“Ne scriverai?” di Herman Koch è nato dopo la scoperta di un cancro alla prostata. Cosa fare quando una diagnosi medica stabilisce che la tua vita potrà continuare per altri cinque, massimo dieci anni? L’autore del bestseller “La cena” risponde a questa domanda con pagine intrise di ricordi e riflessioni, nelle quali la scrittura immersiva a cui ha abituato i suoi lettori e le sue lettrici si affianca alla triste verità che l’accompagna dal 2020. Pagine in cui riflette anche sul valore della letteratura…
Se esiste il paradiso, o una vita ultraterrena dove ciascuno degli ex viventi può recuperare un po’ di serenità, deve essere un posto dove ognuno può scegliere di essere congelato per sempre nell’età migliore della propria vita terrena.
Un eterno presente in cui, per esempio, si potrebbe scegliere di avere per sempre quarant’anni, un passato più o meno felice, degli affetti ormai consolidati, un lavoro stabile, rabbie sedate ma non troppo, la consapevolezza di chi si è, cosa ci piace, cosa vogliamo, eccetera.
Il club dei 27 sceglierebbe di vivere per sempre gli anni che precedevano appena i 27, divertimento e fama non ancora trasformati in tragedia.
Uno scrittore che è stato famoso sceglierebbe l’apice della sua carriera. Lo sceglierebbe?
Ciascuno di noi, forse, il momento in cui gli affetti più cari erano tutti in vita. E tutti il momento che precede l’esatta presa di coscienza che anche noi, un giorno, dovremo andarcene. Ma non in senso riflessivo e astratto: prima o poi tutti dovremo andarcene.
No, proprio il momento in cui magari un medico dichiara: ecco, sulla base dei dati clinici le rimangono pochi anni di vita, una forbice che varia tra i 5 e i 10 anni, se è fortunato.
In effetti è proprio quello che è successo a Herman Koch, ed è questo l’oggetto della sua indagine nel suo ultimo libro, Ne scriverai?, in libreria per Neri Pozza nella traduzione di Laura Pignatti.
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Koch non è scrittore che si debba introdurre.
La cena fu un successo editoriale fuori scala, di poco posteriore al Dio del massacro di Yasmina Reza (rispettivamente 2009 e 2006) e che, a ben vedere, anticipava di molto temi attualissimi e oggi molto dibattuti anche attraverso l’analisi di altre opere culturali. Quanto poco conosciamo i nostri figli, cosa siamo disposti a fare per proteggerli e soprattutto per proteggere la nostra reputazione, il consenso sociale di cui godiamo.
La sua cifra stilistica nei romanzi successivi si è poi consolidata intorno a una scrittura immersiva, naturalmente predisposta a evidenziare le contraddizioni sociali del tempo che viviamo, senza mai cadere nella trappola dell’ovvio, del retorico, o dei telefonatissimi contrappunti morali con cui parte della letteratura contemporanea ci delizia. Il sarcasmo intelligente è una sorta di acuta necessità per Herman Koch.
E così, questo nuovo libro, Ne scriverai? non smentisce affatto questa attitudine, ma racconta una storia diversa, una storia vera, la sua.
Herman Koch ha il cancro, alla prostata, lo ha scoperto all’inizio del 2020, ma non vuole lasciare al cancro un ruolo da protagonista. E così si chiede come possa incastrare questa nuova quotidianità nella sua. La famiglia, la moglie, il figlio, le terapie, i ricordi, il lavoro, le presentazioni, le interviste, i firma copie, dirlo o non dirlo agli amici. E come e se sia possibile raccontare la sua storia sulle pagine, in compagnia di questo comprimario certamente non atteso.
“Per cominciare comprai il giornale, nrc.next, e mi sedetti al tavolino di un bar nell’atrio della stazione con un caffellatte e un panino. Era un venerdì, cosa cui fino a quel momento non avevo pensato. Sul giornale c’era una recensione di Finse dagen scritta da Thomas de Veen. Tre stelle (che su quel giornale chiamano «palle»), così si capisce subito. C’erano parole di lode, e anche qualche critica. Lessi la recensione prima velocemente e poi ancora una volta, piano. Era in effetti una tipica recensione da tre stelle/palle. Mi chiesi per un istante se non avrei dovuto avvisare Thomas de Veen. Mi avrebbe dato tre palle anche se avesse saputo di avere a che fare con un malato di cancro? O in tal caso avrebbe rinunciato a qualcuna delle sue critiche? Ecco, le do quattro palle, Herman, ma solo per questa volta, perché ha il cancro”.
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Soprattutto i ricordi, che emergono quasi senza volerlo, come succede a un certo punto della vita di tutti, costretti a guardare un tempo passato che è mastodonticamente più esteso di quello che ci è ancora dato da vivere. Ed è giusto così, sembra suggerirci Koch, ai vecchi non si deve chiedere di stare sempre nel presente.
E al contempo anche i ricordi possono diventare fiction. Ricordiamo tutto e per intero ciò che ci è accaduto, come siamo stati, cosa abbiamo detto?
“I primi venticinque anni dopo la loro morte sognavo ancora regolarmente i miei genitori. Sognavo che non ci vedevamo da molto tempo. Come se ci fossimo tenuti nascosti l’uno dall’altro. Fortunatamente ora eravamo riuniti, seduti a tavola con un bicchiere di vino. In seguito scomparvero anche i sogni, devono aver capito che non era più realistico, né fattibile – neanche in sogno”.
E poco sotto:
“Cosa è venuto prima, il seno o il biberon? Non me lo ricordo più. E non è più vivo nessuno a cui lo potrei chiedere. In un’epoca in cui avrei ancora potuto farlo, il tema non mi interessava. Ora dovrei cercare rifugio nella ricerca, ma sono un oppositore della ricerca. Meno ricerche si fanno meglio è”.
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Koch sembra riflettere, in questa perla che è sì autofiction, un libro di memorie, chissà, anche sul valore della letteratura.
Molti anni fa Umberto Eco disse che chi legge ha la possibilità di vivere molte vite, ed è vero, naturalmente. Ma quando leggere può essere abbastanza? Quando leggere altre vite, fittizie o vere, ostacola il fluire della nostra esistenza? Possiamo rivendicare il diritto di non leggere per inventare noi stessi e, anche, per diventare buoni scrittori?
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Koch, a cui forse non è mai interessato piacere, tantomeno alla gente che piace, pare suggerirci di sì:
“Non so più di preciso quando ho scoperto il piacere di non leggere. Ci sono sempre stati momenti in cui non leggevo. Luoghi e tempi in cui avrei potuto farlo, che erano adatti per leggere. Come la distanza tra due stazioni: sei in viaggio per un’ora e mezza, fuori dal finestrino scorrono paesaggi e mucche, fossati e mulini, boschi e zone industriali, oppure, una cosa che mi è sempre particolarmente piaciuta, un’autostrada, parallela alla linea ferroviaria, con le macchine che vanno alla stessa velocità del treno, o più veloci, poi rallentano gradualmente e alla fine si fermano del tutto, mentre il treno prosegue il suo viaggio indisturbato. Avevo con me un libro. Avevo sempre un libro con me. Avevo un’ora e mezza di tempo per leggere, ma notavo che mi piaceva di più guardare le macchine, le mucche e i fossati, i boschi e i prati. Le immagini che scorrevano formavano lo sfondo dei miei pensieri. Se avessi aperto il libro, avrei letto i pensieri di un altro”.
E così Ne scriverai? diventa non solo un titolo perfetto, ma anche la scommessa di un uomo per il quale vita e scrittura sono, di fatto, la stessa cosa. Il che non significa che uno scrittore, alla fine, debba parlare necessariamente di sé stesso. Solo quando è strettamente necessario, come in questo caso.
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Fotografia header: Herman Koch, foto di Mark Kohn