“A Portrait of the Artist as a Young Man” di James Joyce, un vertice nella storia novecentesca della rappresentazione psicologica, e non solo lì, compie cento anni e torna in libreria in una nuova edizione, che presenta anche una novità nella traduzione italiana del titolo del libro, che diventa “Un ritratto dell’artista da giovane” – Su ilLibraio.it l’analisi di Nicola Gardini

Il primo romanzo di James Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man, compie cent’anni ed eccolo uscire per Feltrinelli in una nuova traduzione italiana, firmata da Franca Cavagnoli. La novità è segnalata già nel titolo: Un ritratto dell’artista da giovane, dove occorre far caso all’aggiunta dell’articolo indeterminativo. Le traduzioni precedenti s’intitolavano semplicemente Ritratto dell’artista da giovane. Franca Cavagnoli spiega in una postfazione che l’“A” inglese ha davvero valore semantico. La grammatica, d’altra parte, non lo impone. Dunque, occorre renderlo. Questo ritratto, infatti, è solo uno dei ritratti che Joyce ha fatto o tentato di fare: progetti narrativi di impostazione autobiografica rimasti allo stadio di abbozzo ma pur sempre di importanza fondativa. Conservare l’articolo anche nel titolo italiano significa suggerire che il libro è parte di un atelier, non sta appeso su un muro bianco, e segna il punto di arrivo di un percorso iniziato assai prima della sua composizione.


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Un ritratto rappresenta un vertice nella storia novecentesca della rappresentazione psicologica, e non solo lì. Con scientifica suddivisione delle fasi e attraverso un metodico studio del conflitto tra modelli e istinto, la storia del giovane Stephen Dedalus mette in scena il progressivo costruirsi di una persona e il profilarsi di un avvenire. Questo bellissimo, plurivoco romanzo andrà ricordato anche come saluto alle forze della giovinezza; un merito tutt’altro che trascurabile, soprattutto quando diamo il dovuto rilievo agli anni della sua gestazione e a quello della sua pubblicazione, o se anche consideriamo quanto poco interesse oggi destino quelle forze nei cronachisti della vita umana. O la giovinezza si è dissolta come età?

Questioni grammaticali a parte, la complessità genetica è carattere distintivo del testo in quanto testo. La “storia”, pertanto, non appartiene solo alla dimensione puramente narrativa, ma è tratto essenziale della lingua; è stratificazione di avventure etimologiche e di impronte diacroniche. Ovunque senti premere memorie: letterarie, culturali, personali. Ovunque senti che si sta citando qualcuno o qualcosa; che si sta alludendo a una realtà presistente, a discorsi già fatti, comuni a tutto un popolo o a una società, o anche remoti ed esclusivi.

Una volta si leggono i versi di un poeta, un’altra gli assiomi di un filosofo, un’altra uno stralcio di cantilena. E un sospetto di allusività si estende su tutto, anche sullo scorcio di una sera invernale, finita quasi magicamente sulla pagina, o sul primo piano di una macchia di tè, pure quella sopravvissuta a chissà quale obliterazione.

Ogni momento del dettato, in sostanza, può esser fatto risalire a un momento precedente, addirittura a un livello preverbale, a una fonte materiale, a un momento in cui il linguaggio era ancora voce della natura, o casuale frizione degli elementi. E infatti il testo è pieno di rumori e di suoni. E infatti un bacio è prima che atto fisico sostanza fonetica. E infatti le parole tendono all’onomatopea, fin dall’attacco del racconto, tendendo a ridursi alla loro prima occasione sensibile o, in una prospettiva più filosofica, a un loro nucleo necessario, alla quidditas di cui parlava Tommaso d’Aquino, che l’adolescente protagonista, sempre più consapevole della sua missione, chiama in causa con diligenza un tantino pedantesca. E così salta fuori qua e là il latino, quello classico quello medievale quello maccheronico: ed è non la lingua della tradizione, ma la voce dell’origine; la voce dell’arte. L’artista del titolo è appunto uno che ri-inizia il linguaggio. Non trascuriamo l’esergo: una citazione del Dedalo ovidiano, colui che con nuova arte riuscì perfino a levarsi in volo. Un ritratto, insomma, ha già individuato i presupposti teorici che consentiranno le sperimentazioni dell’Ulisse (già in lavorazione negli stessi anni, invero).

Tutto questo – la ricca intertestualità e il naturalismo linguistico – è in linea perfetta con il destino dell’adolescente Stephen: il definirsi della sua vocazione letteraria, ovvero la sua scoperta del linguaggio come corpo. Un ritratto racconta sì le smanie di un adolescente, ma è fondamentalmente la registrazione di una crescente consapevolezza verbale, che procede di pari passo con quella sessuale. A questa consapevolezza si sottomette tutto il resto: episodi, descrizioni, situazioni concrete e psicologiche, che i critici continuano a scambiare per le caratteristiche di un tardo naturalismo. Io, leggendo questa traduzione e tornando qua e là all’originale per amore del confronto, di naturalistico non ho trovato niente. Ho trovato, invece, moltissima poesia: un metaforizzare pervasivo, un trattare anche l’oggetto più concreto per un – come avrebbe detto T. S. Eliot – correlativo oggettivo; e una capacità di sondare le situazioni più imprendibili dell’essere attraverso raffigurazioni metaforiche, che si possono nutrire di elementi concreti, tattili, liquidi e olfattivi, così come di immagini evanescenti, del tutto irrazionali.

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Non che questo primo Joyce sia del tutto al sicuro dal rischio di didascalismo. Questo, però, interessa più la rappresentazione di una certa moralità (l’abiezione del peccato, per esempio, o la vergogna in cui Stephen precipita dopo la scoperta della carne) che non quella del mondo circostante, le sale del college, la casa dei genitori o le strade di Dublino. Insomma, Zola è molto lontano. D’altronde, è pur difficile sostenere che vi sia un mondo circostante. Il punto di vista della narrazione tende a coincidere con i pensieri e le impressioni di Stephen. La stessa storia politica e culturale del suo universo, l’Irlanda, è misurata sulla sua sensibilità, forse dovrei dire sulla sua insofferenza. Una parte essenziale ha la religione. L’affermazione finale di Stephen è in buona parte un trionfo sul cattolicesimo gesuitico e, attraverso il rifiuto di questo, sulle prescrizioni di tutte le ideologie. Perfino la lingua inglese – la cosa non meravigli, se abbiamo capito chi è questo stupendo ragazzo irlandese – è cosa dell’ideologia, e dunque obiettivo polemico.

La traduzione di Franca Cavagnoli eccelle nella capacità di comunicare il supremo lavoro stilistico dell’originale. Sa variare i registri, persegue la precisione, sviluppa nel dettaglio ogni immagine, risolvendo non poche oscurità, e confrontandosi rigorosamente con veri e propri abissi di senso. L’italiano risulta sempre felice e musicale, senza cadere mai nell’eufonia, che sarebbe in conflitto con la petrosa risonanza dell’inglese joyciano. Qua e là si individuano tracce irrisolte, una citazione o un termine non resi nel nostro idioma. Stanno a ricordare al lettore, come la Cavagnoli ha sempre sostenuto anche in scritti teorici, che una traduzione non deve eliminare il ricordo dell’altrove. Un ritratto dell’artista da giovane ci dà una felice dimostrazione anche di questo importante assunto. Lode sia anche all’ottima postfazione, che fornisce un utile inquadramento storico-culturale e biografico e affronta anche la questione assai spinosa dell’autobiografismo. Agili e illuminanti le note esplicative che corredano il volume.

L’AUTORE – Nicola Gardini, insegna letteratura italiana ad Oxford, ed è l’autore di Viva il latino. Storia e bellezza di una lingua inutile (Garzanti).


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