Brillante scrittore, traduttore e drammaturgo israeliano, e magnifico costruttore di scenari, con uno stile a volte sgangheratamente comico, quasi da pochade, Roy Chen nel romanzo “Il grande rumore” racconta la giornata di tre donne, tra Tel Aviv e Gerusalemme. Attraverso i suoi personaggi l’autore sembra interrogarsi su che cosa significhi, oggi, essere israeliani…
Forse è un riflesso condizionato, ma il romanzo di Roy Chen (Il grande rumore, Giuntina, nella traduzione di Silvia Pin) fa pensare in primissima istanza, ma come in sottofondo, a quel libro geniale – e sentimentale – che è Le ore di Michael Cunningham (La Nave di Teseo, traduzione di Ivan Cotroneo).
Anche qui si tratta di tre donne, e di una loro giornata, ovviamente fra Tel Aviv e Gerusalemme, densa di accadimenti soprattutto, si direbbe, psichici, anziché di tre giornate diverse in tempi ed anni diversi, ispirate a Virginia Woolf; ma la sostanza non cambierebbe molto non fosse che per lo stile, in Chen a volte sgangheratamente comico, quasi da pochade.
Muta invece il nume tutelare, che in questo caso sarà James Joyce, di cui nonna Tzipora non solo è innamorata – l’unico uomo ad avere avuto questo onore se pure postumo – ma ha tradotto in ebraico Finnegans Wake. La sua giornata è quella però di un Bloom-Ulisse, e questo vale anche per la figlia Noa, che sta compiendo quarant’anni, e per la nipote Gabriela.
Detto ciò, resta un po’ di Miss Dalloway, a ben vedere, almeno per quanto riguarda la Gabriela che marina la scuola col suo violoncello sulle spalle e va dove non riesce ad arrivare, in casa di un compagno di cui era più o meno infelicemente innamorata, un ragazzo difficile che ora non c’è – e soprattutto non c’è più. Si scoprirà che fine ha fatto al termine della prima parte.
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Chen è un magnifico costruttore di scenari, e sa usare e preparare bene le sue sorprese. Lo si era già visto in Anime, libro molto amato e popolare quando uscì nel 2022 in Israele, storia secolare giocata sulla competizione tra due voci, una quella del figlio narrante, l’altra quella della madre dalle incursioni scatenate al limite della sgrammaticatura. Anche qui, nel coro delle voci, ce n’è almeno una piuttosto particolare e anzi perturbante: quella di Dio in persona, autoritaria e ironica, che risuona nelle orecchie di Tzipora dopo una brutta se pure involontaria sbronza e altri sgradevolissimi accadimenti, come l’essere investita da un monopattino mentre insegue un piccione per punirlo dell’abituale affronto tipico dei pennuti, da lei disastrosamente subito, e punta da un’ape con conseguente reazione allergica.
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In tanto deprecabile situazione, parlando fra Bibbia e ironia, “il Signore Dio tuo” le chiede nientemeno – a lei non solo laica ma decisamente atea – di diventare profetessa. Il colloquio è esilarante, così come pure la crescente sensazione da parte di Tzipora di aver già cominciato il nuovo mestiere, visto che tutte le sue piccole maledizioni e i cattivi pensieri sembrano puntualmente avverarsi.
Ora, però, si fa sul serio, lei profetizzerà eccome, si lancerà in una tirata apocalittica su un treno per Gerusalemme dove per un banale guasto si sta scatenando un poco di panico ed emergono di conseguenza atteggiamenti di aggressività e violenza; un ragazzino la filmerà, il video diventerà virale in poche ore, tutti i media ne parlano, il telegiornale della sera la vuole per un’intervista esclusiva; e solo per miracolo (grazie a Dio?) lei mancherà l’appuntamento che le avrebbe sconvolto per sempre la vita precipitandola in una notorietà ridicola.
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Il discorso non è stato però così banale, né irrilevante. Il fastidioso Signore celeste le aveva preannunciato il “Grande frastuono”, e il frastuono è destinato ad arrivare ben presto, col suo carico di epidemia e di conflitti. Proprio in quei giorni un cinese ha infatti mangiato un pipistrello – lo sa soltanto Tzipora, che ha ascoltato una voce misteriosa – l’avvenire è oscuro, la guerra è alle porte, non resta che stringersi agli affetti più cari e dimenticare i lunghi contrasti e le insofferenze passate.
La grande ferita dei nostri giorni, del resto, è che tutti ritengono di essere dalla parte giusta e non sono disposti a mettersi in gioco. Chen non lo scrive qui ma lo ha detto in almeno un intervento italiano (e in italiano: è spesso ospite nel nostro paese e ha imparato la lingua) e in qualche modo potrebbe essere questo il senso del libro stesso, forse della sua opera. Profetizzando sul treno lo ha proclamato la nonna traduttrice, anche se presa poco sul serio: “Il mondo è sull’orlo della distruzione e voi vi occupate di cacca!”.
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Lo scrittore, drammaturgo stabile del teatro Gesher, nel cuore di Giaffa (luogo simbolo dell’immigrazione russa), è anche traduttore da quella lingua, imparata da autodidatta, e un po’ di romanzo russo sembra averne permeato la narrativa, soprattutto per il gusto del paradosso o la vena picaresca. Ma la sua dimensione è ovviamente l’ebraico, attraverso la quale filtra un ampio canone letterario internazionale. Anche per questo la traduttrice joyciana dal pestifero carattere è forse il personaggio centrale, quella che più delle altre due figure riassume in sé il senso del libro e anzi in qualche modo conclude, dando loro una cornice, le vicende della figlia e della nipote, in un vorticoso gioco di equivoci fra stand up comedy e umorismo ebraico.
È simpaticamente spietata: quando la cara amica di gioventù, che ha spostato una donna, naturalmente studiosa femminista della Bibbia, le dice di lei che “ha una luce interiore”, pensa immediatamente: “Ce l’ha anche un frigo”. E se ribadisce che “è molto profonda”, Tzipora di rimando pensa che “anche un bidone è profondo”.
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Il gioco d’artificio a volte è persino eccessivo, nel suo non dare tregua al lettore, con battute (fatalmente) non sempre originali; come l’involontario “che cosa mi metto” in risposta a Dio che ha autorizzato Tzipora a fargli una domanda sui massimi sistemi garantendole una risposta “piena e sincera”. Quanto a Gabriela e a Noa, che non riesce mai a stare zitta e finisce in un disastroso ritiro new age dedicato al silenzio, al lettore il piacere di scoprirle adeguatamente. Le loro storie, pur dotate di autonomia, suonano come una godibile preparazione per il gran finale: quello dove le tre donne nello scorrere delle ore avranno finalmente tessuto il loro filo, come le Parche.
Attraverso di loro Chen sembra interrogarsi su che cosa significhi, oggi, essere israeliani.
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