“Sangue giusto”, il nuovo romanzo di Francesca Melandri, attraversa il Novecento e le sue contraddizioni per raccontare il cuore della nostra identità… – Su ilLibraio.it un capitolo

Francesca Melandri (nella foto di Carlo Traina, ndr), autrice romana classe ’64 , ha lavorato come sceneggiatrice prima di esordire nel 2010 nella narrativa con Eva dorme. Nel 2012 ha pubblicato per Rizzoli Più alto del mare, finalista al Premio Campiello e vincitore del Premio Rapallo Carige. Tradotta anche all’estero, ora torna in libreria con Sangue giusto.

La trama ci porta a Roma, nell’agosto 2010. In un vecchio palazzo senza ascensore, Ilaria sale con fatica i sei piani che la separano dal suo appartamento. Vorrebbe solo chiudersi in casa, dimenticare il traffico e l’afa, ma ad attenderla in cima trova una sorpresa: un ragazzo con la pelle nera e le gambe lunghe, che le mostra un passaporto. “Mi chiamo Shimeta Ietmgeta Attilaprofeti” le dice, “e tu sei mia zia”. All’inizio Ilaria pensa che sia uno scherzo. Di Attila Profeti lei ne conosce solo uno: è il soprannome di suo padre Attilio, un uomo che di segreti ne ha avuti sempre tanti, e che ora è troppo vecchio per rivelarli.
Shimeta dice di essere il nipote di Attilio e della donna con cui è stato durante l’occupazione italiana in Etiopia. E se fosse la verità? È così che Ilaria comincia a dubitare: quante cose, di suo padre, deve ancora scoprire? Le risposte che cerca sono nel passato di tutti noi: di un’Italia che rimuove i ricordi per non affrontarli, che sopravvive sempre senza turbarsi mai, un Paese alla deriva diventato, suo malgrado, il centro dell’Europa delle grandi migrazioni.

sangue misto francesca melandri

Su ilLibraio.it, per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto

Immagina questo: stai facendo un sogno meraviglioso mentre sei appollaiato sui rami di un albero. Devi svegliarti ogni minuto, però. Perché non devi cadere e anche perché vuoi tenere vivo il tuo sogno. Questo vuol dire emigrare.

La tua meta è un sogno di felicità, ricchezza e salute. Lo sogni mentre non bevi da ieri, non mangi da giorni, un soldato ti picchia le piante dei piedi gridando: «Awala! Awala!» e non smette fin quando non gli metti in mano una banconota. Lo sogni nonostante tutto, perché è come un fuoco che arde e consuma. È proprio vero che gli habesha sono i Bruciati; un nome più giusto, gli arabi non glielo potevano dare.

All’inizio la strada non è così dura. Passa vicino al lago Tana e alle sorgenti del Nilo Azzurro, poi tira su dritto in mezzo ai dirupi traforati da profonde caverne, perfetti nascondigli per gli shiftà di ogni guerriglia: quella di un tempo contro gli italiani, quella recente contro Mengistu e il suo Derg di terrore, quella di oggi contro i viaggiatori da rapinare. Tu che non sei mai uscito da Addis Abeba, finalmente ti spieghi le canzoni che cantano la bellezza d’Etiopia, il paese dove Dio vuole stare. Ogni sicomoro è un monumento, le rocce ocra e vermiglie sono le ossa degli antenati, il cielo la mano divina che ti porterà in salvo al di là dei deserti e del mare. Sei in uno stato di muta esultanza che dello stanzone in cui ora sei rinchiuso ancora nulla sa, e così deve essere. Altrimenti ti mancherebbe il cuore, cadresti a terra in ginocchio piangendo di angoscia, ti lasceresti derubare per la disperazione. Invece, alla frontiera col Sudan, basta che dai 1000 umla alle guardie e riesci a passare. È così facile, lasciare per sempre l’Etiopia splendente alle tue spalle. I sudanesi non sono cattivi, forse perché fa troppo caldo – neanche il deserto, scoprirai, scotta come Karthoum. Solo gli islamisti hanno tanta energia e per strada ti urlano: «Abbottonati la camicia!». Qui passi giorni, forse settimane. Devi informarti, chiedere, valutare. Non permetterai a nessuno di accorgersi che tieni i tuoi awala cuciti dentro la cerniera, però devi anche mangiare e bere. Basta una sola decisione sbagliata e caschi dall’albero e allora il tuo sogno è finito prima di cominciare. Soprattutto, devi trovare il tuo passatore.

Lo sai che sono tutti uguali. Che per loro sei solo un Bruciato, un fuggiasco che vuole arrivare lì dove si vive in un modo che qui non è neanche possibile immaginare. Soprattutto, sai che per loro la tua vita vale quanto il loro telefono con il gps, anzi molto meno, perché nel deserto senza un gps la vita, semplicemente, non c’è. Ma uno tra loro lo devi pur scegliere. Così ti metti nelle mani di un passatore che per una piega stanca degli occhi o per la forma del mento ti ricorda uno zio, che ti sembra un po’ meno disumano. Pensi: “Ora attraverserò il deserto, se Dio così dice. E se non è questo ciò che Egli dirà, adesso non lo voglio sapere”.

Il passatore chiama il suo socio ad Addis Abeba. Il socio di Addis Abeba conferma che i tuoi parenti gli hanno dato la somma concordata di awal. Il passatore ti porta avanti ancora per un pezzo. Se i parenti non hanno pagato invece ti lascia lì, stranded. Uno stranded è come l’acqua persa da una borraccia bucata: dapprima lascia una piccola traccia scura, poi il suolo l’assorbe, infine non resta altro che la terra in cui è risucchiata. Sabbia siamo e sabbia torneremo.

Chi ha superato il deserto, dopo, può provarne terrore. Chi c’è ancora dentro non può; ogni suo pensiero è impegnato a proseguire. Sopravvivere e proseguire. Perché ti fidi del passatore? Perché gli fai mandare tutti quei soldi da madre, amici, conoscenti, pur sapendo che potrebbe benissimo metterseli in tasca e lasciarti lì? Perché il passatore ha in mano il gps, cioè la tua vita. Tu sei uscito e vuoi continuare a fare quel sogno meraviglioso. Il fuoco ti brucia e lo devi seguire. Puoi andare solo avanti, nonostante tra te e il sogno ci sia solo un niente di sabbia, perché ciò che era dietro non esiste più.

Dio aveva parlato e il suo dire aveva portato il giovane che un tempo era stato teacher fuori dal Sahara, attraverso i suoi confini. Cos’è un confine, in mezzo al deserto? Una linea invisibile oltre la quale c’è chi ti picchia, chi ti dà da bere, chi ti ruba i soldi e chi fa un po’ tutte queste cose insieme. Oppure ancora dove non c’è più nessuno perché l’autista ha perso la pista e allora si muore.

Arrivato a un’oasi tra Sudan e Libia – il ragazzo non sapeva se di qua o di là dalla frontiera – l’uomo con il gps gli aveva detto: «La tua famiglia non ha dato al mio socio di Addis Abeba gli awala che mancano, per te il viaggio finisce qui».

“Sia reso grazie a Te o mio Dio” pensò allora il ragazzo, “per avermi fatto scegliere tra tanti quest’uomo.” Sapeva che altri passatori questo discorso ai loro passeggeri l’avevano fatto non arrivati a un’oasi ma a bordo pista nel nulla, mentre gli mettevano in mano una borraccia con mezzo litro d’acqua e la certezza di morire.

Il ragazzo guardò l’oasi e si chiese: come sarà rimanere qui il resto dei miei giorni, stranded per sempre, tra il colore di sangue dell’alba, sotto queste tre palme scorticate, accanto alle carcasse di cane essiccate da un’aria così rovente che già dopo poche ore non puzzano più? Come sarà sentirmi diventare le ossa di sabbia? Non pensò né a sua madre né ad Ayat Abeba e neanche a suo cugino. Gli venne invece in mente Tsahai. Sperò con tutto sé stesso che il nuovo maestro riuscisse a convincere i genitori a non chiuderla a fare le faccende di casa e lasciarla studiare. Per la prima volta da quando era uscito, pensando a quella bambina intelligente e desiderosa di conoscenza, sentì le lacrime premergli dal fondo degli occhi. Non le pianse però, perché nel deserto sprecare acqua è peccato mortale.

Rimase nell’oasi settimane, forse mesi, neanche lui lo sapeva con esattezza. Si nutriva degli avanzi che, di tanto in tanto, gli buttava in terra una donna pietosa. Poi un giorno il passatore dal mento bonario ripassò da lì in uno dei suoi andirivieni. Indicò il suo camion al ragazzo e gli disse: «Sali.»

Era successo che il nipote di un lontano cugino di sua madre, emigrato da venti anni negli Stati Uniti, aveva mandato un po’ di dollari ad Addis Abeba con un money transfer internazionale. Il ragazzo capì che su di lui il passatore aveva compiuto un’impeccabile valutazione commerciale: l’aveva giudicato un cliente che sì, aveva finito i soldi, ma alle spalle aveva una famiglia che li avrebbe ancora disperatamente cercati. Per questo l’aveva abbandonato in un’oasi e non lungo la pista di sabbia: non aveva rinunciato a guadagnarci su ancora.

Dal deserto il ragazzo fu quindi tratto in salvo da un odontotecnico di Milwaukee, Wisconsin – a volte Dio, quando parla, dice cose un po’ strane. Quello che però il ragazzo non sapeva – come detto, per sua fortuna – mentre lasciava senza rimpianti l’oasi senza nome, è che da un niente si può cadere in un altro: da un niente di sabbia al niente della disperazione.

Qui in Libia l’orizzonte c’era, c’era addirittura il mare. Ma non è vita quella di chi conosce solo l’incertezza e la paura. Nel deserto, soltanto l’uomo con il gps sapeva la giusta direzione: una conduceva alla vita, tutte le altre a un tremendo morire. A Tripoli, invece, la direzione da prendere la sapeva indicare anche un bambino. La vedi la spiaggia? Ecco è di là, per andare nella terra oltre il mare. Però lo scorrere del tempo qui, in questo stanzone, era cessato.

Nemmeno nell’oasi senza nome si era fermato così. Lì, certe notti, quando la fame artigliava meno la pancia perché la donna pietosa gli aveva lanciato un brandello di carne come si fa ai cani, il ragazzo steso sulla sabbia guardava le stelle. Gli sembrava di vederne il movimento, la corsa folle attraverso l’eternità. L’avanzare, quindi, del tempo. Non quello umano però, di chi ardendo conta i giorni, le settimane, i mesi che mancano alla sua meta. Semmai, un tempo da stranded, di chi sta rinunciando, pezzo a pezzo, ai desideri che tengono insieme la sua natura umana. Uno scorrere pericoloso – questo il ragazzo lo capiva – perché talmente perfetto da renderlo, in quei momenti, indifferente al proprio morire. Sempre un tempo, però: una cosmica, inarrestabile marcia alla quale tutto, compreso lui stesso sdraiato a occhi sbarrati, partecipava.

Invece a Tripoli i fenomeni erano di scala ordinaria, variegati e umani. C’erano case, commerci, automobili, perfino occhi di donna che non si abbassavano. Eppure pareva che tutto avesse il solo scopo di spezzare la sua determinazione. Il ragazzo l’aveva capito presto: andarsene dalla Libia sarebbe stato quasi più difficile che dall’oasi priva di nome.

Aveva trovato da dormire in un appartamento in periferia. Ci vivevano quasi cento habesha, più di dodici per stanza, un unico gabinetto in fondo al corridoio – un lusso incredibile a pensarci adesso, dallo stanzone. Il proprietario e i suoi quattro figli vivevano all’ultimo piano. Passavano la giornata fumando hashish, dormendo, stando seduti sul marciapiede a guardare i non-libici impegnati a lavorare. Come tutti i cittadini di questo paese, o almeno così sembrava al ragazzo: nei cantieri, nelle case, sui mezzi di trasporto lui vedeva solo lavoratori stranieri. Di notte, le voci grasse delle donne che il padre e i figli facevano salire sul tetto arrivavano fin giù nelle stanze dell’appartamento. Allora al ragazzo e agli altri habesha veniva un fuoco tra le gambe e immaginavano le donne che avevano lasciato a casa, o le dive dei film. Se fosse stato ad Addis Abeba sarebbe andato a inebriarsi di velocità e ritmo muscolare, ma qui era troppo pericoloso. Quanti mesi che non correva.

Il ragazzo usciva il meno possibile, solo per nutrirsi e andare all’Internet Point. Meno male che il cibo costava poco, con un dinaro potevi comprare quaranta pani. Ogni volta che poteva controllava la mail. Quando seppe che il ragazzo era vivo in Libia, Ayat Abeba benedisse nel nome di Dio l’odontotecnico di Milwaukee, Wisconsin.

Soprattutto, il ragazzo teneva d’occhio il meteo. Gli habesha nell’appartamento smaniavano per attraversare il mare, erano agitati come da una febbre, da una malattia del corpo prima ancora che della volontà. Migrare è un gesto totale ma anche molto semplice: quando un vivente in un posto non può sopravvivere, o muore o se ne va. Umani, tonni, cicogne, gnu al galoppo nella savana: le migrazioni sono come le maree, i venti, le orbite dei pianeti e il parto, tutti fenomeni che non è dato fermare. Certo non con la violenza, seppure sia diffusa questa illusione.

E di violenza nelle strade di Tripoli ce n’era parecchia. Il ragazzo non andava mai da solo al mercato, per un habesha era troppo rischioso. C’erano i poliziotti e le bande di aggressori. E anche gang di ragazzini di sette, otto anni che ti accerchiavano brandendo coltelli all’eterno grido di «Awala!». Guai però a difendersi da loro anche solo con uno spintone: si rischiava il linciaggio da parte degli adulti che si godevano ridendo la scena. Quei bambini non li derubavano per fame – a nessun libico mancava il cibo. Era solo divertimento, lo stesso piacere di quando davano fuoco alle code dei gatti o massacravano a sassate i topi. Questo era un bene: per dar loro soddisfazione bastava chinare il capo con aria sconfitta e allungare un paio di dinari. I bambini li prendevano, sputavano addosso agli habesha impotenti e neri, poi con urla trionfanti correvano via. L’unico modo per non subire aggressioni era andare al mercato con la scorta di un libico amico. Al vederti con un connazionale, i ragazzini dicevano: «Shabab!» con vocina educata e gli adulti ti lasciavano in pace. Infatti, il giorno che i poliziotti libici l’avevano preso, il giovane non aveva la scorta di nessun libico buono.

C’era una macchia scura sul muro, in questo angolo di stanzone. La mia macchia, pensava il ragazzo. La vedeva meglio quando toccava a lui stare in piedi. Quanti erano lì dentro? Non lo sapeva. Un centinaio, almeno. L’unica cosa certa è che tutti sdraiati insieme non ci potevano stare, bisognava fare i turni per dormire. Tre mattonelle, questo era lo spazio concesso a ogni prigioniero. Occorreva trovarsi un compagno con cui fare i turni, uno in piedi su mezza mattonella mentre l’altro, su cinque e un pezzetto, provava a dormire. Il suo si chiamava Tesfalem, era eritreo. I loro paesi avevano da poco finito di combattere una guerra di anni e la pace in Corno d’Africa la facevano intrecciando i corpi sulle sei mattonelle, come gemelli nell’utero di una sola madre. Fu così che diventarono fratelli.

Ogni tanto entravano le guardie e li picchiavano, a volte annoiati e altre con convinzione. In giorni benedetti portavano un pezzetto di sapone. L’acqua bastava sì e no per un terzo delle persone. All’inizio, al ragazzo sembrò di morire per il tanfo, ma non morì perché a tutto, o quasi, un essere umano si può abituare. Dopo qualche giorno non lo sentiva nemmeno più. Solo le rare volte che lo lasciavano andare in cortile, rientrando, si sentiva il cervello esplodere per il fetore. “Non posso resistere” pensava ogni volta, “morirò.” Invece continuava a vivere. Imparò a chiudere gli occhi e immaginare il battere dei piedi sulla terra nuda, le gambe come due pistoni, i gomiti che cacciano indietro la strada: dimenticando il corpo umiliato, passava ore a rivivere la felicità della corsa con un corpo immaginario.

Queste mura putride si trovavano a pochi chilometri dal centro di Tripoli, ma perfino l’oasi senza nome era più vicina al resto del mondo dello stanzone. A confronto, il deserto con i gps e le jeep dei passatori era un trafficato snodo nella rete internazionale delle comunicazioni. Questo carcere invece era un buio che non emette segnale, un buco nero invisibile ai telescopi. Perfino Dio non aveva parole, su quanto vi succedeva.

Il ragazzo aveva perso conto dei mesi passati lì dentro. La famiglia non sapeva più nulla di lui da quando era stato arrestato. Dov’è? Come sta? Quando la madre era andata all’ambasciata libica di Addis Abeba per avere notizie, un impiegato dalle palpebre pesanti le aveva detto che il nome del figlio non risultava nei loro faldoni. In realtà non l’aveva neanche cercato.

Nessuno dei prigionieri sapeva perché fosse lì. Nessuno sapeva quanto sarebbe rimasto. C’erano malati che si lamentavano. Altri si rifugiavano in irraggiungibili visioni private e il ragazzo dubitava che sarebbero sopravvissuti alla libertà. Certi privilegiati lavoravano non pagati nelle case dei guardiani, per qualche ora al giorno. Altri passavano il tempo a cancellarsi via le impronte digitali con l’acido delle batterie dei cellulari.

«Dublino, il trattato» gli aveva spiegato Tesfalem, il suo fratello di mattonella: il Paese europeo in cui si viene identificati è quello in cui si è obbligati a restare. Tutti volevano attraversare il mare e sbarcare in Italia, ma quasi nessuno ci si voleva fermare. I più volevano proseguire per Germania, Inghilterra, soprattutto Scandinavia. E chi avrebbe potuto provare che la prima terraferma europea su cui avevano poggiato piede fosse quella italiana, se allo sbarco non potevano prendergli le impronte digitali? Il ragazzo era uno dei pochi che non passava le ore a scarnificarsi i polpastrelli. Che gli prendessero pure le impronte in Italia, tanto il suo viaggio era lì che doveva finire.

Tesfalem, come tutti gli eritrei nello stanzone, era un renitente alla leva, scappato da un servizio militare senza limite di ferma che poteva durare anche venti anni. Questa era la seconda volta che provava a fuggire. Quando l’avevano preso la prima volta, era stato portato in un carcere per disertori sull’isola di Nokhra, nell’arcipelago delle Dahlak. Li avevano stipati in più di cento, uno sull’altro e non per modo di dire, sul fondo di un camion che al porto di Massawa era stato imbarcato sopra un traghetto. Una mezza dozzina di prigionieri era morta schiacciata durante la traversata. L’isola era chiara e battuta dal vento, il mare aveva il colore degli orecchini delle donne che a casa piangevano per i loro mariti. L’unico edificio era un carcere in pietra costruito un secolo prima dai taliani. Tesfalem ci passò poco meno di un anno, chiuso nei sotterranei insieme a quasi mille altri uomini. Nel corto tragitto dal molo aveva visto, poco al largo, una barca. Pareva quelle delle star dei film, era bianca e grande come uno splendido uccello. Alcune donne europee in bikini ballavano lentamente a prua. Fu l’ultima immagine che vide del mondo prima di essere messo sotto terra.

Tesfalem raccontò al ragazzo che una volta lo avevano messo sdraiato bocconi, le mani e i piedi legati dietro la schiena. Lo avevano tenuto così per due settimane, poteva alzarsi solo una volta al giorno per mangiare e andare alla latrina. Elicotero, si chiamava questa posizione. Poi c’erano il Gesucristo, l’otto, il ferro, la gomma, tutte affidabili tecniche di tortura eredità dei tempi coloniali. Tesfalem aveva imparato così altre parole italiane.

Non erano però le prime. In Eritrea, raccontava, ci si sentiva legati da qualcosa come un affetto non ricambiato verso gli antichi coloni. Il ragazzo a sua volta diceva di come a lui suor Giovanna avesse descritto il suo ricco Paese al di là di questi muri lerci, oltre il mare. Arrivato in Italia, voleva andare in Val Seriana e spedirle da lì una cartolina. Tesfalem annuiva riferendo quanto gli aveva detto il cognato, che ora viveva a Göteborg ma dall’Italia ci era passato: «Noi habesha dei talian sappiamo tante cose. Ma loro di noi non sanno nulla, neanche di quando c’erano anche loro».

Talvolta, tra un pestaggio dei guardiani, un crampo di dissenteria e un incubo nel dormiveglia, sullo stanzone galleggiava una quiete fragile e sorprendente come una bolla di sapone. Allora i prigionieri parlavano di calcio. Di Champions League, di squadre nazionali, del fatto che i prossimi Mondiali sarebbero stati in Africa e questo, nonostante tutto, era motivo di gioia. I somali raccontavano che a Mogadiscio, da quando comandava Al Shabaab, i pantaloncini erano proibiti e comunque si poteva giocare a calcio solo nei quartieri controllati dai clan meno severi. Il ragazzo ripensò agli islamisti di Khartoum che gridavano insulti per un bottone aperto nella camicia. Ogni tanto, quando si parlava di Beckham, Zidane e Ronaldinho, nello sguardo degli uomini ammassati appariva una scintilla, come il residuo di un fuoco allegro. Che però si spegneva appena dalla cella accanto provenivano le urla delle donne stuprate.

(continua in libreria…)

 

Fotografia header: Francesca Melandri - foto di Carlo Traina

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