senza guardarsi. Gli raccontò di Dario, e dei loro problemi che lei imputava ai segni zodiacali. Lui le chiese se aveva mai pensato a una famiglia, se aveva avuto altre relazioni (decine!), il nome del primo fidanzato; lei gli chiese di Maura, di come si erano conosciuti, di cosa provava per la sua famiglia. Discussero della passione: esisteva? Andava dominata o assecondata? Sebbene fossero sulle rive opposte di un mare immenso, riuscivano a trovare punti di contatto. Lei gli raccontò della prima volta che aveva fatto l’amore, a quindici anni, con un ragazzo delle giostre; lui le disse di come aveva conosciuto sua moglie, a una festa in maschera dove entrambi si erano travestiti da lupo. Poi rimasero in silenzio e Matteo pensò a quando, un mese prima, aveva portato i figli a una festa organizzata dal Comune nel campo sportivo del quartiere. Si erano prefissati un budget, perché era importante che, per quanto fossero ancora piccoli, iniziassero a capire che c’erano limiti oltre i quali non era possibile andare. Vollero salire sugli autoscontri e, per risparmiare, occuparono in due la stessa macchinetta: uno guidava, l’altro teneva il piede sull’acceleratore. Dopo un po’ gli altri bambini, che avevano tutti un’aria più sveglia dei suoi, iniziarono a prenderli di mira. Avrebbe voluto intervenire per fer-mare quel piccolo massacro, ma sapeva che si sarebbe vergognato di fronte agli altri padri. I suoi figli erano privi di aggressività e sembravano incapaci di reagire. L’educazione che lui e la moglie avevano amorevolmente impartito stava dispiegando i suoi disastrosi effetti. Per un attimo Matteo sperò che dimenticassero tutto, e iniziassero a difendersi; ma subito si pentì di averlo pensato. Tornarono a bordo pista con lo sguardo di chi era stato umiliato: quegli occhi erano un muto e implacabile rimprovero verso di lui.

Intanto l’Ucraina continuava a scorrere con regolarità sconcertante: campi di girasole, campi di grano, minuscoli paesi in lontananza, qualche pozza d’acqua lungo i binari, enormi snodi elettrici pieni di tralicci in tutte le direzioni. Le strade che ogni tanto incrociavano – bianche, polverose, strette – si perdevano nella pianura sconfinata; fermi ai passaggi a livelli, c’erano piccoli trattori scalcinati, auto con i finestrini aperti, motorini con enormi sacchi legati al portapacchi, e uomini che aspettavano in piedi con una sigaretta in bocca, magri, le camicie a mezze maniche – polverosi come le strade. Davano l’impressione di essere là da chissà quanto tempo: non avevano fretta, o si erano rassegnati.

Il convoglio avanzava a velocità di crociera. Ogni tanto incrociavano dei treni merci che viaggiavano nella direzione opposta: erano lunghi chilometri, portavano tronchi d’albero, legna tagliata e qualcosa che sembrava carbone. Le stazioni accanto alle quali passavano, avevano fiori alle finestre, staccionate verniciate, praticelli verdi accanto ai vialetti e capi stazione solenni, in piedi, impostati come se dalla loro presenza dipendesse ogni cosa.

Parlarono anche di Dio. Del male nel mondo, di Hobbes.

Della necessità o meno di un essere superiore che governasse gli istinti degli uomini. E, mentre il treno scivolava sempre di più nella campagna ucraina, parlarono della madre di Matteo.

(Continua in libreria…)

animo umano madre e figlia

LEGGI ANCHE – La storia della madre insegna alla figlia la complessità dell’animo umano

Libri consigliati