In “Tabacco clan”, di cui ilLibraio.it propone un estratto, Giuseppe Lupo racconta la tenerezza, l’avventura e la goliardia di un gruppo di uomini che si sono affacciati all’età adulta quando il Novecento stava per morire
Dopo Gli anni del nostro incanto, Giuseppe Lupo, autore picaresco, in Tabacco clan (Marsilio) propone ai suoi lettori una giovinezza altrettanto avventurosa. Certo, i picari di Lupo sono studiosi, padri di famiglia (anche quando la famiglia si è rotta), professionisti, e non sono vestiti da picari, anche quando tengono al collo la sciarpa dell’Inter.
Il Clan al centro del nuovo romanzo, in cui tutti hanno un soprannome, vive in un convitto a Milano. Il Clan studia chimica o giurisprudenza, ingegneria o economia. Il Clan ha una provenienza geografica e sociale varia. Nel Clan sono tutti maschi, come nel Reform Club di Phileas Fogg, solo che per essere ammessi non bisogna avere vestiti particolari, ma saper ridere, anzi, sapersi sfottere. Il Clan non ha un dress code, anche se ascolta canzoni in inglese.
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Quando questo romanzo comincia, il Clan è invecchiato: non vive più nel convitto, ma si è sposato e ha avuto figli. Due dei figli del Clan si sono innamorati e stanno per sposarsi in un bel ristorante sul lago. Il Clan, dopo i beati anni del pensionato, non si è mai perso. Si sente spesso, va allo stadio, è a conoscenza delle ambasce e delle gioie della vita, non sempre facile: anche se è composto da diversi uomini, si percepisce come un’entità, e come un’entità si muove. Al pranzo di matrimonio dei figli il Clan ha un linguaggio tutto suo: come i componenti della famiglia Levi in Lessico famigliare, potrebbe riconoscersi anche al buio grazie alle parole che usa e agli aneddoti della giovinezza.
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Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
Siamo un gruppo di amici che si è conosciuto in un pensionato di Milano una quarantina d’anni fa e ha deciso di chiamarsi Clan: un grande mosaico di esistenze parallele, con tanto di cariche ufficiali, un Presidente, un Vicepresidente, un Segretario e poi tutti gli altri, a seguire, come in un corteo. Insieme abbiamo percorso gli anni universitari, ma l’amicizia non è finita quando ognuno ha dovuto prendere la sua strada, dopo la laurea. Anzi, ogni occasione è buona per vederci: come questa, per il matrimonio che ci sarà domani.
Mentre parcheggiamo, qualcuno suona il clacson all’uso delle spose meridionali, proprio come accadeva nei paesi quando passava la fila di auto targate MI o TO con svolazzi di nastrini bianchi annodati alle antenne e code di volpe appese agli specchietti retrovisori. Ci guardiamo in faccia per capire chi è stato. Le nostre mogli se la sono svignata per evitare rimproveri, noi siamo rimasti al freddo come dei baccalà.
«È per gli sposi» dichiara Kasperczak in cerca di giustificazioni.
È stato lui a suonare il clacson, l’abbiamo capito.
«Non sono ancora qui» risponde Franz.
«Che c’entra: è festa uguale!»
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Kasperczak era un calciatore della nazionale polacca che incontrò l’Italia ai Mondiali di Germania nel 1974 e ci eliminò al primo turno con uno squallido due a uno. Non era un campione acclamato (difatti nessuno più se lo ricorda), piuttosto un centrocampista dai piedi ruvidi e i capelli da batterista rock, che picchiava sulle gambe di Mazzola e poi faceva segno che non era colpa sua quando l’arbitro fischiava. È da questo giocatore che il nostro amico ha adottato il soprannome. Assai più che al calcio, però, lui era bravo a pallacanestro ed era svelto a infilarsi tra i difensori avversari vestiti di canottiere rosse, l’unico anno in cui il pensionato aveva iscritto la squadra al torneo universitario. Era il basket lo sport dove avrebbe potuto far furore, ma un pomeriggio volle giocare a pallone e scelse di stare a centrocampo. Non ci mise molto – tre o quattro passaggi, un paio di incursioni sulle caviglie degli avversari – e fu battezzato in quel modo, quasi per errore, perché uno come lui avrebbe meritato un appellativo tipo Meneghin, Chuk Jura, non quello di un oscuro mediano salito agli onori delle cronache un decennio prima e finito nel dimenticatoio.
Alle volte, però, le etichette non coprono per intero il destino degli uomini. Si raccontano storie controverse sulla finale di basket. Eravamo i favoriti, almeno così credevamo. Contro la squadra del Politecnico, che poi vinse, avevamo giocato durante le qualificazioni battendola di netto, tanto che poi, quando ce la trovammo di fronte la seconda volta, nella partita che assegnava la coppa, eravamo convinti di passeggiare sul velluto. Invece le cose andarono storte. Gli avversari incalzarono e Kasperczak si fece espellere per un fallo di reazione. A quel punto il Clan riempì gli spalti di grida: «Noi abbiamo Famà! Noi abbiamo Famà!» E scandiva le sillabe battendo su un tamburello rimediato nello scantinato del pensionato.
Famà era un ragazzo salentino approdato a Milano un’annata successiva a quella in cui fu fondato il Clan.
Prometteva fuoco e fiamme con la palla da basket tra le mani, la teneva sul dito indice come un mappamondo, se la faceva scivolare da un braccio all’altro, dietro il collo. Purtroppo, durante la partita, non si rivelò all’altezza delle aspettative, era troppo lento e impacciato, gli avversari lo bruciavano di slancio, sicché di quella finale ci restò il sapore di un’impresa sfiorata e una foto che per pudore nascondemmo dalle cronache del tempo, nei riti della memoria, fuori dall’età verde degli anni universitari. «Noi abbiamo Famà!» rimase un grido di guerra, ma di una guerra persa.
(continua in libreria…)
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