“Libro e serie vanno conosciuti”. Giusi Marchetta, scrittrice e insegnante, riflette su ilLibraio.it sul discusso successo di “13” tra gli adolescenti e si rivolge ai suoi colleghi e agli adulti, che possono giocare un ruolo fondamentale, affrontando senza timori con i ragazzi la tragica storia di Hannah e le delicate tematiche che accompagnano la narrazione

Tra le letture che hanno più successo tra i miei alunni adolescenti ci sono di sicuro i romanzi incentrati sul bullismo. Il tema li riguarda e li affascina. Per quanto molti di loro non siano estranei a dinamiche che potrebbero rasentare il bullismo (soprattutto quando interagiscono virtualmente) tutti quanti si sentono in qualche modo vittime e queste storie rappresentano una sorta di riscatto: dalla variante buonista in cui bullo e vittima diventano amici, a quella facilona per cui il perseguitato si riscatta con un meritato successo o attraverso una vera e propria vendetta.

13 (Mondadori, traduzione di Stefano Borgotallo) di Jay Asher (o 13 reasons why titolo originale ripreso dalla serie Netflix) non prevede né l’una né l’altra via d’uscita. Hannah, 17 anni, dopo una serie di sfortunati eventi causati più o meno intenzionalmente  dai suoi compagni di scuola, si uccide. E questo ai miei alunni è piaciuto moltissimo.

La prima cosa che vorrei dire riguardo al libro e alla serie (entrambe di enorme successo) è che vanno conosciuti. Insegnanti, genitori, il mondo adulto che deve avere a che fare con i ragazzi dovrebbe essere in grado di affrontare l’argomento senza stigmatizzarlo a priori o averne paura perché i giovani lettori o fruitori della serie hanno voglia e bisogno di parlarne e a mio parere sarebbe il caso che trovassero un punto di riferimento estraneo al mondo di Hannah, qualcuno che sia capace di contestualizzare il suo gesto. Il libro di Asher infatti è molto interessante perché non è condiscendente, né didascalico. Anzi è molto diretto nel rappresentare le tredici ingiustizie che Hannah ha subito dal suo punto di vista e con la sua voce.

Nodo centrale della storia infatti non è tanto l’esito del bullismo subito: Hannah è già morta quando il libro comincia. L’idea alla base del romanzo è che prima di uccidersi abbia inviato delle audiocassette ai tredici responsabili della sua morte per raccontare nei dettagli in che modo vi abbiano contribuito. La voce di Hannah, insomma, torna dall’oltretomba per vendicarsi, far soffrire i bulli colpevoli suscitando in loro un senso di colpa tremendo e un inevitabile rimpianto per lei. Che questo si verifichi davvero lo lascio scoprire al lettore che arrivi in fondo alla storia. Quello che mi interessa è testimoniare che questo meccanismo ha reso Hannah un’eroina agli occhi di tutti quegli adolescenti che hanno amato il libro e la serie. L’autolesionismo come mezzo per richiamare l’attenzione e l’affetto del mondo, per ingenerare senso di colpa, insomma, per punire gli altri, è decisamente presente tra i nostri banchi: nascosto in alcuni casi, esibito in altri, nella vita vera e più spesso su internet.

Vi ricordate l’ultima cosa che mi avete detto? Dice Hannah. L’ultima cosa che mi avete fatto?

E non importa che loro non la ricordino. Ci pensa lei dalla tomba a spiegarlo per bene.

Ma cosa le hanno fatto? Inezie tra ragazzi, poi qualche atto di bullismo vero e proprio, infine qualcosa di molto grave che ha a che fare con il sessismo feroce e bigotto che è sotteso nella nostra società e diventa spietato tra gli adolescenti. Quello che Hannah teme più di tutto è il giudizio altrui ed è il giudizio degli altri che, a suo parere, la spinge a uccidersi. Se avrete voglia di leggere il libro, di ascoltarla davvero, non vi sorprenderete: a mano a mano che la storia procede tutto prende la forma di un incubo. Lo sa bene Clay, da sempre innamorato di Hannah, che ascolta i nastri con la consapevolezza che sia ormai troppo tardi per cambiare le cose. La domanda che Clay non si pone e che un insegnante che ne parla con la classe dovrebbe fare invece è se questo sia vero. Se c’era davvero qualcosa che si poteva fare per evitare la morte di Hannah e a chi spettasse farlo. La risposta nel libro è accennata ma c’è: bisogna tenere gli occhi aperti, rendersi conto dell’impatto che si ha sugli altri con il proprio modo di fare, con le proprie parole.

Di più: ci vogliono gli adulti, che nel libro sono totalmente assenti. Questi adulti sono responsabili delle banalità sessiste che popolano la mente dei ragazzi: se la scuola non si prende l’incarico di disintegrarle non sta facendo il suo lavoro. Se una ragazza teme per la sua “reputazione”, se un ragazzo crede che approfittarsi di una compagna, siano cose normali, il problema non sono tredici persone ma la società intera che in fondo pensa che le cose stanno così e che chi è un po’ fragile è ovvio che ci rimetta.

Detto questo, mi sembra che il libro vada letto a scuola per un altro motivo: perché ci vuole un adulto che contesti “la teoria del tredicesimo”. Hannah si uccide perché la tredicesima persona a cui si rivolge nei nastri l’ha delusa. Vago spoiler: è un adulto. Imperdonabile, se lo chiedete ai miei alunni. È evidente infatti che mentre Hannah è santificata dal suo essere vittima (e mi raccomando di tenerlo a mente se decidete di affrontare il libro in classe), chiunque non si accorga della sua immane sofferenza è un mostro. Le cose sono più complesse di così: bisogna farlo capire ai ragazzi. Si deve testimoniare che non bastano tredici persone a spezzare qualcuno perché forse sono tredici persone sbagliate in un mondo che è molto più ampio. Far notare che Hannah non ha parlato mai con i suoi genitori, con altri insegnanti, con Clay. Senza demonizzare il suicidio come gesto, colpevolizzando la persona, facendo notare tutti gli appigli che Hannah semplicemente non ha visto. Ribadendo che è morta e non può parlare più. Che le cassette sono un espediente narrativo: la bella idea alla base di un bel libro. La vita dei tredici andrà avanti, la sua no. È finita.

Ci sarebbe molto da dire sul modo in cui la serie ha trasformato un libro interessante in un prodotto non completamente riuscito. A mancare sullo schermo è tutto quello che rende forte il libro di Asher: i ragionamenti dietro le azioni di Hannah, la descrizione del contesto in cui viveva. Sarebbe stato bello che lo spettatore avesse visto anche le cose che Hannah non vede: la meschinità dei compagni in quanto meschinità, la disponibilità dei genitori, la possibilità di scegliersi uno stile di vita alternativo a quello dei compagni. Questo perché da lettrice, posso leggere Infinite Jest, amare David Foster Wallace, capire le profonde ragioni del suicidio, vederlo possibile. Ma 13 non è indirizzato a me: è per una ragazzina che pensa che la fine di Hannah sia inevitabile a causa di un contesto che tempo cinque anni potrebbe lasciarsi alle spalle.

L’unica scelta degli sceneggiatori che va in questa direzione può essere considerata quella di mostrare il suicidio di Hannah in modo cruento e realistico. In una scena oltremodo disturbante e lontana dai clichè della vasca da bagno che si riempie lentamente di rosso mentre la persona si addormenta con i polsi tagliati, vediamo il dolore, le convulsioni, l’impossibilità di tornare indietro e lo shock dei genitori ricoperti di sangue. Tutta la determinazione dei nastri scompare. Hannah è morta. Un’altra Hannah si sveglia e va a scuola.

L’AUTRICE – Giusi Marchetta, nata a Milano nel 1982, è cresciuta a Caserta, poi si è trasferita a Napoli. Oggi vive a Torino dove è insegnante. Per Terre di Mezzo ha pubblicato le raccolte di racconti Dai un bacio a chi vuoi tu (2008), con la quale ha vinto il Premio Calvino, e Napoli ore 11 (2010). Il suo primo romanzo, L’iguana non vuole, è stato pubblicato nel 2011 da Rizzoli. Nel 2015 è uscito, per Einaudi, Lettori si cresce.
Qui tutti gli articoli scritti da Giusi Marchetta per ilLibraio.it.

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